Aucan - Picchiare pesante. Perché la dubstep è diventata innocua

Perchè da Skrillex in poi c'è stato un fraintendimento ed è diventata sempre più una cosa da party e sempre meno da club. E da quest'idea si dipana una lunga intervista che parla di America, di gente che si mena, di techno e di suoni urbani.

Perchè da Skrillex in poi c'è stato un fraintendimento ed è diventata sempre più una cosa da party e sempre meno da club. E da quest'idea si dipana una lunga intervista che parla di America, di gente che si mena, di tecno e  di suoni urbani.
Perchè da Skrillex in poi c'è stato un fraintendimento ed è diventata sempre più una cosa da party e sempre meno da club. E da quest'idea si dipana una lunga intervista che parla di America, di gente che si mena, di tecno e di suoni urbani. - Aucan

Perchè da Skrillex in poi c'è stato un fraintendimento ed è diventata sempre più una cosa da party e sempre meno da club. Gli Aucan ci raccontano dei loro piani per conquistare il mondo (si parte dall'America), della rivolta a Los Angeles nel '92, di misticismo e di psichedelia. L'intervista di Sandro Giorello.

Facciamo il punto della situazione: eravate in tre, ora siete in due. Prima eravate una band post-rock, ora due produttori che fanno techno. Che è successo?
Francesco: No, ma Dario tornerà.
Giovanni: È solo uscito un attimo, ma torna.

Ho perso il conto, ora quanti anni avete?
G: Ma fatti i cazzi tuoi (ridono, NdA)

Bene, vedo che partiamo con il piede giusto.
G: Scherzo, ti rispondo seriamente sul batterista allora. È una cosa che anche in Francia è stata fraintesa, tutti stanno scrivendo che ci siamo trasformati in un duo, e ci sta che la gente lo pensi, basta guardare il sito e vedi solo noi due. In realtà è solo una fase, non si può sempre fare le stesse cose, nel live Dario tornerà di sicuro. In questa fase invece volevamo un dj set che avesse la stessa energia del live e pare che ci siamo riusciti.

Cosa dobbiamo aspettarci al MI AMI?
G: Al MI AMI faremo Aucan dj set, è uno show un po' alla Flying Lotus, non so se l'hai visto.

L'ho visto.
G: Il principio è proprio lo stesso: non è solo un dj set ma nemmeno propriamente un live...
F: ...lui lo vende come live...
G: ...lui lo vende come live ma in realtà è un dj set, noi lo vendiamo come dj set ma in realtà è un live (ride, NdR)

Diciamo negli Aucan c'è questa incongruenza: di persona, su Facebook, nelle interviste, fate abbastanza i cazzoni, mentre alla base del progetto – almeno così è scritto sul vostro sito - c'è una disciplina piuttosto ferrea.
G: C'è molta disciplina negli Aucan, c'è sempre stata. Prendiamo seriamente tutto quello che facciamo. E tutto vuol dire tutto: senza voler apparire maniacali, curiamo il 100% del progetto. Diciamo che ci facciamo sempre molte domande su cosa stiamo facendo.
F: Seguiamo con la stessa cura le tracce, le foto promo o chi scegliere per un video.

E alla domanda chi sono oggi gli Aucan sapreste rispondere?
G: È una bella domanda. Non è facile rispondere, se dicessimo che facciamo rap italiano sarebbe più immediato: ti presenti ad un milione di ascoltatori, poi puoi piacere o meno ma almeno ti esponi ad un pubblico circoscritto. Invece siamo sempre stati un crossover di più cose e di conseguenza è difficile riassumerle in maniera precisa.
F: E lo stesso vale per il concetto di identità: non ce n'è solo una, ci sono varie cose e anche un po' in contraddizione tra di loro.



La disciplina però implica una gerarchia. Chi è il capo tra voi due?
G: Prossima domanda?

Non potete saltarmele tutte.
G: Di sicuro non mi metto a fare io le visuals e Francesco non si occuperà mai del mastering delle tracce. Ognuno si concentra su cosa è più esperto, ma non vuol dire che si escluda una visione comune. L'essere in due garantisce un controllo della qualità: se a uno dei due un pezzo non piace lo cestiniamo.
F: Una delle parti più grosse del lavoro è appunto discutere di quello che vogliamo fare.

Per questo Ep come avete lavorato?
G: Ci abbiamo lavorato per quasi due anni e nei modi più diversi. Quando è finita la fase di “Black Rainbow”, che resta per noi un album importante, è quello che ci ha permesso di fare questo lavoro a livello professionale. Diciamo che, finita quella fase, è stato difficile orientarci verso qualcosa di nuovo. Perché nel contempo c'è stata l'eclissi del fenomeno dubstep per essere sostituito da qualcosa che, pur avendo lo stesso nome, era diverso...
F: ….skrillexiano.
G: Esattamente. Noi ci sentivamo in sintonia con un tutto quell'universo iperdark arrivato dall'Inghilterra, tutte cose che conosci bene anche tu. Questo movimento, poi, è stato frainteso e sostituito da un altro tipo di dubstep.

Perché frainteso? Al massimo, a mio avviso, è passato l'effetto novità. Ad esempio: ascoltavo Caspa o Skream già nel 2008, Skrillex è arrivato due anni dopo, mi piaceva pure ma nel giro di un niente sentivi ovunque solo più pezzi così. È normale che uno, dopo un po', trovi il genere meno stimolante.
G: È stato un fraintendimento perché l'hanno chiamata con lo stesso nome, se l'avessero chiamata EDM probabilmente sarebbe andata diversamente. E di fatto tutti i produttori dubstep della prima ora poi hanno smesso. Si sono chiusi in cose ancora più di nicchia o sono passati alla techno, o ad altri progetti.
F: Secondo me il problema è che prima il genere era definito in un un modo vago, mi ricordo che Ital Tek veniva considerato dubstep ed era completamente diverso da Scorn, come Scorn non c'entrava nulla niente con Vex'd. Ora è diventato un concetto molto preciso.

Ma tra Skrillex e Nero – che molto genericamente potrebbero rappresentare l'idea di dubstep mainstream oggi - trovi comunque delle differenze, no?
F: Chiaro, sono due persone diverse che producono cose diverse, ma nella prima dubstep incontravi un range di varietà molto più ampio e percepivi una libertà stilistica molto bella, poi è diventata una cosa da sempre più da party e sempre meno da club.

Ora che avete firmato per Ultra, che è un'etichetta importante per la dance americana, cosa succederà?
G: È un po' presto per dirlo ma in America, se va come abbiamo pianificato, apprezzeranno l'impatto dei brani. L'idea che mi sono fatto è che agli americani piaccia la gente che picchia. Una volta l'ho detto a Olivia, la fonica che ha seguito un paio di nostri tour in Europa. Lei è americana e mi ha risposto che sì, gli Stati Uniti vengono da una tradizione rock molto forte, sono abituati a cose forti, non amano la cosa stilosa, la finezza, amano le cose d'impatto. E uno degli aspetti a cui era interessata l'etichetta, per farti un esempio, era il live, avevano capito che il nostro live era potente.

Io arrivo da un periodo di tre mesi negli Stati Uniti. La cosa che mi ha colpito è che, se ascolti la radio ad esempio, ti accorgi come il loro pop sia pressoché sempre uguale: è dance mischiata a hip hop e dubstep. Seguono sempre il medesimo schema.
F: Infatti l'aspetto interessante della musica negli Stati Uniti è questa continua ibridazione, prendi Kanye West.
G: Nell'ultimo disco c'è un pezzo molto pesante con Gesaffelstein. Qui in Italia non c'è un rapper che voglia fare un featuring con gli Aucan.

Io però parlavo di pop stile Pitbull e Christina Aguilera. E poi scusa il vostro featuring con Gué?
F: Non volevamo dire quello. Una delle cose che abbiamo capito a posteriori del nostro ep è che suona come una contaminazione tra techno e hip hop. Una cosa del genere in Italia non è così frequente.

La mia domanda puntava più sul fatto che nel pop americano c'è un suono piuttosto uniforme ed è un suono che ho poi ho ritrovato, pur con le dovute differenze, nell'ultimo dei Bloody Beetroots (anche quello pubblicato su Ultra). Non è che per entrare in quel mercato bisogna per forza adeguarsi a quella roba lì?
G: Se ci stai chiedendo se ci metteremo a fare dance, la domanda si risponde da sola.
F: Ultra ha firmato con noi perché gli interessava cosa stavamo facendo, penso che se avesse voluto una roba da college avrebbe trovato progetti molto più adatti.
G: Dal contratto con Ultra ci aspettiamo, semplicemente, una diffusione a livello mondiale. Al momento la nostra musica è rimasta in Europa, sopratutto in Italia e un po' in Francia. Ovviamente non ci interessa sfornare il singolo dell'anno, vogliamo continuare la nostra ricerca sonora e artistica, è una cosa che facciamo con una dedizione molto profonda.

Parliamo di profondità allora.
G: Una volta parlavo con Jacopo, ex-Zu, che è un nostro carissimo amico, e mi diceva: alla fine uno esprime sempre quello che è. Sembra una banalità, ed è una cosa che un musicista forse non tiene nemmeno in considerazione ma per un produttore è molto importante. Qualsiasi cosa tu faccia non puoi esprimere qualcosa di diverso da ciò che sei, perché non ti piacerebbe, e se non ti piace lo cestini senza nemmeno pensarci. Se una cosa ti piace, invece, è perché in fondo rispecchia qualcosa di te. E da produttore non è un aspetto da poco, a maggior ragione, come nel nostro caso, se ti devi confrontare con un'altra persona e se entrambi fate già una selezione molto rigida del materiale prodotto. Nel corso degli anni poi cresci, cambi, e di conseguenza cambia la tua musica. Ma è molto difficile mettersi a fare la traccia di Avicii se non sei Avicii, o se non fai di lavoro il ghost producer che fa le tracce per Martin Garrix (ride, NdA).

Quindi oggi gli Aucan sono un ibrido tra techno e hip hop.
F: È uno dei risultati.
G: Diciamo che è una cosa che abbiamo capito a distanza di tempo, dopo mesi di ricerca, di ibridazione, di produzione e di tracce, decine e decine, buttatate via.
F: Oltretutto passano sempre molti mesi da quando consegni un disco a quando viene pubblicato, e può capitare che tu non ti riconosca più in quello che hai fatto. Questo, per fortuna, ci piace ancora.

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Sembra la classica risposta da artista in promozione.
G: L'anno scorso abbiamo fatto uscire un free download che ha smesso di piacerci quasi subito.
F: Quattro mesi dopo non potevamo più sentirla.

Era “Better place”?
F: Si, quella.
G: L'ep invece è stato pensato molto, sono stati selezionati tanti pezzi, ad esempio “Rise the serpent”, il pezzo con Otto Von Schirach, l'abbiamo rifatto tre-quattro volte. L'avevamo già anche inserita nel live, magari in pochi l'hanno notata ma era già in scaletta negli ultimi sei mesi del tour dal vivo. Anche “Loud Cloud”, era addirittura il primo pezzo del live.

E a cosa è servito?
G: È servito a dargli un imprinting, quasi spirituale. Il live per noi ha una dimensione molto importante, quasi mistica: quando ti esprimi dal vivo è come se tutto si unisse, il pezzo ti si imprime talmente nell'anima, è ovvio che a quel punto diventa tuo. Non è come fare una pezzo al computer e basta.

E, ad esempio, cosa c'è di spirituale in “Riot”?
G: Dopo “Black Rainbow” ci siamo detti: meno metafisica e psichedelia, più istinto e suono urbano. Alcune parti di quel disco erano state addirittura concepite in un bosco, non vorrei esagerare ma era proprio una specie di raduno nella natura. Quest'ultimo ep invece è nato in condizioni da laptop: città, vita veloce, cose così.
F: C'è della psichedelia anche in “Riot”: l'idea stesso di quel pezzo è dedicata a quel momento in cui assisti ad uno sprigionarsi inaspettato di energia. Ma è un'energia cieca, non indirizzata, non ha uno scopo come lo potrebbe avere un'esperienza psichedelica.

L'immaginario del ribelle è piuttosto abusato. Prendete i Bloody Beetroots con Church of Noise.
F: “Riot” non è un pezzo politico, non è come gli Atari Teenage Riot.
G: Church of Noise era una cosa più istituzionalizzata: sai i ragazzini, formare clan di rivoluzionari per cambiare il mondo, EDM music meets the rebellion, noi non abbiamo niente di tutto questo. Noi esprimiamo un'energia a livello artistico, soprannaturale, quasi.

Quando prendete la deriva metafisica é difficile seguirvi. In che senso soprannaturale?
F: Prendi un immagine, riot, e non pensare alla Grecia ma pensa alla Londra di un paio di anni fa quando distruggevano le vetrine senza un preciso motivo. Era il caos puro, e ce ne sono un sacco di esempi simili. La copertina dell'ep è un'immagine di Los Angeles nel '92: avevano arrestato uno spacciatore che aveva aggredito un poliziotto e alla sentenza è scoppiato un delirio.
G: Ovviamente non stiamo dicendo alla gente di andare in strada a fare i riot, non lanciamo dei messaggi a livello così stupido. Noi descriviamo un'idea: una forma di energia che si manifesta, e che noi abbiamo sfruttato per esprime qualcosa a livello musicale e artistico. Per “Riot” è nata prima l'idea per il video e dopo il pezzo, sono come madre e figlio.

Rimanendo in ambito di immaginario, è sempre stato così importante per voi? Ai tempi di “Black Rainbow” avevate foto abbastanza semplici: felpa col cappuccio e boschi alle spalle; ora l'unica parola che mi viene in mente per descrivere quelle nuove è hipster.
F: Come per la musica, c'è stato un percorso che ci ha portato a lavorare sempre di più a 360° sul progetto e sull'identità di Aucan.
G: Prima eravamo più poveri (ridono, NdA)

Seriamente, cosa è successo dopo “Black Rainbow” che vi ha permesso, oggi, di vivere di musica?
G: È stata una possibilità ma anche una scelta, ovvero decidere di puntare tutte le energie sul progetto. Ed è una scelta che influisce tecnicamente sui tuoi metodi operativi: non puoi più fare cosa vuoi, sempre e comunque, devi darti delle tempistiche. Guadagni più tempo, diventa tutto più ragionato e non capita più che la sera arrivi alle prove già stanco perché durante il giorno hai fatto un altro lavoro. Ma, di contro, non tutto quello che guadagni in termine di tempo è necessariamente utile a far crescere il progetto: perché parte delle tue entrare adesso servono per mantenerti e, di conseguenza, hai meno soldi da investire negli Aucan.

Non siete produttori così prolifici in effetti.
G: No, ma nei prossimi anni ci saranno più pubblicazioni. Siamo stati veramente presi con il live: sei sempre in tour, ma sempre, e se fai 150 date l'anno non hai tempo per concentrarti sulle uscite.
F: È anche perché c'è stato quello switch di cui parlavamo all'inizio, quando non ci sentivamo più legati a quell'idea di dubstep e dovevamo capire bene cosa fare. Questa cosa ci ha portato via un sacco di tempo.

Chi è per voi il supervillain della musica elettronica oggi. Non dico solo il più potente, intendo proprio il più sadico.
G: Ti direi Blawan ma non è cattivo, è oscuro semmai. Non ci piacciono tanto le cose cattive. Se c'è una cosa a cui ci sentiamo più vicini ultimamente sono le cose pesanti, ma tipo quelle che sta facendo uscire Bromance. Ad esempio, il singolo di Monsieur Monsieur che mettiamo sempre ai nostri dj set è quasi gabber, ma non è trash come qualcuno che conosciamo (ride, NdA)...
F: ... un po' più stiloso, diciamo.
G: Diciamo che dopo 35 minuti di intervista il nostro livello di attenzione scema. Capisci anche perché siamo così lenti a fare i dischi? (ride, NdA)

Capisco. Che cosa state ascoltando ultimamente?
F: Stavo per partire in vacanza, mi stavo riempiendo l'Ipod e poi mi sono detto: cancello tutto, non voglio ascoltare niente per 10 giorni. Adesso è un paio di settimane che ascolto solo Muddy Waters e roba anni '50 americana. Perché se stai otto ore al giorno al pc a fare musica elettronica, poi senti l'impellente bisogno del nero con la chitarra.

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L'articolo Aucan - Picchiare pesante. Perché la dubstep è diventata innocua di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2014-05-18 00:00:00

COMMENTI (1)

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  • wolock 10 anni fa Rispondi

    ooooo un po di muddy waters