Perché compriamo dischi che non ascolteremo mai

Una ricerca rivela che il 26% delle persone compra dischi che non ascolterà mai. Ecco perché non è un dato disastroso come potrebbe sembrare.

Un negozio di dischi
Un negozio di dischi - Lazy Oaf
19/08/2014 - 16:09 Scritto da Nur Al Habash

Durante l’ultimo anno sono state pubblicate dozzine di studi sulle nostre abitudini di ascolto musicale, e tutte hanno registrato pressappoco le stesse macro-tendenze comportamentali: lo streaming al momento è il nostro modo preferito di consumare la musica, raramente riusciamo ad ascoltare un album per intero (a volte facciamo fatica anche a terminare le singole canzoni), abbiamo quasi smesso di scaricare mp3 (chi l’avrebbe detto 5 anni fa?), gli adolescenti si servono quasi esclusivamente di video su YouTube, acquistiamo sempre meno cd ma allo stesso tempo siamo affascinati dai vecchi supporti come la musicassetta e soprattutto il vinile, che cresce ogni anno nelle statistiche di vendita del mercato discografico.
Fin qui ci siamo.
Qualche mese fa però sono stati diffusi i risultati di uno studio che ha rivelato qualcosa di nuovo e per alcuni versi abbastanza insolito circa il nostro rapporto con la musica: secondo una ricerca dell’agenzia ICM, quando acquistiamo una musicassetta, un cd, o un vinile è assai probabile che non lo poseremo mai sul giradischi o nello stereo per suonarlo.
Per quanto possa sembrare un’assurdità, quasi una contraddizione in termini, i dati parlano chiaro: il 26% degli intervistati nella fascia 18-24 anni nell’ultimo trimestre ha comprato musica senza alcuna intenzione di ascoltarla, mentre la percentuale tra la fascia d’età 25-34 abbassa leggermente la media al 15%; per il 53% si tratta di acquirenti di vinili, per il 48% di cd e per il rimanente 23% di musicassette. È probabile che tra questi numeri rientrino anche alcuni collezionisti, ma riflettendoci sopra ci si accorge di come anche noi potremmo rientrare facilmente nella statistica.

Penso ad esempio al giorno in cui mi decisi a comprare un giradischi, che casualmente ha coinciso con il giorno in cui mi resi conto che i vinili sul mio scaffale cominciavano ad essere un bel po’ e che non avevo mai avuto la possibilità di suonarli (per la cronaca: dopo aver cambiato casa cinque volte in due anni, vinili e giradischi sono parcheggiati a casa dei miei ad attrarre polvere); mi basta anche ricordare tutte le rare volte che nell’ultimo anno ho acquistato dei cd per poi lasciarli immobili in una pila, a volte coperti ancora dal cellophane. Sono delle abitudini molto poco eleganti, è vero, ma il punto del discorso è che non sono affatto indicative della frequenza con cui ascolto musica o della mia voglia di sentire un disco per intero.

È molto naturale farsi trascinare dalla retorica dei “bei vecchi tempi” e inarcare la bocca con disgusto di fronte a cotanta superficialità, ma forse vale la pena provare a capire in che modo stanno cambiando i nostri ascolti e il nostro rapporto con la musica. Il primo aspetto, il più evidente e per alcuni versi anche il più facilmente criticabile, è che questa tendenza testimonia come i dischi siano ormai divenuti degli oggetti di arredamento: nel momento della scelta di un disco da acquistare siamo orientati su quello con la copertina più originale, scenografica e attraente. E se non bastasse lasciarlo casualmente in bella vista nel salotto di casa, da qualche anno a questa parte si trovano anche delle vere e proprie cornici per vinili, come questa in vendita su Urban Outfitters.
È un po’ lo stesso motivo per il quale in molti acquistano dei poster vintage o delle vecchie insegne trovate ai mercatini dell’usato per decorare la propria casa, e poco importa se un tempo servissero solo a indicare il barbiere del paese: sono a tutti gli effetti opere d’arte decorativa ad un prezzo più che abbordabile, e il vinile al contrario dell’insegna del barbiere ha anche il vantaggio di portare con sé un immaginario (e spesso una narrativa) socialmente riconosciuto nel quale identificarsi.

Probabilmente questo è uno degli elementi chiave per andare oltre i numeri dello studio dell’ICM: la componente sociale, il volersi identificare con un preciso immaginario che spesso un disco porta con sé, il tentativo di essere percepiti dagli altri come affini a quel mondo. Ovvero un meccanismo vecchio quanto la musica stessa, che è passato attraverso controculture, vocabolari, tagli di capelli, trucco, vestiti, scarpe, e infine t-shirt, queste ultime ancora piuttosto utilizzate a questo scopo ancora nel 2014 – seppur prevalentemente da adolescenti con un gran bisogno di un qualche tipo di riconoscimento sociale e dagli iper-appassionati di musica (nel momento in cui sto scrivendo, metà della redazione che mi circonda indossa t-shirt di band).

La tecnologia dei nostri anni ha soddisfatto questo desiderio di identificazione e riconoscimento con il meccanismo della condivisione: ogni volta che ascoltiamo una traccia, questa diventa immediatamente nota a tutti i nostri contatti online, con il risultato però che il sistema si è talmente inflazionato da non servire più al suo scopo originario. Come si fa a definirsi attraverso la musica se i servizi di streaming pubblicano tutte le tracce che ascoltiamo, e non quelle per noi più rappresentative o preferite? E anche se disattivassimo tutti i tipi di condivisione automatica e ci limitassimo a pubblicare solo una selezione parsimoniosa dei nostri pezzi del cuore, affogherebbero comunque in timeline inondate da contenuti di ogni tipo diventando perfettamente invisibili agli occhi del mondo, o anche solo a quelli di chi conta per noi.
Per questo, avere dei vinili in casa, specialmente se esposti in bella vista come dei quadri, serve anche a riportare su un piano esclusivo, intimo e depurato il nostro bisogno di definirci, seppur circondati dagli stessi identici mobili Ikea del nostro vicino di casa.

Cercare di collegare questa tendenza “ornamentale” ad una disastrosa perdita d’interesse per la musica in sé è un esercizio di indignazione inutile, anche perché non è la prima volta che la nostra attitudine nei confronti dei prodotti musicali subisce delle svolte apparentemente bizzarre. Come fa notare anche Luca Castelli sul suo blog, qualcosa di simile avvenne non troppi anni fa con l’avvento di Napster, eMule e il P2P, quando accumulavamo librerie strabordanti di cartelle e sottocartelle di dischi senza avere poi modo o tempo di ascoltarli tutti: “La percentuale degli MP3 ascoltati rispetto a quelli "scaricati, archiviati & dimenticati" scese rapidamente verso temperature prossime allo zero. Non perché l'utente medio non ascoltasse più musica: molto probabilmente ne ascoltava più di prima. Da un certo punto di vista, l'avvento dello streaming e il suo progredire rispetto al download ha contribuito a ricalibrare questo rapporto: non si producono più megavolumi di MP3 inutilizzati.”
L’interesse nei confronti della musica non solo resiste, ma grazie alle nuove tecnologie unite all’abbassamento drastico dei prezzi sembrerebbe diventare sempre più diffuso e popolare. È solo sempre più difficile capire quali tendenze, forme e strade stia prendendo.  

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L'articolo Perché compriamo dischi che non ascolteremo mai di Nur Al Habash è apparso su Rockit.it il 2014-08-19 16:09:00

Tag: storie

COMMENTI (6)

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  • simo1 10 anni fa Rispondi

    stai forse dicendo che - statisticamente parlando - c'è una parte di umanità che si avvicina e frequenta il mondo della musica con superficialità e secondo logiche consumistiche? ...ma non mi dire!!

    la parte dell'articolo che preferisco è quella sulle T-shirt di band indossate da "adolescenti in crisi d'identità"... La cosa ridicola è il tentativo di guadagnarsi la redenzione di metà della tua redazione attribuendo loro la connotazione di iper-appassionati di musica. Ahahah... tentativo fallito! ;-)

    credo che sarebbe bellissimo se tutti quanti, un giorno, decidessimo "ognuno di farsi li cazzi sua" in materia di scelte d'abbigliamento altrui.
    Dove l'ognuno è un rafforzativo.

    Perché un album - se te lo senti per intero - è una cosa tua. Intima. Rarissimamente condivisibile con qualcuno. Una cosa che fai nelle 4 mura... quando hai del tempo da dedicarci. come un rito.

    Facebook, le playlists, il P2P, il tasto skip, la puntina di diamante su e giù, il fast forward, il rewind e il contagiri sul mangianastri appartengono all'evoluzione tecnologica della riproduzione musicale, tutto il resto è costume e non c'entra niente con la musica.
    chi ascolta ascolta... chi consuma consuma.

    cmq devo dire... carino 'sto articolo.

  • rockitadmin 10 anni fa Rispondi

    Veramente si citano delle statistiche.

  • valerio.marelli 10 anni fa Rispondi

    stai facendo uno studio sociologico basato su un campione totalmente dissociato, tu stessa/o

    articolo insomma inutile e pretenzioso, che già oltre l'isolato delle palazzine dei fuorisede iscritti allo iulm è da considerarsi fantascienza

  • alberto.rossi.549668 10 anni fa Rispondi

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  • sintetico01 10 anni fa Rispondi

    ..magari per ascoltarli quando si riparera' lo stereo;)

  • valiumpost 10 anni fa Rispondi

    Io, comunque, compro ancora molti dischi e ascolto i dischi che compro. Così, giusto per specificare.