Foxhound: vogliamo il sangue

L'intervista è lunga e vi consigliamo di leggerla fino alla fine, dove citano Feuerbach, parlano della loro attitudine dance, il funk, dopo aver chiarito che i torinesi non sono tutti musoni. I Foxhound intervistati da Letizia Bognanni.

L'intervista è lunga e vi consigliamo di leggerla fino alla fine, dove citano Feuerbach, parlano della loro attitudine dance, il funk, dopo aver chiarito che i torinesi non sono tutti musoni, anche se qui determinati monumenti degli anni 90 iniziano ad essere un po' troppo pesanti. Uno dei gruppi più interessanti di quest'anno.

La prima cosa che ho visto di voi è un filmato in cui parlate di “rockaccio italiano”, con tanto di nomi prudentemente bippati (ma non è difficile immaginare quali siano).
Filippo: In quell'intervista si andava più che altro a colpire un immaginario, perché noi siamo i primi a pensare che tutti quelli citati siano musicisti coi controcoglioni. La questione è, volendo, strettamente anagrafica, perché i nomi che tra virgolette contano in Italia, e che la fanno da padrone, sono essenzialmente vecchie glorie degli anni 90. Infatti la musica per certi versi si è un po' inceppata, si è fermata all'alternative rock anni 90. Però, parlando di piccola scena, stanno cominciando a crearsi delle realtà a mio parere davvero fichissime e Torino ne è un esempio. Noi siamo fondatori di un collettivo chiamato Woodu?, poi ci sono i Drink to Me, i Did, questo tipo di scena che secondo me sta tentando di far avanzare un tipo di immaginario che non sia quello ultraquarantenne derivato dagli anni 90. In questo senso diciamo “rockaccio”: quella frase è detta con la più estrema umiltà, sia ben chiaro che noi a quella gente laveremmo le tavolette del cesso. Detto questo, rappresentano un mondo lontano da noi, suscitano sensazioni che non ci piacciono tanto. E poi c'è sempre questa tendenza in Italia a vivere di rendita, che si avverte anche nella musica.

Pensavo proprio a questo mentre leggevo questo libro ("Mal di Torino" di Fabrizio Vespa), in cui c'è un'intervista a un importante e storico gestore di locali il quale dice, in sintesi, che la scena torinese non esiste più, che i ventenni, bene che vada, imitano pedissequamente la musica del passato e se ne fregano dei concerti. Personalmente non è un discorso che condivido, questo “io ho fatto tanto e dopo di me il deserto”.
F: Infatti, non è assolutamente vero. É vero che realtà che secondo me sono brillanti e colorate vengono calpestate da questi “monumenti” imponenti, che incombono e che hanno come fondamenta quello che hanno già fatto e non quello che stanno facendo. Gli stessi gestori di locali, che ti dicono “Io ho fatto più di diecimila concerti”. Va bene, ma di nuovo: cosa stai facendo adesso?

Quindi esiste ancora la famosa “scena” o Torino è diventata, come sostiene qualcuno, un po' meno groovy?
Riccardo: Secondo me c'è ancora. La gente va a sentire la musica dal vivo (qualche giorno fa, per esempio, abbiamo presentato il disco all'Imbarchino, ed era strapieno, non ce l'aspettavamo), fermento ce n'è, ci sono diverse realtà creative, c'è movimento. Poi certo, resta il fatto che, per esempio, il ponte del primo maggio a Torino non c'era nessuno, quindi per certi versi resta un paesello. Intendo dire che, se tu vuoi andare alle 6 di mattina in un posto a leggere un libro perché sei uno a cui piace fare cose diverse, non puoi farlo perché questo posto non esiste. Ci sono comunque realtà peggiori, noi abbiamo ancora i Murazzi che, anche se sono tamarri, offrono divertimento assicurato. Forse si può fare di più nel senso che i torinesi (ma anche gli italiani in genere) dovrebbero cominciare ad avere una visione più aperta, non voglio lanciare massime, ma diciamo che si potrebbe fare di più e lasciarsi coinvolgere di più.

L'annosa questione del carattere chiuso del torinese (che poi io non ho mai constatato, anzi qui ho sempre socializzato molto facilmente)
R: Sì, questo è un cliché. Qui siamo abituati alla diversità, è una città cosmopolita: vai a Porta Palazzo e trovi il mondo, a San Salvario anche, multietnica ma più fighetta, ci sono tante realtà, quindi è stimolante, hai interazione con diverse persone e di conseguenza fai amicizia facilmente.

A proposito di amicizia, come sono nati i Foxhound?
R: In modo molto normale: Filippo e Luca sono cugini e io andavo a scuola con Luca. Lorenzo è arrivato in maniera più rocambolesca: eravamo in gita con sua sorella, che ci ha detto “anche mio fratello suona”, l'abbiamo conosciuto e ci siamo innamorati. All'inizio speravamo di poter fare come le Sleater Kinney e fare a meno del basso, ma ci siamo resi conto che non andava, e così ci siamo messi in cerca di un bassista.

Che poi è diventato predominante nel vostro sound. 
R: Sì, è diventato la nostra colonna portante.

Cosa ascoltate, cosa vi ha influenzati?
F: Quello che mi piace molto di "Concordia" è il fatto che sia pieno di contaminazioni, ma senza arrivare a identificarsi con qualcosa di definito, perché un nome preciso non lo si può dare, come non si può dare un'etichetta. Secondo me il bello di questo disco è la continua tensione di molte correnti, che però non portano mai a una statica unità, non arrivano mai a identificarsi completamente con un'unica corrente, ed è questa tensione, questo movimento che a mio parere stuzzica l'ascoltatore. Detto questo, ascoltiamo davvero di tutto. Ad esempio siamo andati a sentire Aba Shanti e siamo rimasti impressionati, così come siamo rimasti impressionati nelle serate afrobeat, così come siamo tendenzialmente intrigati dall'hip-hop. Anche se ovviamente il background è quello del post punk, noi a 13 anni abbiamo preso la chitarra e ci siamo messi a suonare, per cui il ceppo rimane sempre quello. Però, appunto, potrei citarti veramente tanti nomi, da Steve Albini a Snoop Dogg.

Infatti una cosa che mi piace di voi è proprio questa apertura: ad esempio ho visto che consigliate spesso di ascoltare Stefano Amen, che non si direbbe essere il vostro genere.
R: Su Stefano Amen si potrebbero dire molte cose, ma la più importante per noi è che conoscendolo abbiamo iniziato a capire l'importanza del testo e abbiamo cominciato a usare una spiritualità che avevamo ma che non era venuta fuori. Fatte le dovute contestualizzazioni, è stato un incontro che paragonerei a quello dei Beatles con Dylan. È stato una specie di faro per noi, ha ampliato il nostro immaginario, è grazie a lui se adesso dal vivo usiamo l'armonica, ad esempio.

A proposito di di testi, una domanda secondo me molto stupida, però, visto che c'è sempre qualcuno che non se ne fa una ragione, perché l'inglese?
R: Scrivere in italiano è una cosa che renderebbe la nostra musica molto “esotica”, questo genere di canzoni cantate in italiano sarebbero originali più di quanto forse sono adesso, però scrivere in italiano è difficile, bisogna imparare a farlo e richiede esperienza e anni di lavoro. Scrivere in inglese è abbastanza facile, e in più può essere utile nel caso volessimo andare all'estero. Poi i nostri coetanei ascoltano questo, noi ascoltiamo questo, quindi ci è venuto naturale, non è stata una scelta programmata.

Quindi non escludereste di fare qualcosa in italiano.
R: Sì, potremmo farlo. Forse non come Foxhound, ma per lavori individuali. È tutto in evoluzione, quella di cantare in inglese è stata un'idea premeditata ma non obbligata, e non a scopo commerciale.

Voi siete giovanissimi, pessimisticamente si può dire che siete nati mentre moriva l'industria discografica: oggi è facilissimo farsi ascoltare, difficilissimo farsi notare. Come si fa a emergere dal caos?
F: Secondo me c'è stata un'eccessiva democratizzazione della musica, per cui paradossalmente qualunque realtà, anche io che registro i miagolii del mio gatto, può avere una visibilità. Questo crea una grandissima confusione, un grandissimo marasma in cui non si ha nessuna possibilità di farsi vedere, perché siamo affogati in questo virtuale. E secondo me la forza che potrebbe essere quella di un gruppo come noi è il fatto di sfruttare internet ma di avere una salda base fisica, di persone fisiche che seguono, comprano cd fisici, e vengono a sentire i concerti. Bisogna provare a far convergere i due aspetti, non perdere mai il contatto con la realtà, tanto più che i dischi non si vendono più, per cui diventa davvero solo una questione di corpo.

Sempre sulla questione del vivere di musica oggi, leggevo in un articolo le dichiarazioni opposte di due artisti: uno diceva che sarebbe opportuno avere un lavoro “normale”, l'altro che bisogna fare musica e basta a costo di finire sotto un ponte. Voi avete un piano B o siete per la bohème estrema?
F: A livello ideale è chiaro che vorremmo campare di musica e fare solo quello tutto il giorno, è la cosa che tutti e quattro vogliamo di più, però è chiaro anche che io la birra e i cd devo comprarli, e devo trovare un modo per comprarli. A livello pratico quindi bisogna fare uno sforzo di maturità e capire quello che uno si può permettere.
R: Io credo che, se uno vuole vivere di musica, deve abbassare le sue aspettative di benessere. Questo non vuol dire che devi andare a vivere per strada, però non puoi neanche pensare di poter fare la vita del gran viveur. Devi essere disciplinato nelle tue scelte, e se lo si vuole davvero ci si riesce.

Nello stesso articolo, un'altra artista dice che se vuoi suonare devi dire sempre grazie, non essere snob e dormire per terra o sul palco. Questa cosa mi ha fatto venire in mente il celebre “caso Colapesce”. L'avete seguito? Cosa ne pensate?
F: Beh, intanto bisogna vedere se la signorina in questione dormirebbe davvero per terra. Per il resto, io non avrei mai pubblicato una nota come quella: se devi dormire male, dormi male e bon, senza tante storie. Poi ovviamente sarebbe meglio evitarlo: non fai lo snob, ti adatti alle situazioni, dormi sul palco, va bene, però non è che per fare musica tu debba per forza soffrire.

C'è da dire che è un po' un cane che si morde la coda: il promoter ti fa dormire a terra perché non ha i soldi, al che uno potrebbe dire, a ragione, “nessuno ti obbliga a fare il promoter, anch'io che suono sto lavorando”. D'altro canto, se nessuno ci prova a portare la musica in certi posti, anche a costo di qualche disagio...
R: Questo è vero, però se è una cosa in cui credi potresti curare un po' meglio tutti gli aspetti, anche quelli più formali. In generale a me sembra che in Italia siano pochi i locali che pensano anche a questi aspetti tipo la sistemazione per la notte, incontri sempre gente che tende a dare poco valore al fatto che tu possa aver bisogno di stare in una maniera decente. Detto questo: rock'n'roll!

Parliamo un po' di Woodu?
R: Woodu? è nato da sei mesi circa, ed è fondamentalmente un collettivo che vorrebbe essere anche un bacino, un vivaio. Io e Lorenzo abbiamo letto un libro, “Our band could be your life” di Michael Azerrad, che parla di tutto il punk rock americano anni 80, e la cosa di cui ci ha fatto rendere conto è che qui in Italia non esiste una rete fra le realtà minori, cioè fra chi si autoproduce i dischi, fra chi fa musica ma non ha un'etichetta, e quello che vorremmo iniziare a fare noi è proprio creare un'interazione. La cosa bella di Woodu? è il fatto che tutti i gruppi si ascoltano fra loro, e più o meno tutti si stimano. La cosa fondamentale è riuscire a creare un giro di gruppi che suonino anche fuori dalla loro realtà: un gruppo di Torino va a suonare a Piacenza e un gruppo di Piacenza viene a Torino, suonare fuori è stimolante anche se lo fai davanti a poche persone. In futuro Woodu? potrebbe diventare un nome con cui fare delle cose un po' più serie, magari diventare un'etichetta, chi lo sa. Anche questo è vivere di musica no?
F: Anche in questo senso torniamo al discorso del partire dalla gente, partire dal corpo, partire dalla materia, ed è quello che sta tentando di fare questo collettivo. Vogliamo portare un po' di brio.

Il manifesto di Woodu? recita: “Una giostra che non vuole definirsi”, però ascoltando i gruppi – tutti molto britannici come ispirazione - viene un po' da definirla.
R: C'è affinità di intenti, e magari anche di modo di scrivere, c'è affinità di spirito. Parlerei meno di affinità musicale. Forse da questo punto di vista c'è la voglia di dire “ok, il brit è bello, però si può anche contaminare con qualcos'altro”. Musicalmente siamo in quella direzione per ora, però c'è anche l'intenzione di interagire in modo tale che io ti porto l'afrobeat, tu mi porti l'hip hop, e allora iniziamo a fare qualcos'altro, magari poi i Joybeat inizieranno a cantare in rumeno. Sarebbe bello anche riuscire a fare queste cose in italiano e creare un po' di contaminazione. Il bello di un collettivo è questo, è che fino a quando non conosci qualcuno con cui confrontarti e da cui ricevere anche delle critiche, rimani sempre a fare le stesse cose. Il manifesto dice anche “italiani da esportare”, ed è quello che vorremmo fare. Chiaramente non possiamo andare a insegnare le cose a chi le ha create, però possiamo dire “guarda come le ho imparate bene”.

Anche perché se lo fanno gli svedesi nessuno si stupisce, se lo fanno gli italiani tutti lì a dire: ma perché non fanno la melodia?
R: Io credo che a livello mondiale sia in corso un processo di ricreazione della pangea. La globalizzazione ha dei lati negativi ma anche dei lati positivi ossia il fatto che, se io vado in Inghilterra e canto nella loro lingua, loro possano apprezzarmi, e magari si arriva al punto in cui non conta se sei italiano, conta solo che fai musica.

Avete qualche ispirazioni extramusicale? Letteraria, cinematografica...
R: Siamo in un periodo in cui ascoltiamo molta, molta musica. Io personalmente sto leggendo abbastanza poco, e soprattutto libri di argomento musicale. E non è un bene.
F: Siamo essenzialmente divoratori di musica. Potrei farti dei nomi di autori che ci piacciono: Kafka, Burroughs, Ballard, Kureishi, ma nessuno che sia “entrato” nella nostra musica. Parlando invece di progetti non (solo) musicali, a breve uscirà un cortometraggio che il regista Marco Molinelli ha deciso di realizzare utilizzando materiale non usato per il video di “Criticize You”, e noi lo sonorizzeremo.

Andreste a Sanremo o a X-Factor?
F: Sicuramente andremmo vestiti come cazzo ci pare, suonando quello che ci pare. Ci andremmo purchè di noi non si muova una virgola, e purché, se mi cade un sorso di birra sul parquet dell'Ariston o se spacco una chitarra non scoppi il finimondo.
R: Comunque non abbiamo mai spaccato le chitarre.
F: Se ci prendessero così come siamo, e quello fosse un concerto come gli altri concerti, perché no?
Quindi credo che non succederà mai.
R: Mia madre mi dice continuamente “manda i dischi a Mara Maionchi”. Spero che lo dica scherzando.

Progetti futuri, tour?
F: Suoneremo l'8 giugno al Traffic con James Blake e gli XX (arriva un botto da via Po, dove è in corso la festa per lo scudetto. Riccardo commenta: stavo appunto per dire “bum”, mi hanno preceduto, NdA), poi saremo al MI AMI, ad Arezzo e altri festival. In autunno speriamo di andare un altro po' in giro. E poi ci mettiamo a scrivere roba nuova, perché questo disco è bello, ci piace.

Una curiosità proprio sul disco: ho notato che, in commenti e recensioni, tutti parlano molto della prima traccia, "Do It Yourself", nel bene e nel male. Sembra la più buttata lì, eppure evidentemente ha qualcosa che colpisce. Cos'è?
F: "Do It Yourself", proprio perché è fai da te, nel senso che abbiamo piazzato un microfonino e fatto questo (“suona” la prima battuta con mani e piedi, NdA). Forse è la nostra traccia più vera, ed è anche un modo per dare un messaggio, che è “Fallo. Fallo tu, mettiti lì e fai. Mano destra, mano sinistra, piede destro, piede sinistro, ti metti lì e suoni, non è che devi stare a inventarti chissà che. Alla fine siamo materia, materia che vibra, carne e sangue.
R: Come diceva Feuerbach. Qui facciamo citazioni alte.
F: Poi è bello che ogni ascoltatore dia la sua interpretazione. Il nostro è un desiderio di ritornare al corpo, coniugandolo con la musica elettronica, che è in un certo senso la nostra musica, lo dico nonostante nel disco non ci sia neanche una tastiera ma solo due chitarre, basso e batteria.

È vero, c'è un'attitudine molto “dance”.
R: Come impostazione sì, c'è la classica struttura di loop. Dal vivo questo lato è ancora più accentuato e sicuramente nei nostri progetti futuri sarà molto rilevante la contaminazione della nostra radice post punk con qualcosa di molto più elettronico, ma anche con qualcosa di molto più fisico come appunto suonare se stessi. Vorremmo anche essere più neri nel fare le cose. Può sembrare razzista come discorso, ma oggettivamente ci sono delle differenze fra chi fa musica ed è nero e chi è bianco.
F: Vorremmo tutti essere neri.
R: Esatto. Dato però che non puoi scappare dal tuo essere bianco mozzarella, devi secondo noi pensarla da bianco - perché tanto ce l'hai la classica dentro - e suonarla da nero. In passato esageravamo nel pensare, nell'essere precisi, facciamo così, facciamo cosà... e non va tanto bene: vogliamo essere più materiali, più istintivi, più neri, per esempio suonare solo voce e corpo e basta.

Anche le voci che si sentono in “Bounce” rientrano un po' in questo concetto di corpo e concretezza, no?
R: Sì. Quel pezzo lì comincia in una sala affollata, e ha dentro molti stratagemmi tipici della musica house, la ritmica soprattutto, e un basso quasi funk. Sono le tensioni di cui ti parlavo prima e, fra tutte, il nero è quella più stimolante: il basso, la vociazza growl, è quello che ci piace in questo momento. Basta fare i bianchini, che palle, vogliamo un po' di sangue.

Dite quello che vi pare.
Sveglia!

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L'articolo Foxhound: vogliamo il sangue di Letizia Bognanni è apparso su Rockit.it il 2012-05-18 00:00:00

COMMENTI (2)

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  • alfio 12 anni fa Rispondi

    Sti cazzi molto maturi come discorsi e neanche musicalmente sono poi cosi male ....si ne sentiremo parlare a lungo di loro

  • whoiswho 12 anni fa Rispondi

    bella intervista, peccato che quando ascolti le tracce a lato viene fuori un cortocircuito. non fanno un passo avanti rispetto agli altri con la musica.