Caruso, la prima pop star dei nostri tempi

La figura del tenore è stata reinventata di generazione in generazione fino a diventare qualcosa di molto simile alla pop star: ecco la storia di Caruso.

Enrico Caruso
Enrico Caruso
02/04/2015 - 13:30 Scritto da John Potter

La figura del tenore è stata reinventata di generazione in generazione fino a diventare qualcosa di molto simile alla pop star: i Tre Tenori, Domingo, Pavarotti e Carrera, sono stati tra i più grandi successi di marketing musicale del 20esimo secolo, e non hanno mai nascosto di essere debitori di grandi star dell'opera e del cinema come Mario Lanza. Lanza stesso riconosceva Enrico Caruso come la sua più grande influenza, tanto che interpretò il suo ruolo al cinema ricordando al grande pubblico che non c'era niente di incompatibile tra l'essere un tenore e avere una grande popolarità, nonostante il genere musicale non proprio accessibile a tutti.

Ci sono state molte dive che con le loro voci hanno segnato le prime incisioni musicali, ma è stata la voce da tenore di Caruso ad aver davvero definito gli inizi del ventesimo secolo. La sua popolarità era dovuta non solo al grande seguito di pubblico, ma anche al fatto di essere il primo artista a vendere tantissimi dischi: la prima superstar globale dell'era del grammofono. Nel mondo della musica classica non era così insolito che ci fossero delle cantanti d'opera con una grande popolarità (Adelina Patti e Giuditta Pasta sono un esempio), ma il fatto è che prima di quel momento non c'era mai stato un vero equivalente della musica pop di massa. L'intrattenimento popolare prese all'epoca una grande varietà di forme, ma il canto era quella con maggior successo e i cantanti d'opera erano semplicemente gli artisti più bravi nel campo. Tutti condividevano una vocalità molto alta, e anche un semplice personaggio da commedia musicale doveva avere una voce abbastanza potente da arrivare alle ultime file del teatro: il crooning e le sfumature più intime di una voce arrivarono solo più avanti con la diffusione del microfono, che era ancora qualcosa di futuristico nel 1921, anno in cui Caruso morì.

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Tre anni prima Caruso era all'apice della sua carriera: tra i grandi trionfi che segnarono il suo 1918 c'è il debutto alla Carnegie Hall (per uno dei più grandi galà di beneficienza dell'epoca) e la registrazione della canzone patriottica "Over There" che diventò poi il disco più venduto per parecchie generazioni, al pari forse solo di Al Jolson, primo cantante a vendere oltre 10 milioni di copie. "Over There" non era certamente un'aria da operetta, e anche se Caruso era stato praticamente un habitué alla Metropolitan Opera per i precedenti 17 anni, i suoi dischi più venduti sono stati quelli con le incisioni di canzoni più leggere come quelle della tradizione napoletana e le arie italiane. Era la sua voce che il pubblico voleva: la gente avrebbe comprato i suoi dischi a prescindere dal tipo di musica che sceglieva di registrare.

 

Quello stesso anno Al Jolson si esibì assieme ai 50 elementi della Boston Symphony Orchestra, mentre uno o due mesi dopo cantò subito dopo Caruso in una maratona di concerti a New York ospitata dell'Army Tank Corps Welfare League in aiuto dei soldati di ritorno dalla guerra. Fu la prima volta in cui Jolson pronunciò la sua famosa frase ‘You ain’t heard nothin’ yet’, una replica indirizzata a Caruso che aveva letteralmente conquistato il pubblico esibendosi nel suo repertorio di canzoni italiane di guerra e nel suo cavallo di battaglia "Over There". I due cantanti, entrambi emigrati europei in America, erano all'epoca i più famosi artisti viventi al mondo.

Anche se Jolson era più un entertainer (qui lo potete vedere travestito da nero con un'irriverente blackface) e Caruso un vero cantante d'opera, non avevano un pubblico così differente. I biografi di entrambi gli artisti sono stati piuttosto reticenti nel raccontare la relazione tra queste due grandi star, ma sappiamo che si stimavano sia come persone che come cantanti. Dopo la loro esibizione per i Tank Corps, Caruso invitò Jolson nella sua stanza d'albergo dove pare gli propose di cantare assieme a lui alla Metropolitan Opera. Probabilmente era una battuta detta per gioco, e Jolson sapeva di non poter competere con un cantante d'opera, ma il fatto che sapesse far risaltare la sua voce sopra un'orchestra di 50 elementi dimostra che non avrebbe avuto nessun problema a dominare uno spazio acustico così vasto come quello del teatro d'opera più famoso al mondo. Un duetto di Jolson e Caruso quindi non era così assurdo come si può pensare: due mesi più tardi l'artista di varietà Rosa Ponselle debuttò proprio al Met con Caruso ne "La Forza del Destino" di Verdi.

Cantanti di varietà al Met? Caruso che duetta con un cantante jazz? Come potevano accadere cose del genere?
Prima che arrivasse l'amplificazione a dividere i cantanti "veri" dagli altri, tutti dovevano riuscire a farsi sentire fino alle ultime file della sala, sia che fossero tenori, cantanti di commediole o blues men. Questo spiega perché tanti cantanti popolari dell'inizio del 20esimo secolo suonano oggi così innaturali e ampollosi: per proiettare la loro voce in un luogo molto ampio dovevano cantare con la laringe più bassa del normale. Questo gli permetteva di massimizzare l'efficienza acustica della voce e, come conseguenza, gli dava anche un suono più ricco che oggi associamo alla musica classica. Quindi Caruso e Jolson adottavano inevitabilmente la stessa tecnica arrivando ad avere molte più cose in comune di quante ne possano avere oggi Placido Domingo e Sting

 

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Una grande fetta di pubblico poteva quindi comprare i dischi di entrambi gli artisti senza essere molto consapevole dei diversi generi musicali che rappresentavano: l'idea della categorizzazione della musica tra "popolare" o "classica" non avrebbe significato nulla per l'ascoltatore medio. Caruso stesso non vedeva molta differenza tra un'aria di Puccini e una canzone tradizionale napoletana, erano entrambi 'popolari' e probabilmente apparivano nella stessa scaletta di un suo spettacolo. Verdi e Puccini sapevano (come lo sapevano le precedenti generazioni di compositori) che il segreto di un'opera di successo era quello di colpire gli ascoltatori con delle melodie forti, quelle che ora chiameremmo ritornelli, un formato che è stato alla base del successo dell'industria degli spartiti e di quella nascente dei dischi. Per ogni persona che ascoltava un'opera al Met o al Covent Garden c'era potenzialmente un numero infinito di acquirenti di dischi o di persone che avrebbero ricantato l'aria a casa suonandola al piano, assieme alle canzoni più commerciali di artisti come Al Jolson. Jolson era consapevole che l'opera aveva uno status sufficientemente importante da poterci scherzare su, come in effetti fece nell'esilarante (per l'epoca) sketch dei Pagliacci. Sapeva esattamente come funzionasse l'opera (era figlio di un cantante di chiesa, che sperava per una carriera più dignitosa per suo figlio) ma aveva anche sicuramente capito che poteva interpretare solo un ruolo: quello di Al Jolson. Caruso ebbe successo in molti ruoli (da lui accuratamente scelti), ma il suo repertorio più serio non gli diede molte possibilità di emergere come entertainer.

Questo non gli rese impossibile eguagliare in popolarità Jolson, e non solo grazie alle canzoni patriottiche e quelle della tradizione italiana: anche i pezzi che trattavano di temi più realistici e con un cantato meno ingrombrante ebbero un grande successo. Nel primo quarto del 20esimo secolo (all'incirca tra le incisioni dei primi dischi e le prime trasmissioni radio) cantanti del calibro di Caruso e Jolson avevano spesso lo stesso repertorio e lo stesso pubblico. Negli anni successivi invece i due ambiti diventeranno sempre più polarizzati: i compositori, orfani del mecenatismo ma spesso sovvenzionati dallo stato, potevano permettersi il lusso di scrivere musica che piacesse a poca gente, mentre la diffusione del microfono rendeva inutili le tecniche canore utilizzate fin quel momento, e apriva contemporaneamente le porte a nuovi suoni e nuovi stili vocali. I cantanti d'opera conservarono la loro forte vocalità, che tuttavia diminuì di generazione in generazione. La massa di ascoltatori che un tempo ascoltava Rossini e Verdi preferiva all'improvviso le hit immediate ed emozionali dei crooner, un'esperienza diretta dalla bocca dell'artista all'orecchio dell'ascoltatore che chiunque poteva godersi a casa con gli amici invece che avventurarsi nel mondo gerarchizzato dei teatri dell'opera: ecco così che "classico" divenne l'esatto opposto di "popolare". 

Caruso però non fece in tempo a vivere questo cambiamento: la sua musica continuò a risuonare anche dopo la sua morte, ma sempre più nel lato "sbagliato" delle crescenti divisioni appena formate tra i due generi. Solo adesso si sta iniziando a guardare (e ascoltare) Caruso da un diverso punto di vista, riconoscendo il giusto peso alla sua arte. Il suo cavallo di battaglia "Over There" è stato recentemente "rubato" per essere inserito in uno spot pubblicitario (che sono sicuro gli sarebbe piaciuto), ma il fatto che Ben Watt lo compari ad Elvis Presley è un segno del vero riconoscimento che solo ora Caruso sta ricevendo. L'era digitale ci permette di avere accesso infinito a tutta la musica mai registrata nella storia dell'uomo, andando oltre la tradizione e le posizioni snob, e forse è venuto il momento di liberare Caruso dal ghetto della musica classica: ai suoi tempi era davvero bravo come Elvis. 

 

 

Quest'articolo è una traduzione di quello apparso su The Public Domain Review pubblicato con licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 3.0.

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L'articolo Caruso, la prima pop star dei nostri tempi di John Potter è apparso su Rockit.it il 2015-04-02 13:30:00

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