Tora! Tora! festival - Padova - Sherwood festival



Super Elastic Bubble Plastic
Mantovani, già non si capisce che c’azzecchino con Padova e il Veneto, a meno di improbabili ridefinizioni dei confini regionali. Vista l’abbondanza di ottime band nordestine, ci si aspetta che siano incredibili, tanto da forzare gli spazi che il ‘Tora! Tora!’ concede agli organizzatori locali per esibire le glorie locali. Invece, una delusione! Il loro hard/noise/blues/nu-metal (sì, sì… fanno di tutto un po’!), ora alla Jon Spencer, ora alla Verdena, è noioso e banale, senza la minima scintilla d’inventiva. Pestano, questo sì (sbatociano, si dice da queste parti), hanno una bella ‘botta’, ma da qui ad aver qualcosa da dire in musica ce ne corre. La gente gli tributa applausi compassati, quasi di simpatia, e mormora. Scelta criticabilissima, ma pare siano amici di una band il cui nome è bello tacere. Mah!

A.D.
Essendo di Cavarzere, almeno la definizione d’origine ce l’hanno. ‘Crew disobbediente’, come si definiscono, offrono un incrocio tra hip-hop e metal che può ricordare i tedeschi H-Blocks, ma lo sbadiglio è dietro l’angolo. Però in fondo una giustificazione, una ragion d’essere ce l’hanno: ci si trova allo Sherwood festival, che è una festa politica, e i loro testi politicissimi (e ampiamente condivisi da chi scrive) ne fanno un po’ la versione 2003 del cantautore con la chitarra degli anni 70. Ma la domanda sorge spontanea: su due posti disponibili, escludendo i ‘già famosi’, i ‘già impegnati’ in altre date del Tora Tora (Elle, Estra, e GoodMorningBoy) e chi ci ha suonato l’anno scorso ([K]), uno spazietto per Travolta, Slumber, Fujiko, Lola Rent, Diva, Piol, Bra Deep O’ Missile, Es, Kleinkief, Hop Frog & Mr. K, Acajou, Ojm, Libidomeccanica, Valentina Dorme, Northpole, Non Voglio Che Clara, Ensoph, tanto per citare alla rinfusa i primi che vengono in mente, proprio non c’era? Tanto più che al ‘Tora! Tora!’ padovano c’erano Verardi, Morgan, Agnelli, e pure Giorgio Canali che si aggirava tra il pubblico. Cioè: fior di produttori. Perché tanto cupio dissolvi? Comunque, niente drammi, tutti si può sbagliare: sarà per il prossimo anno.

Lotus
Sono loro che aprono il festival vero e proprio, alle 18.15. La nuova creatura di quel geniaccio di Amerigo Verardi, figura storica dell’underground, il Syd Barrett italiano, fondatore di Allison run e Lula, piace al pubblico. La psichedelia è messa un po’ in disparte, e questo dispiace, ma il sound teso e affilato come una lama di coltello, unito a un grande attitudine pop, fa il suo effetto. La mano di Manuel Agnelli, che ha cantato nel disco, si sente, e a tratti i Lotus sembrano degli Afterhours minori, come in “Qualità”. Ma insomma, Verardi è una vecchia volpe e sa quello che fa. “Yeahjaouijsi” riporta alla mente i Dinosaur Jr., mentre “Trasparenti ma non liberi”, classica ballatona di derivazione beatlesiana, riporta allo stile Verardi. “Io sono il re”, mid tempo dal bellissimo finale, e la sognante “Lazy jane”, conquistano definitivamente il pubblico.

Fiamma
Il suo incrocio tra dance elettronica e etnica acustica a base di zampogne, fisarmoniche e campionatori risulta un po’ fiacco. Da ammirare per la voce potentissima - i cui sforzi sono vanificati dalle stecche allucinanti di Alberto Cottica ai cori su “Non c’è tempo” -, ma Fiamma nel complesso delude. Forse più che da festival, la sua è una proposta da club: i brani più ritmati si avvicinano alla sufficienza (“Femme virale” e “Scusa, ma”), ma per il resto si rimane perplessi. “Sidun”, cover di De Andrè, è, diciamolo, una lagna. Però la ragazza è vocalmente dotata e decisamente simpatica col suo fare ironico da balera (“E andiamo col secondo pezzo”). Crescerà.

Mambassa
Bene i piemontesi, dal bel tiro pop, degno di maggior fortuna in classifica. “L’alieno” e “Il cronista” piacciono di più dal vivo, “(Lo scontro)” esibisce un bel ritornello, “Splendida cometa” trascina nel battimani il pubblico. E Stefano Sardo tiene bene il palco, specie quando fissa cattivo il pubblico. C’è da sperare che le vicende del mercato non condannino i Mambassa al ruolo di ‘eterna promessa’, perché sono una band qualcosa da dire lo ha.

Bugo
Un uragano che si abbatte sul ‘Tora! Tora!’, trascinando sotto il palco anche i più indolenti, strappandoli al rito delle canne sulla collinetta, impresa ai confini della realtà. Camicia gialla e pantaloni rosa baby da ‘esperto-di-moda-quale-io-sono’, improvvisa la scaletta, fidando su una band poderosa e precisissima. Pirotecnico, offre la parodia dei miti del rock, dal guitar-hero alle pose da Roger Daltrey, imita Hendrix a Monterey, fa le capriole, rovista sotto i monitor per esclamare, a metà canzone, “Non c’è un cazzo qui!”. Meraviglioso incrocio tra Pippo e Paperoga (due ‘giusti’), con quella voce a metà fra Lucio Battisti e Rino Gaetano, canta la melodia dolcissima di “Con il cuore nel culo”. Arringa il pubblico a modo suo: “Io sto bene qui. Voi state bene lì?”. E poi annuncia: “Giuseppe alle tastiere sale sul palco”. È Morgan, mogliettina a fiori, che su un organetto - adorno anch’esso di fiori - dà vita a una scatenata versione beat garage alla Fuzztones di “Casalingo”. Bugo introduce nel ritornello la variante “Veramente, veramente”, facendo il verso a Mario Venuti. Poi urla “Bastaaaaa!” e finisce il pezzo. Chiede: “Vi piace Giuseppe…sì o no?”. All’immancabile “sììììì”, risponde: “Ruffiani.” Parte “Posacenere”, anch’essa garage beat, con Morgan-Giuseppe che fuma due sigarette insieme e sbatte la testa sulla tastiera. Un delirio. Manca un minuto: via con “Pasta al burro”, col pugno chiuso alzato, parodia dei rapper impegnati. Inarrivabile genio, Bugo non è assolutamente inseribile nel filone demenziale Skiantos/Elio & Le Storie Tese. È piuttosto l’erede indiscusso di Rino Gaetano. Che Dio ce lo conservi.

Giardini di Mirò
Compito difficile, per una band prevalentemente strumentale come loro, alfieri di una musica fatta di nuances delicate, crescendi e diminuendi, reggere il palco dopo Bugo. E invece, niente di più facile. “Trompso is o.k.” stordisce il pubblico, “Given ground (oops… revolutions on your pins)”, il sognante nuovo singolo, lo ipnotizza. Ma il pezzo forte è “A new start”, dai suggestivi motivi di tromba e violino, supportati da una eccezionale performance alla batteria del nuovo acquisto Francesco Donadello, gloria locale, che emoziona non poco per l’emotività che conferisce al brano. Il falso finale alla Sonic Youth, seguito da uno sviluppo melodico sussurrato in coro, turba anche visivamente, con tutta la band inginocchiata sul palco. Bravi.

Linea 77
Platea piena per loro, kattivissimi come non mai (“Non si sente un dannato cazzo quassù”, rivolti al pubblico) e prime file che pogano scatenate come da manuale. Brani durissimi e pieni di energia, tratti dagli ultimi due album, anche se il genere è un po’ ripetitivo (ma qua si entra nei gusti), sostanziano una performance indiavolata. Spicca la versione core di “Walk like an egyptian”che fu delle Bangles, già in “Ketchup suicide” del 2001. L’incredibile risposta del pubblico pare porre le premesse per il consolidamento della fama dei precisissimi Linea 77 (strumentalmente impressionanti) anche sul suolo patrio, dopo anni di consensi riscossi solo all’estero. E sarebbe ora.

Punkreas
Altro rito del pogo. Si sa, ormai lo ska core punk nei centri sociali è quello che fu il liscio nelle case del popolo degli anni ‘50. Non è un genere per palati raffinati, ma per giovani in cerca di scosse di adrenalina, riferimenti ideali, ballo e divertimento. I Punkreas queste cose le danno tutte, e meglio di chiunque altro in Italia. Onore al merito.

Morgan
Una lezione di stile, un concerto di altissimo livello, con una interpretazione pianistica e vocale di “Cieli neri” e “Me” che lascia attoniti. Il set è bellissimo, addobbato a ritrarre un appartamento signorile e un po’ demodé che si affaccia sulle case popolari degli anni ‘50. Fiori dovunque, lampade a terra, candelabri, band elegantemente vestita (tranne Pacho, che interpreta un santone indiano). “The Baby” è un po’ gigiona e introduce una divertente versione funkeggiante e groovy di “L’assenzio”. Morgan, in completo nero e camicia rossa, siede al piano e accenna “Pregherò” di Celentano (in originale “Stand by me” di Ben E. King), a conferma del suo flirt con la tradizione italiana - anche se tra il pubblico, qualcuno la scambia per “Sapore di sale”: urge un ripassino. Quindi presentazione della band, i Jaguars, e ci si chiede se sia un caso o un omaggio a Padova, visto che i patavini Jaguars furono nei ‘60 tra gli alfieri del beat italiano. Rimarrà un mistero. E un applausone tocca a Daniele Dupuis, presentato come Megahertz, gloria locale alle tastiere della band morganiana (morganatica?). Quindi, introdotta dalle parole “…this is not a rebel song” (fa il verso agli U2), parte “Altrove”, singolo bellissimo. Si finisce con “Il nostro concerto” del compianto Umberto Bindi, con tanto di assolo di theremin.

Afterhours
Strepitosi. Partono con la novità del live estivo, “La canzone di Marinella” di De Andrè, stravolta e distorta, depurata dalle chiuse banali delle frasi melodiche, rivelata nella sua intima bellezza, liberata dalle croste del tempo. “Questa la cantava sempre mia madre quand’ero piccolo”: la presenta così, Manuel Agnelli, compiendo il suo personale abbraccio alla tradizione italiana dopo quelli di Fiamma, Morgan e, paradossalmente, Bugo. “Quello che non c’è”, come al solito sentitissima, splendido inno nietzschiano, “Non sono immaginario”, “La verità che ricordavo”, “Male di miele” con quel suo riff affettuosamente rubato a “Ohio” di Neil Young, “Bunjee jumping” e “Bye bye Bombay” scorrono via in un attimo, cantate a memoria da un pubblico adorante, grazie alla capacità scrittoria di Agnelli di unire efficacia sloganistica a profondità di pensiero e liricità della forma. Come annunciato, arriva Raiz degli Almamegretta: connubio imprevedibile e strano, ma che funziona a dovere. Le versioni rock di “Gramigna” e “Brucia” non sfigurano con gli originali, e il partenopeo offre una bel duetto con Agnelli su “Non è per sempre”. Uscito Raiz, c’è ancora tempo per “1.9.9.6”, “Mio fratello è figlio unico” di Rino Gaetano e una intensissima “Voglio una pelle splendida”. Chiusura con tutti sul palco, e Agnelli che ridacchia un “Mi sento la Cuccarini” durante i ringraziamenti.

Cifra comune della serata? Il passato della musica italiana che si raccorda al suo presente.



“Volevo ringraziarvi per essere qui e non in piazza a vedere i Toto. Loro sono gratis però: se volete andarci…” La risata dei 13.500 presenti che segue le parole di Manuel Agnelli degli Afterhours, mente del ‘Tora! Tora!’, festival andato in scena sabato 12 luglio allo Sherwood Festival di Padova, dice tutto sullo stato di salute del rock indipendente: ottimo.

E sì che la concorrenza stavolta era davvero forte: quei babbioni dei Toto gratis in Prato della Valle, Battiato in veste di regista all’Arena romana, una parata di band locali in provincia, i Radiohead a Ferrara. Il calo dei paganti (12€ per biglietto) in fin dei conti non è stato così grosso (l’anno scorso eravamo in 18.000), sicché si può parlare di ‘consolidamento’. Aperti i cancelli alle 16.30, sotto un cielo nuvoloso carico d’afa, i primi contingenti di giovanissimi hanno preso posto sotto il palco, sull’asfalto del parcheggio dello Stadio Euganeo, e sulla collina erbosa antistante, pronti a gustarsi le nove band del Tora tora più i due ospiti locali, che partono alle 17.30.

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L'articolo Tora! Tora! festival - Padova - Sherwood festival di Renzo Stefanel è apparso su Rockit.it il 2003-07-12 00:00:00

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