Il coraggio di fare musica totale ogni giorno: abbiamo intervistato Enzo Avitabile

Siamo stati a casa di Enzo Avitabile per intervistarlo prima della sua partecipazione a Sanremo 2018

Casa di Enzo Avitabile è un tempio della musica dedicato ad una vita incredibile: fiati di qualsiasi forma e dimensione, percussioni e altri strumenti musicali, decine di premi e targhe, locandine di concerti in tutto il mondo, foto con i grandi della musica, Madonne e rosari. Lo abbiamo incontrato lì per parlare della sua prima partecipazione a Sanremo, dopo una carriera attraverso i generi e i continenti, ma anche di Napoli, della sua musica, di religione, di hip hop e di musicalizzazione dei territori.

Una carriera lunga quasi quarant’anni e piena di riconoscimenti, ma questa è la tua prima partecipazione a Sanremo. Cosa ti ha convinto del festival di Baglioni?
Il festival di Claudio è un festival dove c’è più spazio per la musica e per i musicisti, per più forme di espressione, è multigenerazionale, e poi secondo me è importante. Io ci vado per portare il mio messaggio, che riguarda il suono e la parola. Non è tutta la mia musica, questa è la musica in forma-canzone, poi ci sono quella sinfonica, quella strumentale, quella per il cinema, che sono altre cose. Ma per quanto riguarda la canzone, Sanremo è il tempio di quella pop italiana e internazionale, ci si va per promuovere la propria persona o il proprio messaggio: io più a promuovere il mio messaggio che me stesso, ma una cosa tira l’altra.

È dura entrarci per uno come te?
A Sanremo si presentano 200 canzoni ed è complicatissimo riuscire a passare una selezione. Guarda, sinceramente io ho fatto tutti i festival al mondo, ma per me è stato più facile suonare allo Sziget Festival, perché vai lì e fai la tua musica, ma Sanremo è strano, è difficilissimo. Quando l’EMI mi chiese di fare Sanremo nell’81 o '82 io non l’ho fatto, perché era un altro Sanremo. Per fare Sanremo dovevi: vestirti in un certo modo, cantare in un certo modo, scrivere in un certo modo etc. Se pensi che a quei tempi c’erano artisti che ci sono sempre come Al Bano, ma anche artisti come Ricchi e Poveri, Sandy Marton, Tracy SpencerUà, a chilli tiempi c’era roba che quando arrivavi con pezzi come "L’ultimo della classe", "Meglio soul", venivi da un altro mondo. Credo che il mio suono all’epoca fosse ancora più hard, più integralista rispetto a certe cose di quello di Pino (Daniele, n.d.r), perché lui era sottilmente più melodico, riusciva di più ad attecchire pur facendo un suono nuovo.
Adesso è diverso, perché Claudio innanzitutto ha restituito all’artista una grande dignità, quella della non eliminazione, e credo che sia una cosa straordinaria. E poi è centrale la musica, vai lì, canti come vuoi, ti presenti e ti vesti come vuoi, dici quello che vuoi. Francamente, in un mondo come il nostro, non è facile trovare un momento per la musica in cui ti vedono 30 o 40 milioni di persone. Claudio è stato grande su questo, diciamo la verità. Penso che solo Claudio Baglioni poteva scegliere Enzo Avitabile, non credo che tutti sarebbero stati così disposti ad accettare un suono diverso.

Nonostante la tua lunga esperienza, c'è qualcosa che ti preoccupa di questo palco?
La mia unica preoccupazione è quella che mi devo incappottare quando esco per paura di perdere la voce. Dovrei fare il red carpet, ma io mi metto paura, quindi che faccio? Mi metto ‘stu mantello ‘ncuollo, la mia kefiah. Là hanno scritto "venire eleganti", ma chi viene elegante, o’frate? Nuje stamm dint ‘a n’ata palla, ije vaco llà cu ‘a stessa capa e quando vaco o’ Primmo Maggio. Penso all’assolo, ai fatti miei, stong dint ‘a n’atu viaggio. Se no non siamo noi, noi comunque simm’ infiltrati e dobbiamo essere sinceri, nun c’azzeccammo.

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C’è qualcosa che ti incuriosisce particolarmente fra le altre canzoni in gara?
Penso che ognuno in quel cast abbia la sua dimensione e la stessa motivazione, quella di andare a fare qualcosa di bello.
Stranamente sono quasi tutti miei amici: con Red Canzian ho una storia importante, ho fatto il mio secondo disco nel suo studio, mi ha prestato due miloni, nun s’e pigliaje, e mo’ ancora non li ha voluti, dice "stanno bene là, per quello che hai fatto per la musica sono ben spesi". Poi Mario Biondi, Max Gazzè, Ron, Barbarossa, Facchinetti, tutti amici miei. Però ti dico la verità, quando mi chiedono di scegliere qualcosa in particolare, uno lo fa pure, però io credo che nella multiespressività c’è tutto, un incastro dove se manca uno viene meno anche l’altro. La preferenza è relativa, perché riguarda il gusto e il gusto è al di fuori della competenza. Se facciamo la critica d’arte a un quadro, è una critica d’arte. Ma se la fai sul gusto, non credo che il gusto da ‘competente’ sia diverso dal gusto da ‘incompetente’ della signora affianco. Se no diventa discriminazione, è n’ata cosa, un giudizio. Alla fine quante cose che non ti piacciono, invece, artisticamente sono molto valide?

Questa forse è una cosa che certa critica dovrebbe capire...
Secondo me nel gusto del popolo c’è un denominatore comune, perché conserva nella sua profondità un’antica conoscenza, karmica oserei dire, per cui spesso riesce ad arrivare sia alla qualità che alla quantità. Non so perché, ma alla fine ci arriva. Esempio: Bob Marley, sacro, sacro nel suo significato al di fuori dello spazio e del tempo, alla fine il popolo del mondo ci è arrivato. Hendrix, uguale, Frank Zappa, Pergolesi, Mozart: uguale.

Il pezzo che porti in gara a Sanremo, “Il coraggio di ogni giorno”, vede la collaborazione con Peppe Servillo. Come nasce questa collaborazione, che hai definito “un dialogo più che un duetto”?
È un featuring, se fosse un brano rap sarebbe "Guè Pequeno feat. Enzo Avitabile". Però questa cosa qua non si può fare a Sanremo, quindi è "Enzo Avitabile con Peppe Servillo".
Nella fattispecie, Peppe non ha scritto né il testo né la musica, però dal suo orientamento rilegge il testo e riesce a dare al suono la parola e alla parola il suono. È quello che negli ultimi anni sto cercando di fare, avere più possibilità sonore sulla stessa situazione, una forma di dialogo come in "Black tarantella" o "Lotto infinito". Da questo punto di vista mi sarebbe sembrato pure assurdo andare da solo a Sanremo, in contraddizione con il messaggio di dialogo degli ultimi album. Poi il venerdì si aggiungerà anche Daby Touré, cantante mauritano che già collabora con Peter Gabriel, fa dischi suoi, è della famiglia dei Touré-Kunda. E poi ci saranno gli Avion Travel. Insomma una bella compagnia.

Enzo Avitabile con Peppe Servillo (foto di Giovanni Izzo)


Il testo è scritto a quattro mani con Pacifico, giusto?
Lo abbiamo scritto insieme, ma non l’ho scritto con lui (ride, n.d.r.). È la stessa cosa pure qui. Io e Gino ci conosciamo da tempo, già avremmo voluto fare delle cose in "Lotto infinito", per esempio un pezzo nei due dialetti, ma non era il momento. Poi, lavorando a questo testo, ho scambiato qualche parola con lui e ho avuto delle imbeccate secondo me molto giuste. Credo non sia un fatto di quantità ma di qualità, lui mi ha suggerito delle cose fondamentali e quindi prescindere dal numero di parole scritte, era giusto firmarlo insieme.

Tra l’altro il pezzo parte da Scampia, dall’area Nord di Napoli, insomma dalle tue zone.
Si, la canzone parte da un posizionamento mio personale che è anche ideologico. Io sono al di sopra di ogni sospetto perché sono di Marianella, di Scampia, e ne ho parlato in tempi non sospetti, quindi non è che sto arrivando ora. Però poteva essere Ponticelli, San Giovanni a Teduccio (periferie della zona est di Napoli, n.d.r) o il quartiere di Mourad (assistente e genero di Enzo, n.d.r.) in Marocco. Quindi è un punto di partenza, ci tenevo molto a partire dalla città non frontale. Non dico periferia, mi piace chiamarla città non frontale perché è quella che non si vede. Questo non vuol dire ignorare il patrimonio culturale della parte storica della città, con i suoi Cimarosa, Pergolesi, Paisiello, Gian Battista Basile, è naturale. Però per me era corretto secondo me partire, da dove nasce tutto, dai signor nessuno. Persone comuni, che si chiamano Pasquale, Giovanni, Concetta. Persone come la buonanima di mio padre, che con un solo stipendio cercano di portare avanti la famiglia, magari con quattro figli e qualcuno che va all’università. È un messaggio delle persone comuni, di cui io faccio parte; anche se chiaramente capisco che non sono qualcuno ma forse neanche il signor nessuno, quindi di conseguenza posso prendere posizioni rispetto alla fonte di partenza. Non c’è retorica in questo, perché volutamente non è un testo racconto, con gli sfigati della periferia napoletana che arrivano e dicono questo e quest’altro, no. È un posizionamento di orgoglio rispetto ad una poesia che si pone in una realtà precisa. È comunque un omaggio all’uomo, perché secondo me in questo passaggio terreno ogni uomo ha diritto a rivendicare alla sua vita, a raccontarla e anche ad omaggiarla. Quella vita che, come dice il poeta kurdo Rafiq Sabir, "nasce comunque e ovunque". È un inno alla vita.

Attualmente Scampia sta vivendo una fase di grande cambiamento, dopo anni di attenzione mediatica, spesso deleteria, la stretta dei clan sembra meno forte e dovrebbe essere imminente l’inizio dell’opera di abbattimento delle Vele e della riqualificazione a scopi sociali di una di esse. Come vedi la situazione attuale e il futuro del tuo quartiere? 
Vedo che c’è un doppio giochino. Come sempre, c’è chi si vende le cose e chi invece lavora nei territori con tanta buona volontà, le associazioni e tutte quelle realtà lì. Ci tengo però a specificare, quando si parla di città non frontale, che si tratta di una realtà comune a tante città. A Milano c’è una città non frontale, a Roma, a Torino, a Londra, a Marrakech... Parli della tua, ma è un elemento comune a tutto il mondo e questo tipo di realtà esiste ovunque. Battezziamo la periferia "città non frontale", battezziamo una certa emarginazione come "fuori di vista", "out of sight" come diceva James Brown, e battezziamo anche i paesi poveri come paesi "svantaggiati", perché non c’è nessuna terra che in sé vuole e può essere povera. Quindi parto dalla mia città, Napoli, parto dal mio quartiere, Marianella, il quartiere di Sant’Alfonso Liguori e la cui campagna è Scampia, si parte in questo viaggio che è un inno alla vita, comunque e ovunque.

Hai nominato James Brown, e io volevo partire proprio dal tuo rapporto con la black music, che ha caratterizzato la prima fase della tua carriera e che ti ha portato a collaborare con i più grandi, da, appunto, James Brown a Tina Turner. C’è però una collaborazione in particolare che alla luce di quanto sta succedendo nel mondo della musica risulta molto interessante,  quella con Afrikaa Bambaataa per il pezzo "Street happiness" del 1989, perché fa di te uno dei primi artisti italiani ad interessarsi alla cultura hip hop, cosa a cui ha dato seguito negli anni successivi implementando diversi elementi di quel tipo di cantato e collaborando con tantissimi rapper.
Oggi leggendo i libri che sono usciti sul rap napoletano, guardando le cose per esempio di Speaker Cenzou o le dichiarazioni di Luchè e gli incroci con Ntò, Co’ Sang, e poi ancora Marracash, Guè Pequeno, Rocco Hunt, Clementino, eccetera, loro riconoscono in me un po’ il padre della parola sul ritmo. Preferisco uscire fuori dal codice, perché se dovessi dire "io ho lanciato l’hip hop" non potrei, storicamente non è corretto.

Sicuramente non sei un rapper, però…
...però se dovessimo parlare della prima intuizione riguardo alla parola sul ritmo, ufficialmente sono stato il primo in Italia. Afrika me lo ha fatto conoscere James Brown. Lui aveva fatto il brano "Peace, Unity, Love and Having Fun", un po’ il motto della Zulu Nation e della cultura hip hop. Dopodiché feci questa cosa con Bambaataa, andai nel Bronx e lui venne qua, lo portai anche a Scampia. I buddhisti dicono che quando lanci un seme germoglia, devo dire la verità che il seme lanciato, seminato a Napoli, è germogliato bene. Penso che la musica di oggi è tutta fondata sulla parola e sul ritmo, quindi credo in questo senso di aver seminato bene. E oggi ritorno con loro, i rapper, non faccio quello che fanno loro ma siamo in grande sintonia. In questi anni l’obiettivo mio è stato quello di fare un viaggio di musica totale: non ho lavorato per fare un genere, ma per essere il genere. Razionalmente, non sono stato fuori da nessuna forma, recuperandole tutte però e dando vita a nuove forme che non hanno forma. La mia musica sinfonica, per esempio, non è una musica sinfonica propriamente detta, è una musica che risulta innovativa perché così viene percepita da chi l’ascolta, non certo perché io ho deciso di essere innovatore, nessuno può farlo. Se vedo i premi come Ubu, Globo d’Oro, i lavori con Pippo Delbono, la colonna sonora di "Indivisibili" e tutta questa roba, mi rendo conto di essere considerato un musicista totale. Andando a focalizzare, ho voluto fare questo best of, "Pelle differente", il mio primo best of con le mie canzoni, scelte da me. Non la mia musica, ma la mia musica in forma canzone. E quindi andiamo a Sanremo, che è il posto delle canzoni.

La copertina dell'album "Pelle differente"

Nella tua musica è sempre stato presente in qualche misura l’elemento napoletano, ma in questo viaggio ad un certo punto hai fatto il passo ulteriore di 'deamericanizzare' la tua musica e intraprendere un percorso di studio del patrimonio musicale partenopeo che non è stato solo musicale, ma filologico, etnomusicologico e che ha riguardato la cultura, la religione, il linguaggio. Come ti sei mosso in questo patrimonio enorme?
Quando abbiamo incontrato tutti quelli che stavano nei juke box, James Brown, Tina Turner, Richie Evans, Randy Crawford, è stato importante, era un suono amico, colonizzante, che però non ti colonizzava perché tu, senza quel suono, forse non ti saresti avvicinati alla musica. Era il dopoguerra, c'erano i locali americani, dal juke box arrivava quella roba e ti piaceva. Sicuramente non siamo partiti che amavamo la musica perché ci piaceva Debussy o la tammurriata. A noi ci piacevano appunto James Brown, Tina. E io volevo suonare la loro musica, incontrare loro. E ho fatto questo, ho fatto la loro musica alla me, attraverso un certo modo di mettere le parole, il ritmo. Quando ho suonato con James Brown cantavo in napoletano sul palco, non cantavo mai "Sex Machine" o "It’s a Man’s Man's Man's World" con il suo testo. Per questo ne restò affascinato e mi consigliò di fare qualcosa con Bambaataa. E il picco di questa cosa è quando sono arrivato in classifica con "Soul express", dove sono arrivato non perché il disco vendeva particolarmente, ma perché in quelle due o tre settimane i numeri uno, bum, sono calati, così ho avuto questo picco, questa soddisfazione, che pure è importante. Però non sono il primo in classifica, sono arrivato pe’ culo, perché alcuni non vendevano, magari avevano fatto un disco e’mmerda.

E poi?
Dal 2000 ho voluto fare un lavoro che battezzerei proprio disamericanizzazione del linguaggio. Volevo portare nella mia area, nel mio cortile, tutto quello che ho imparato da quelli del juke box. Ma dovevo ricominciare dalla fonte: la lingua dialettale, come simbolo di appartenenza, come sonorità. La parola che diventa suono. Perché non usare il napoletano per parlare di bambini soldato, della guerra dei diamanti, di violenza? L'altra fonte era ovviamente la musica: recuperare la scala napoletana, che non è araba ma è greca, il tetracordo. Recuperare la scala minore di quarta aumentata, riportarla con quelle che sono le alchimie che hai imparato da soul, funk e jazz. Terza fonte, il ritmo: la tammurriata e le pattuglie di Pastellessa, con i Bottari di Portico. I ‘piedi del ritmo’, come dicevano i greci. È stata un miscela esplosiva, che insieme ai Bottari ci ha portato nel mondo. Ho pensato alle altre scale rare, le entità modali dei popoli della terra, che più che scale sono modi. Mi sono detto: riportiamole nel sistema temperato con una trasposizione armonica,che consenta ai ragazzi di suonare qualsiasi scala che esiste al mondo. Però poi ho cercato di andare oltre questo sound riconoscibilissimo. Quindi ho fatto un disco come "Napoletana", senza batteria, una formazione atipica, acustica, che ha vinto il premio Tenco. Poi la musica sacra, devozionale. Preghiera laica, dice qualcuno, altri hanno detto canto randagio. È una canzone. Devozionale perché è una fede che sta nel popolo e che spesso deborda, diventa politica.
Per esempio nel pezzo che abbiamo fatto con Rocco Hunt, "A’ verità": “Je 'a quanno s'o nato M'aggio sempe addumannato / 'o stato chi è / E si se po' parlà / D'o stato cu 'o stato / 'o stato è comm'a fede / Sulo domande e maje risposte / 'o stato tene 'na scusa: mò nun ce sta / Punto e basta”. Anche questo nasce da un’antica devozione. Andando oltre il genere, si riesce ad essere liberi da ogni gabbia. In questo momento storico, questo messaggio di libertà totale della musica è arrivato. E adesso a Sanremo ci arrivo con la mia parte minimale, più essenziale, fatta di comprensione sottile e di messaggi multimediali.

In questo senso, com'è il tuo brano di Sanremo?
Ci tengo a dire un’altra cosa sulla musica napoletana perché proprio "Il coraggio di ogni giorno" ha un testo in italiano con qualche mantra in napoletano. Vado a Sanremo anche per stabilire che la musica napoletana ha un suo codice di riconoscimento, a parte la scala napoletana, a parte i ritmi di base della tammurriata. Per esempio il ritmo che suoneremo è un ritmo antico dei Bottari che si chiama passo della morte, mentre la scala è prevalentemente quella minore napoletana. È un’impronta molto forte, ma non è “napoletanesimo”... Me staje capenn? Napoletano nella sua profondità antropologica. A parte questo, credo però che sia fondamentale uno stato di coscienza. C’è chi lo chiama saudade, mood, duende, da sempre il nostro stato di coscienza è la cosiddetta appucundria, che chiaramente è vicina alla malinconia. Quello che per Bob Marley è l’amaro-dolce che ci accompagna tutti i giorni.
Il mio brano di Sanremo in questo senso è fortemente napoletano, ma è anche world perché Napoli è il mare che porta l’eco di voci lontane ed esporta la sua voce. E questo vale anche quando si canta in italiano, rimane questo mood molto forte. Esempio: "Quando" di Pino Daniele, scritta con Massimo Troisi, è un brano in italiano. Ma nessuno potrebbe dire che non sia un brano profondamente napoletano. O anche "Perdere l’amore" di Massimo Ranieri, un brano con cui vinse Sanremo e che è tipicamente italiano. Però il modo di porsi, la gestualità, sono napoletani. Stessa cosa vale per Enrico Caruso. Allo stesso modo, Dalla ha fatto cose profondamente napoletane, ma a prescindere dalla lingua, sono le armonie, il mood. Insomma, i napoletani restano napoletani pure quando cantano in italiano e credo sia corretto che parlino o cantino italiano, inglese o africano.

Come accennavamo prima, uno degli aspetti della cultura meridionale che hai approfondito di più è stato quello religioso, il particolare concetto di sacro nel Sud Italia. Molta della musica che hai prodotto negli ultimi anni ha un forte elemento rituale nelle ritmiche, nelle metriche, oltre che nei temi. Che legame avete con la religiosità tu e la tua musica?
Penso che ogni uomo è un ricercatore solitario in questo viaggio, e io faccio un cammino comune a tutti gli uomini. Nasco cattolico, poi sono stato buddhista perché Tina Turner mi avvicinò al buddhismo di Nichiren Daishonin, poi mi avvicinai ad un maestro spirituale con cui ho fatto un’esperienza di meditazione del cuore, una sorta di preghiera silenziosa. Alla fine sono ritornato cristiano, cristiano in cammino, e poi cattolico, nel senso che sono in sintonia anche con i sacramenti, in questo momento, e con la preghiera. Credo però che sia fondamentale un percorso di ricerca interiore, anche perché sono convinto che la Chiesa non è il fine, è il mezzo, però la costante di ogni uomo è quella del cammino verso la luce, un percorso fra finito e infinito. Viviamo nel finito, riceviamo dei segnali che si muovono nel non finito, li riviviamo poi nel finito. Per me la preghiera è fondamentale, un sostegno vitale che ti sostiene con i piedi a terra, ti fa affrontare le cose nella più grande umiltà. Che non è la modestia, quella troppo riverente. L’umiltà è quella di viversi le cose capendo che mentre tu fai una cosa, magari bella ma problematica, intanto al Cardarelli (ospedale di Napoli vicino a casa di Enzo, n.d.r.) ci sono bambini, persone, che sono malati terminali, in terapia intensiva. Mi spiego, penso che bisogna ringraziare il Signore per quello che ti dà, soprattutto se sono cose buone.

Molte delle cose di cui abbiamo parlato le troviamo anche nel documentario di Jonathan Demme "Enzo Avitabile Music Life". Com’è stato rivedersi in un’opera che riassume un po’ tutto il tuo universo musicale?
La cosa bella di Jonathan è che ha fatto un documentario non su Enzo Avitabile artista, ma su Enzo Avitabile pensiero-musica. È stato una settimana con me a indagare il mio rapporto con la musica, non con il mio mestiere, che è una cosa completamente diversa. Le musiche del film sono musiche improvvisate per il film con musicisti incredibili da tutto il mondo. È riuscito a farmi fare un film senza accorgermene, a passare agli altri tutto ciò che non potevano conoscere di me. Per me oggi è più facile andare a Sanremo, perché so che oggi la gente è curiosa, si informa, e anche chi non mi conosce basta che vede qualcosa di Jonathan ed è chiaro tutto. Jonathan è nu mostro. È venuto girando per casa con questa telecamera, non ha voluto nessuno perché stava entrando nella nostra intimità.

Enzo Avitabile (foto di Matteo Basilè)


A proposito ancora di Napoli, oggi la città è in una fase particolare, sta conoscendo un boom turistico enorme e sta diventando, insieme con il suo patrimonio culturale, quasi un ‘brand’ alla moda. Temi che possa appiattirsi su un immaginario da cartolina ad uso e consumo dell’industria culturale e turistica?
De Magistris, con cui sono amico da anni, ha cercato di fare il possibile, considerando che non ci sono stati proprio fondi e senza entrare nel merito del perché non ci sono o di cosa è successo prima. L’immagine della città all’esterno è buona, la vita culturale è fertile, il turismo funziona, l’accoglienza del turista e anche l’altro tipo di accoglienza, quella verso chi arriva nella nostra terra attraverso l’acqua, che è un po’ più complicata. C’è anche un’attenzione verso la città non frontale, sono fiorite molte associazioni, che si sono fatte in quattro, anche per la mancanza di grandi contributi per interventi nella periferia. So che il sindaco è molto fiero di queste realtà. Però, come gli dico sempre, se vogliamo fare la città metropolitana e arrivare fino ad Avellino, cerchiamo di non scavalcare Ponticelli, Scampia, insomma di non scavalcare la periferia. Ma la città ha bisogno di risolvere dei problemi, che si sa quali sono. Innanzitutto la sanità anche se qua non parliamo di competenze dell’amministrazione cittadina. Insomma, Napoli si rappresenta bene, ma non ci dobbiamo cullare. Ci sono delle cose da risolvere, partendo dagli ospedali.

E dalle scuole: Napoli continua a crescere generazioni senza futuro, senza prospettive e piene di rabbia. Tu hai cantato spesso la gioventù e soprattutto la gioventù negata a tutte le latitudini, come vivi/vedi questa questione?
Sulle baby gang dico sempre la stessa cosa, che la scuola è fondamentale. Dovrebbe lavorare con la famiglia, ma spesso sono prima i genitori che dovrebbero andare a scuola, perché non sono in grado di passare un simbolismo corretto a questi ragazzi. E allora a parte Gomorra, che qualcuno dice ha colpa di tutto, ma è relativo, può avere degli effetti negativi, ma il problema è alla radice.

L’altra grande tragedia sociale di questi anni è quella dei migranti, un altro tema che ha trovato spesso posto nella tua opera. In un Paese dove è strumentalizzata dalle agende politiche dei partiti, soprattutto in questo periodo, per te cosa significa parlare e cantare di solidarietà e accoglienza?
È importante, chiaramente conta anche la credibilità di chi lo fa. Anche qui, credo di essere al di sopra di ogni sospetto se oggi faccio un pezzo come "Attraverso l’acqua" con De Gregori, perché faccio questo dall’uno, da sempre. Bisogna stare attenti poi a non cavalcare certe cose, è possibile farlo se si supera la retorica. La musica ce la fa perché a volte un brano va da cuore a cuore e riesce ad andare oltre la retorica. Può riordinare, riposizionare le persone, perché attraverso una canzone puoi rivederti e rivedere certe cose.

Salutiamoci con un appuntamento. Dopo il festival e l’uscita del 'best of' ci possiamo aspettare un tour?
Faccio sempre la mia vita, concertismo e composizione. Però tour non ne faccio, è una cosa un po’ a ‘popparo’ che non faccio. Io parlo di musicalizzare i territori, per me è questo che bisogna fare, suonare nel mondo come ho fatto sempre. Anche questa cosa con Peppe, la facciamo perché la vogliamo fare, poi Dio pensa, non perché vogliamo fare il tour nei teatri o cose così, sennò entri nel codice e io credo solo nell’antiregola. Magari potrei pensare di fare un concerto ‘Avitabile-story’, con tutta la mia storia, ma sarebbe una cosa che farei a Napoli, di sfizio. Non può essere quello a spingerti. Poi ho formazioni varie, con cui suono in chiesa, in teatro, con altri repertori, per esempio ‘Acoustic world’ o ‘Black tarantella’, ‘Tammurriata nova’. Voglio essere libero, idee come il "Pelle differente tour" già mi sembrano limitanti.

Insomma, niente trafila canonica in locali e teatri. In effetti tu non fai date di questo tipo, fai molte feste di paese.
La mia tendenza è fare free concert, riuscire a suonare per una massa di gente senza farli pagare. A volte fai venti, trentamila persone, come ad Acerra. A volte faccio concerti in teatro, possibilmente sempre senza un biglietto dal prezzo altissimo. Anche questo vuol dire musicalizzare i territori, cercando quei teatri che puoi gestire senza arrivare a prezzi alti. Poi ci sono le chiese, le basiliche, è normale che fai Torino, Milano, Venezia, e magari capita Vienna o Londra, ma l’obiettivo di base è il free concert, se no come faccio a dire che voglio musicalizzare un territorio se il biglietto costa 50 euro? I territori hanno bisogno di questo, s’adda ij int’e territori, come per esempio a Sant’Antimo, dove abbiamo fatto "Sacro Sud" in una chiesa e c’erano duemila persone, era la prima volta che si faceva una cosa così. È facile mettersi nel teatro a Napoli quattro, cinque giorni. I festival, in Italia, al mondo, cerco di farli tutti, mentre le feste popolari cerco di trasformarle in un concerto, mettendo da parte gli aspetti della festa e facendo il mio concerto con la mia roba, le mie cose. Prendi quello spazio e lo riutilizzi. Sennò Sergio, nun può sunà a Punticiell, perché là non lo fai il biglietto. Devi trovare eventi popolari, come la festa dei gigli di Nola, dove fai cinquantamila persone. E dopo tanti anni viene chiunque, è un pubblico molto trasversale, dai ragazzi dell’hip hop a quelli più intellettuali, passando per il ragazzo di salumeria che si vuole fare un cannone. È ‘na zuppa, a me è proprio zuppa sound.

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L'articolo Il coraggio di fare musica totale ogni giorno: abbiamo intervistato Enzo Avitabile di Sergio Sciambra è apparso su Rockit.it il 2018-02-06 09:57:00

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