Jolly Mare, quando la meccanica incontra il sentimento

Il suo nuovo album, "Mechanics", esce ufficialmente oggi, eppure già da qualche tempo se ne fa un gran parlare in Italia e all'estero. Abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Jolly Mare per scoprire dove nascono i suoi pezzi.

jollymare
jollymare - ph: Elisa Leaci

Il suo nuovo album, "Mechanics", esce ufficialmente oggi, eppure già da qualche tempo se ne fa un gran parlare in Italia e all'estero. Abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Jolly Mare per scoprire dove nascono i suoi pezzi, qual è la ricetta segreta per bilanciare groove e sentimento e i modi in cui si sta preparando al live, accompagnato per la prima volta da una band, con cui esordirà proprio al nostro MI AMI Festival (qui i biglietti). Jolly Mare presenterà il disco con un dj-set questo sabato 9 aprile al Monk di Roma, per il festival di musica elettronica Manifesto. 

Il disco non è nemmeno uscito e già stai avendo degli ottimi feedback, all'estero ma anche in Italia, dove sono arrivate pure le attenzioni di certa stampa generalista. In cuor tuo ci speravi di poter partire così?
Onestamente il disco sta andando anche al di sopra delle mie aspettative. Il pregio e il difetto di questo disco qui è che è tanto diverso, ci sono molte tracce che toccano territori musicali differenti tra loro, quindi avevo il timore che non venisse assimilata questa cosa qui. Perché non è automatico che uno mette dentro un pezzo pop che sembra italodisco, poi una roba che sembra techno, giustamente ti chiedi ma questo che cosa vuole fare?

Appunto, cosa volevi fare? Il tuo ultimo inedito risale a due anni fa, tutti ormai ti conoscevano come dj. Quando e perché hai iniziato a pensare all'idea di pubblicare questo album?
Io avevo voglia di fare un disco intero, perché volevo che ci fosse un concetto dietro quello che stavo facendo, una sorta di programmaticità. Dopo il Sonar ci sono state due etichette abbastanza grosse che mi hanno scritto perché volevano dei lavori. Però mi avevano chiesto delle cose che erano un po' troppo pop per i miei gusti, e dopo aver prodotto alcuni provini ho preferito rinunciare. Mi sono ritrovato con queste demo in mano, che messe insieme restituivano un legame, un senso comune. Ho deciso così di lavorarci, di cucirgli addosso questa idea della meccanica, del groove e dei sentimenti. Quindi grossomodo è un anno e mezzo che ci lavoro, tra quando ho fatto la prima demo e quando poi ho firmato con le etichette e chiuso.

Dove hanno preso forma le idee?
Le idee sono nate un po' a caso, in qualsiasi posto ero me le scrivevo, me le registravo. I primi sei mesi ho sempre dovuto lavorare a casa, non avevo un setup mobile che mi consentisse di produrre anche quando ero in giro. Poi successivamente ho iniziato a lavorare veramente dove capitava: nelle camere d'albergo, a casa degli amici, della fidanzata, all'autogrill, la figata è stata quella. Molte cose sono nate anche in treno, a me lavorare in treno fa impazzire.

Hai una tratta che ti emoziona più di altre?
La tratta del Lecce-Milano, in particolare quella che va da Ancona a Rimini, quando incontri il mare e hai il treno che cammina proprio sull'acqua dell'Adriatico, quel tratto è bellissimo.

Ti posso chiedere se ti senti più figlio degli anni '80 o dei '90?
I ricordi più presenti che ho sono quelli degli anni '90, però i ricordi più cari sono quelli degli anni '80. I ricordi dell'infanzia sono i più forti, stavo a casa dai nonni, dagli zii, eravamo una grande famiglia ed eravamo sempre tutti insieme. E poi stilisticamente trovo gli anni '80 più convincenti, più seri.

Mi stai dicendo che sei cresciuto negli anni '90, in provincia, con la passione per la musica elettronica, e non sei mai caduto nella trappola dell'eurodance?
L'eurodance mi è stata sempre stretta. L'ho suonata, perchè di cose in 21 anni che faccio il dj ne ho suonate, però quel tipo di suono anni '90 non mi ha mai entusiasmato, sebbene l'abbia vissuto. Il suono degli anni '80 invece per me è un suono superfigo, perchè è acustico, elettrico ed elettronico, sempre al top di come poteva essere fatto. Lasciando stare la sperimentazione, io ti parlo proprio di qualità sonora, di timbrica.

Mi dai dei nomi di artisti che sono stati per te delle linee guida nell'approccio alla costruzione musicale?
Sarebbero così tanti, te ne dico tre italiani però: Change, Pino Daniele e Fabio Concato.

ph: Elisa Leaci
ph: Elisa Leaci

(ph: Elisa Leaci)

Ho letto che per questo disco sono stati importanti gli incontri che hai fatto. A chi ti riferisci?
Mi viene in mente il tempo passato con Theo Parrish o, durante la Red Bull Music Academy, l'esperienza con Thundercat, o ancora il tempo passato in studio con i musicisti che hanno suonato nel disco. Io ho studiato un po' di musica da ragazzo, ma il mio approccio alla produzione è sempre stato spontaneo, più simile a un gioco se vuoi che non a fare musica con degli strumenti.

Qual è stata la cosa più importante che ti hanno trasmesso?
Da Theo Parrish ho imparato la maniacalità nella ricerca, lui è assatanato di dischi più di quanto lo fossi io a 13 anni. Quando ci siamo incontrati non mi ha detto nemmeno ciao, ha fatto "posso guardare nella tua valigia?". E poi la fisicità nella musica, lui è un grandissimo esempio di come il dj per arrivare alla gente oltre alla musica che fa deve essere fisico, diretto, è un vero animale da palcoscenico, e questa cosa se la porta nella musica che fa. Mi ha detto: "non mi parlate di griglie, di computer, io devo fare le cose con gli strumenti veri, per me la musica è materia". E la stessa cosa Thundercat, fino a che non hai capito bene la stesura armonica che vuoi fare, non hai capito come sviluppare il pezzo, si prova. Una volta che è finita quella si va diretti, buona la prima. Mi ha cambiato moltissimo poi lavorare assieme a Paco Carrieri, il tastierista che ha suonato nel disco e sarà con me anche in tour. È stato piacevolmente traumatizzante. Si è presentato in studio e in metà pomeriggio ha praticamente risuonato tutto il disco senza che io gli spiegassi più di tanto. La progressione armonica di piano elettrico di "Hun", che apre il disco, è nata proprio così, buona la prima mentre eravamo in studio, gli ho dato un loop e via.

Mi parli di fisicità, di materia, di come hai registrato questo album, che l'idea di portarlo in giro con una band era l'unica strada percorribile.
Ascoltando i consigli degli amici e di chi lavora con me ho capito che per questo disco è necessario portarsi i musicisti dietro, serve per far entrare l'ascoltatore dentro l'esperienza, non c'è altra chance. Quindi lo faccio. Però non vorrei andare in giro troppo, fare mille date, non mi interessa, mi costa tanta fatica non essendoci abituato. Sul palco ci saranno batteria, basso, tastiera, Lucia Manca alla voce e poi io che leggo le mail (ride, nda).

Qual è la maggiore difficoltà che hai incontrato in questo cambio di approccio, da producer/dj in solo a componente di una band?
Quella di affermare la propria idea con delle altre persone. Io ho cominciato a fare il produttore e lavorare da solo in primis perché sono una persona estremamente indipendente, e poi perché mi crea imbarazzo imporre la mia idea a qualcuno. Mentre quando lavori con dei musicisti, a maggior ragione se la band è tua, devi parlare a ragion veduta e poi trovare un modo gentile per imporre la tua linea stilistica. Fino adesso non c'è stato modo di intervenire tanto, anzi sono stati loro a ispirare me, però anche il fatto di andare in giro con una band che porta il mio nome, la vedo come una responsabilità, ci sono delle persone che suonano con me e per me. Ecco questa è la cosa più difficile, quella di stare davanti, e non ci sono abituato.

Idealmente, cosa ti piacerebbe che il live provocasse in chi viene ad ascoltarvi?
Una diversa prospettiva rispetto al disco. Vorrei che fosse più scarno dal punto di vista produttivo, più sporco, essenziale e che dia anche molto più spazio a ciascuno dei musicisti. Mi piacerebbe presentare il loro sound all'interno del live, ecco.

Ci saranno pochi live come hai detto, ma c'è un luogo particolare in cui ti piacerebbe suonare l'album dal vivo?
Ormai lo possiamo dire, la prima data sarà al MI AMI, e già questo per me è un sogno che si realizza. Il fatto di suonare all'aperto, in un parco, durante un festival mi piace e mi gasa veramente tanto. E poi mi piacerebbe farlo per poche persone, tipo in un night club, sai quelli pieni di specchi, col pavimento che si illumina, queste cose qui. Molto didascalico, però anche un sogno facile da immaginare.

Tornando al disco, uno dei miei pezzi preferiti è "Hotel Riviera". Ha la forza per diventare un instant classic della musica italiana. Con quale ispirazione è nato?
La bozza di "Hotel Riviera" l'ho fatta per caso, spippolando su un synth mi è venuta fuori la linea che si sente sotto, che sembra una chitarra stoppata, mi sono detto è un motivo buono. Poi ho messo dentro la batteria, gli accordi e alla fine c'era una base che andava. Volevo scrivere anche il testo e farlo interpretare a Lucia, che secondo me è una cantante bravissima. In realtà non c'era nemmeno un argomento all'inizio, però io nella parte del break, quando il pezzo si scarica, mi immaginavo uno skit, una telefonata classica, e mi sono messo a cantare "Piange Il Telefono" di Modugno, quando fa "l'estate andate a villeggiare all'Hotel Riviera", e la scintilla del titolo è venuta fuori in questo modo. Poi nel testo c'ho messo dentro delle esperienze personali, cose che mi sono successe lungo la riviera romagnola.

Chi sono gli altri featuring del disco?
Sono degli amici che hanno fatto l'Academy con me a New York e con molti dei quali avevo già passato del tempo in studio. Così ho deciso di inviare ad ognuno il pezzo che gli vedevo bene addosso, e loro me l'hanno mandato subito indietro col cantato completo, stop. È stato fantastico. Crazy Bitch In A Cave è una drag queen austriaca, indossa sempre abiti di scena quando performa e canta in falsetto, e in "Broken Ceilings" ha messo tanta della sua sensibilità. Quietdust è di Dublino, e come estrazione è più folk, però ho voluto decontestualizzarla dandogli un pezzo estivo, fresco. Invece Camille canta in un duo indie francese che si chiama De La Montagne, sono veramente bravi. Il suo pezzo, "Want You Bad" non ha una struttura classica, ha questo assolo lunghissimo nel mezzo che spezza tutto, però io la volevo assolutamente così, e lei è riuscita a starci dentro, abbiamo fatto un bel miscuglio di Italia, Francia e Inghilterra, perchè il cantato poi è in inglese.

Le testate e le radio straniere dopo aver ascoltato i primi due singoli hanno iniziato a sfregarsi le mani e cominciato a parlare di "nuova italo-disco". Due cose: la prima, se ti senti veramente erede di quella tradizione; la seconda, qual è secondo te la caratteristica, la sfumatura che ci ha reso (e ci rende) veramente unici nel campo della musica dance?
Secondo me dipende dalla nostra sensibilità melodica, noi abbiamo inventato la musica classica, le arie ce le abbiamo nel sangue, e tutta questa melodia, che nella dance attuale manca, nell'italo-disco ce l'abbiamo messa dentro noi. Nella musica disco c'era già, però era fatta dalle orchestre, dai musicisti bravi, nella italo-disco invece era fatta da gente che utilizzava mezzi poveri, e da quelli tirava fuori tutta la propria passione, la propria personalità. Gli aspetti che la rendono unica sono questi: la spontaneità, la scelta dei suoni, perchè sono suoni colorati, e poi ti direi anche l'attitudine positiva, giocosa, dei pezzi, quel futurismo casereccio. È comunque una musica "ironica", a me piace per quello, mi fa divertire, anche se non credo di essere completamente erede di quella tradizione, diciamo che ho un gusto italiano che mi ci avvicina molto.

Hai memoria del momento, di quell'epifania che ti ha fatto decidere di diventare un dj?
È stato a 13 anni durante una festa di carnevale, in un circolo cittadino del mio paese, Novoli, ho visto per la prima volta dei ragazzi che avevano i 1200. Sono stato tutta la sera davanti alla consolle, poi ricordo di essere tornato a casa e la sera stessa ho preso un salvadanaio e mi sono detto "qua dentro devo metterci i soldi per comprare l'impianto". È stata proprio una passione che mi ha spinto, sai l'idea di stare lì, fare divertire la gente, e poi io sono molto patito di grafica, e il disco era quel trick attorno a cui ruotava l'estetica, la musica... era perfetto.

video frame placeholder

Nei club adesso senti la nostalgia di qualcosa rispetto al passato?
Io negli anni '80 non ho ballato, ero troppo piccolo, però dalle cose che ho visto, dalle persone con cui ho parlato, si intuisce che a quel tempo ci fosse veramente un'attitudine positiva per il clubbing, la gente andava lì per divertirsi, sfoggiando un look originale e più eri diverso più eri figo, non dovevi per forza omologarti. Negli anni '90, che sono quelli che ho vissuto direttamente, mi ricordo invece molta noia. Adesso le cose non vanno male rispetto a quegli anni lì, specie nell'ambiente disco c'è molta voglia di divertirsi semplicemente ballando e quella per me è la cosa che deve essere fondamentale. In discoteca devi andare per sudare, se stai andando perchè ti sei messo i vestiti buoni, perchè ti senti nel posto giusto, allora non funziona.

C'è un posto tra quelli in cui hai suonato che ti ha restituito meglio questa sensazione?
Harmonized a Civitanova Marche, senza ombra di dubbio. Ho suonato tre volte lì, la prima con Theo Parrish, la seconda con Ad Bourke e quest'anno con Francisco abbiamo fatto b2b tutta la sera. Lì ci sono dei ragazzi che la musica la vivono nella maniera giusta, si divertono, hanno attenzione verso i titoli, verso le correnti. Poi anche l'ultimo Rollover a Milano è stato fighissimo, era pieno di amici, in un posto che sembrava la location di un film. Fortunatamente non mi va di suonare troppo ma mi va di suonare bene. I posti dove vado a suonare sono posti che secondo me reputano attenzione.

Abbiamo parlato del disco, di suono, di djing. Per chiudere bene, fammi l'esempio di un pezzo da club che per te rappresenta l'idea di perfezione.
C'è bisogno del giusto mix tra suonato e ritmo, se c'è solo il ritmo non va bene, se la gente la anneghi nei violini svuoti la pista. Ti dico "I'm Ready" dei Kano, mi fa impazzire, è una di quelle canzoni che ogni volta mi dico "l'avrei voluta scrivere io". Gli ingredienti? C'è bisogno di una ritmica che ti tira su, ti fa volare, e lo fai giocando sui controtempi, giocando sugli anticipi, i ritardi. Poi il basso che ti deve ingrifare e le percussioni devono essere divertenti ma non troppo. E poi c'è bisogno di qualche elementino armonico che ti deve portare via con la mente. Ma deve essere più un'illusione che una presenza.

È il tuo disco in pratica.
Ogni cuoco ha la sua ricetta (ride, nda)

---
L'articolo Jolly Mare, quando la meccanica incontra il sentimento di Marcello Farno è apparso su Rockit.it il 2016-04-08 12:04:00

COMMENTI

Aggiungi un commento Cita l'autore avvisami se ci sono nuovi messaggi in questa discussione Invia