Il lavoro del produttore. L'intervista ad Alessio Natalizia

Tutto quello che c'è da sapere sul nuovo album dei Drink To Me, raccontato da chi ci ha lavorato come produttore: voci, synth e funghetti allucinogeni compresi. La nostra intervista ad Alessio Natalizia.

Alessio Natalizia
Alessio Natalizia

Continuano le nostre interviste ai produttori: dopo Don Joe, Carlo U. Rossi, Tommaso Colliva e Paolo Baldini (le trovate tutte qui) abbiamo coinvolto Alessio Natalizia. Oltre ai tanti progetti (Banjo Or Freakout, Walls, Not Waving) uno dei suoi lavori più recenti è stato quello di co-produrre insieme a Marco Bianchi “Bright White Light”, l'ultimo album dei Drink To Me. Ce lo racconta.

Partiamo dal lavoro su “Bright white light” dei Drink To Me, come è nata questa co-produzione con Marco?
È nato tutto da Marco: avevano registrato dei demo, mi pare una ventina di canzoni, e ad un certo punto ha capito di aver bisogno di un aiuto esterno, qualcuno di cui fidarsi. Mi ha mandato i pezzi e devo dire che all'inizio non mi erano piaciuti: sembrava che mancassero delle cose in alcuni punti o che ce ne fossero troppe in altri. Ricordo di avergli mandato una lunghissima serie di appunti dove commentavo tutto, pezzo per pezzo.

Tu avevi un'idea precisa sulla direzione che doveva prendere il disco?
Avevo capito la direzione in cui volevano andare, ovvero la sperimentazione all'interno di una canzone e di una struttura pop. La vera svolta però c'è stata quando, arrivato in studio, ho visto questo synth modulare gigantesco che aveva Pier e che inizialmente usava solo per creare dei tappeti sonori. Quella è stata la svolta del disco. La prima sera delle registrazioni il loro unico pensiero era di di fare festa con dei funghi allucinogeni, giusto per farti capire con che piede partivamo. Io ho detto che era meglio mettersi a lavorare, che avevamo solo 4-5 giorni per far tutto, ecc ecc. Ci siamo seduti al synth e con quello abbiamo riscritto da capo “Twenty Two” e in quel momento le registrazioni hanno preso la direzione giusta.

Marco inizialmente ti aveva fatto delle richieste ben precise?
Voleva aggiungere uno sguardo più arty e anche un aspetto più dritto e techno. Non si può dire che questo sia un disco techno, ovviamente, però una buona parte del lavoro è stato fatta sul ritmo andando a togliere parecchie cose per farlo diventare più lineare. L'altra parte del lavoro è stata sulla voce: le linee melodiche di Marco sono veramente belle, davvero, ma aveva inzuppato tutto di riverbero e delay. Per me è sempre una scelta sbagliata, fai un disco che rischia di suonare vecchio già dopo due anni.

Il lavoro sulle voci mi interessa, penso siano il punto forte del disco.
Era già tutto nei demo, io non mi prendo nessun merito a riguardo. Oltre alla cosa dell'eccessivo riverbero c'era anche un problema nel modo in cui cantava: inizialmente era aggressivo, quasi punk, e uscivano molte frequenze medie che alla lunga potevano annoiare. Se la voce ha sempre le stesse frequenze alle fine ti sembra tutta uguale anche se la melodia è bella. Allora l'ho convinto a cantare in una maniera più sensuale, senza aver paura di far uscire i sentimenti. Su “Secret”, ad esempio, ci abbiamo lavorato tanto e alla fine la voce è diventata molto soft, ho messo anche messo un slapback sulla voce, un delay cortissimo, tipo Phil Spector. Mi piace come è venuta, è una delle mie preferite.

Tu hai posto delle condizioni prima di lavorare?
Se devo lavorare ad un disco devo avere carta bianca. Avendo già avuto esperienza con altri produttori per i miei gruppi, ormai mi è molto chiara questa cosa: se tu come artista non sei aperto a farti consigliare, o quanto meno a ricevere un altro punto di vista, non ha senso che lavoriamo insieme. Una persona esterna serve, anche un solo un amico che prenda in mano la cosa al posto tuo. Ad esempio, adesso sto lavorando ad un nuovo disco di Not Waving e dopo un po' l'ho dovuto abbandonare, l'ho dato a un ragazzo e se lo sta mixando lui.

Conoscendoti la chiamerei pigrizia.
(ride, NdA) Ma non è vero, dai. È che arrivi ad un limite dove non riesci a capire se una cosa è bella o no. Tieni presente che quando fai un disco ogni canzone, in media, la ascolti per almeno 15 ore di seguito. Dopo un po' ti sei proprio annoiato di sentirla, perdi ogni tipo di giudizio, per te è una cosa sentita, risentita e strasentita. 

E i Drink to Me come le sopportavano 15 ore di lavoro consecutive?
I Drink To Me, in realtà, sono dei gran lavoratori. Mi ricordo che per “Endless Endless” abbiamo iniziato a lavorarci intorno alle tre di notte e abbiamo poi finito alle sei di mattina. Di norma sono il fonico e il produttore quelli che vogliono andare a dormire presto, i gruppi sono sempre quelli che vogliono lavorare ad libitum. Alla fine è la tua musica e non ti stanchi mai.

Marco aveva da poco finito il suo primo album solista a nome Cosmo, non c'era il rischio di ripetere le stesse cose fatte con quel disco?
Ti faccio una premessa: è raro trovare una band che si fida del proprio leader - leader detto tra mille virgolette, sia chiaro – e nei Drink To Me c'è questo rapporto di fiducia molto bello. Alla fine sono un gruppo di amici che si conoscono da sempre, si fidano di Marco, lo riconoscono come il capo della banda, ma allo stesso tempo ognuno mette del suo. Detto questo, anche se ha sicuramente più voce in capitolo degli altri, non direi che è un disco di Marco: c'è moltissimo di Pier al synth modulare, Francesco con le batterie è bravissimo, Rob ha proposto anche delle linee melodiche.



Leggendo un po' di interviste che hai fatto per il progetto Not Waving è ben chiaro che l'aspetto emotivo per te è molto importante. Quando fai il produttore, e le emozioni sono di qualcun altro, come funziona?
È un ottima domanda. Diciamo che resta ugualmente una cosa abbastanza spontanea, non ci pensi più di tanto. Ti direi che mi concentro di più su cosa voglio far uscire da quel pezzo, a livello di suono ma anche a livello emotivo. Di solito cerco di individuare una sola idea per ogni canzone, che sia un'emozione ma anche un suono. Solitamente diventa la chiave che ti svolta il pezzo.

Mi dai un consiglio utile per un ragazzo che vuole far musica in camera sua e non può spendere soldi?
Deve fare una musica molto, molto valida. Si scarica un software, fa tutto in camera e poi lo vende su bandcamp. Lo so che sembra un consiglio banale ma considerando la quantità enorme di musica che esce ogni giorno ormai è l'unica cosa che conta. Puoi essere scelto dai blog, puoi anche finire su Pitchfork o stronzate americane, ma non vai da nessuna parte a meno che non faccia musica veramente veramente figa. Ormai la stampa musicale ha sempre meno peso: quando ero uscito con Banjo Or Freakout ed ero stato citato da Pitchfork mi ero accorto che davvero spostavano moltissime persone, oggi non più, al suo posto ci sono Twitter e Facebook. E mi sembra anche giusto, perché se ti piace una cosa lo capisci da solo oppure ti fai consigliare dai tuoi amici, non ti serve il parere di Fact Magazine o di Pitchfork.

E se per natale il nostro ragazzo riceve 100 pound?
Gli direi di comprarsi dei dischi. Una cosa di cui mi sono reso conto è che gli ascolti sono fondamentali: girando gli studi, lavorando con tanti produttori e fonici diversi, ho capito che puoi anche essere un genio del mixer ma se non hai ascoltato i dischi giusti è inutile. 100 pound? Comprati i 10 dischi dell'isola deserta.

Il nuovo genio under 25 che a rivoluzionerà tutto chi è?
Non saprei, ormai siamo a tanto così dal momento in cui le label firmeranno il dodicenne che suona in cameretta. Non sto scherzando, ci sono etichette indipendenti che seguono già strategie da X Factor. Più in generale, penso che le grandi label indipendenti abbiano finito le cartucce: se pensi al tipo di campagne fatte da Warp o Domino, mi fa strano pensare al nuovo disco di Aphex Twin presentato con un dirigibile nel centro di Londra o i Boards of Canada che fanno l'ascolto del nuovo album nel deserto. Sono cose che facevano anni fa le major, non mi esaltano così tanto. Ci sono delle etichette piccole che seguo e che trovo interessanti, finita l'intervista ti mando una mail (le trovate in questo articolo, NdR). Il nome che mi piace di più al momento è Powell, è molto estremo ma è molto figo.

Quanto sei costato alla BBC per la colonna sonora di "Good Cop"?
Meno, molto meno, di quanto tu possa pensare. Devo dire che è stato un lavoro interessante ma se all'inizio ci ho messo il 100% di me stesso, il risultato finale si aggirava intorno al 20. Tutto è partito dal regista che era un grande fan delle mie cose, mi ha contattato perché voleva un tocco più elettronico nella colonna sonora. Non so se la Rai sia ancora così, ma la BBC resta di fatto un'istituzione vecchia. Ai livelli più bassi sono tutti giovani ed entusiasti ma quando sali i gradini e arrivi ai livelli decisionali trovi persone di una certa età che cercano un certo tipo di format, anche a livello musicale: se fai una scena thriller deve suonare come il classico film thriller. Inizialmente mi avevano dato massima libertà creativa ma poi quando gli ho proposto le mie cose mi hanno frenato parecchio.

E tieni presente che stai parlando della rete che ha prodotto "Sherlock", che è una delle cose più belle di sempre scritte per la tv.
Si certo, poi lo stesso regista di "Good Cop" ha fatto "Luther".

Che nella mia classifica personale si posizione tra le prime cinque. E comunque, giusto per tua info: no, la Rai non è come la BBC.
Ok. (ride, NdA)

Quali sono le tue entrate principali a livello economico?
Diciamo che ho un po' cambiato il mio modo di intendere e di vivere la musica: dopo Banjo mi ero stufato di andare in giro a suonare, e normalmente sono quelli i soldi che ti aiutano a campare. Al momento sto facendo lavori in studio, o per la TV, anche cose dove la creatività c'entra poco. Oppure installazioni, c'è stato questo evento che si chiama House Peroni dove per un mese intero Peroni affitta una casa nel centro Londra e ospita quella che potrebbe essere definita l'eccellenza italiana, da design al cibo, all'arte. Io ho fatto la colonna sonora della casa, in ogni stanza c'è un mio pezzo diverso.

È così facile fare il musicista?
Che ti devo dire, mi contattano. Sono anche vent'anni che faccio musica, non vorrei sembrare super arrogante ma se continuano a coinvolgermi in questi progetti devo immaginare di aver fatto musica decente, o quanto meno che ha senso di esistere.

Dobbiamo chiudere ma una domanda sul progetto Not Waving volevo fartela. Hai fatto un intero disco sul concetto di "Remote viewing" e un altro sulle spie. Sei affascinato dalla guerra fredda?
Forse è stata più una mia esigenza creativa, volevo avere in testa un'immagine e su questa scrivere la musica. Non la prenderei neanche troppo sul serio, o meglio, l'immaginario di una canzone è sempre una cosa seria ma tu, da ascoltatore, devi sentirti libero di associare la musica a cosa vuoi. Dal canto mio ho fatto un sacco di ricerche sul remote viewing. Negli anni '70 il governo americano pagò un sacco, ma un sacco di soldi, finanziando questa teoria che è al limite del fuori di testa. C'erano questi scienziati a cui venivano assegnato il compito di immaginarsi la posizione esatta e le fattezze di una persona. Ad esempio potevamo chiedere: disegnami Sandro in questo momento a Roma e loro, anche se non ti avevano mai visto, tentavano di ricostruire la tua faccia e la tua posizione precisa. Non è tanto la teoria in sé che mi interessava ma quella linea sottile tra il vero e il ridicolo attorno all'idea che un essere umano potesse davvero riuscire, tramite determinate strategie di immaginazione, a localizzare oggetti che non ha mai visto. Sembra tutto una grossa esagerazione ma sono cose accadute realmente, ci sono interi fascicoli dell'FBI e della CIA dedicati a questi esperimenti. Il governo investì milioni di dollari nella speranza che questi scienziati visionari trovassero i criminali di guerra.

In “Umwelt”, il disco dedicato al remote viewing, tu associ ad ogni canzone un luogo. Prendiamo uno dei miei pezzi preferiti, “Nemrut Dagi”, mi scegli su Google immagini la foto che meglio lo rappresenta?
Ti spiego, prima ho dato dei titoli provvisori con dei numeri e dopo ho ragionato sui luoghi a cui queste canzoni potessero assomigliare. E secondo me Nemrut Dagi è il posto perfetto per quel pezzo, sai sono delle statue enormi, ascolta il pezzo guardando questa:



Mi consigli tre dischi prodotti veramente bene?
Per me è difficilissimo fare un discorso solo legato alla produzione. Ne parlavo anche con i Drink To Me: loro si erano fissati con il “deve suonare bene”, secondo me non è così importante, infatti ad un certo punto gli chiesi quali erano i loro dischi preferiti ed erano tutti dischi prodotti malissimo. Quindi, per rispondere alla domanda, ti dico i miei tre dischi preferiti di sempre: il primo dei This Heat, erano avanti anni anni luce. Poi Arthur Russell, “World of Echo”, che è geniale, solo violoncello voce ed effetti. E poi uno che a Rockit piacerà: “Tunedless” di Roberto Donnini, un disco del 1980, solo due tracce, spaziale.

L'esperienza Banjo Or Freakout la dai per conclusa?
È stata un'esperienza bellissima, soprattutto per la casualità con cui è nata. Ero appena arrivato a Londra, non avevo la minima intenzione di iniziare un progetto musicale e pian piano tutti hanno iniziato ad darmi attenzione. Poi quando ho fatto il disco sono venuto a contatto con un mondo che non era il mio, tutti quei manager, le etichette... Con Walls ora scriveremo il terzo disco, chiuderemo la trilogia e poi vorrei considerare concluso anche quel progetto. Sto facendo un altro album di Not Waving e farò il volume II della compilation “Mutazione” dedicata al punk italiano. Se dopo tutto questo riuscirò a scrivere un vero disco pop allora uscirà a nome Banjo Or Freakout. Magari non uscirà mai.

Serve avere tutti questi progetti?
Fare tante cose ti può garantire una maggiore possibilità di riuscirci. Viviamo in un mondo musicale dove più roba fai, più hai la possibilità che un progetto vada in porto. Ma la cosa più importante penso sia sviluppare una personalità artistica...

Disse quello a cui basta accendere il telefono e ricevere proposte di lavoro.
(ride, NdA) Non voglio sembrare naïf o decisamente scontato, ma è vero: devi sempre dire qualcosa che per te conta davvero, altrimenti non sei credibile. In Banjo or Freakout avevo messo il 100% di me, quando ha iniziato a non rappresentarmi più l'ho messo in pausa. Se la musica non la fai per te non ha senso di esistere.

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L'articolo Il lavoro del produttore. L'intervista ad Alessio Natalizia di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2014-12-01 10:55:00

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