Xayra Resilience Blues 2015 - Alternativo, Post-Rock, Slow-core

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Ancora acerbi ma evocativi. Una malinconia generazionale convogliata dentro un mix folkeggiante di indie-rock americano e raffinatezze d’oltremanica.

Considerando che musicalmente di blues, qua dentro, ci sono solo tracce residuali, ipotizzerei che il “Blues della resilienza” di cui al titolo sia da intendersi – azzardo – come spleen indotto dalle feroci dinamiche sociali della contemporaneità, di certo poco avvezze a confezionare situazioni di durevole serenità, per le nuove generazioni in primis.
Liberi di smentirmi gli Xayra che, appunto, danno alle stampe un debutto ad elevato coefficiente di umoralità e intimismo tridimensionale dove forse, a pensarci bene, è proprio il mood che anima tutte e 11 le tracce del disco a profumare di blues, per quel suo raccontare la lotta continua tra la spietata mutevolezza del mondo e l’umana capacità di adattarvisi, ondeggiando tra sconfitta e rinascita, gioia e dolore necessario, vita e morte.

A sonorizzare questo groviglio umorale ci pensa un bel mix folkeggiante di suoni che guardano tanto alle volumetrie aperte dell’indie-rock americano (le sferraglianti scorribande “pumpkinsiane” di “Useless escape from my sweet terrible nowhere” o quelle ironiche à-la Weezer di “I might be happy”) quanto alla raffinatezza di certo rock d’oltremanica (lo slow-core rasserenante di “Huge empire of nonsense tumbling down very politely” o le contorsioni “radiohediane” di “An endless aeon of silly silly sorrow”).
Massimiliano Speri, Costantino Ragno, Gian Mario Bachetti e Italo Ragno – ben lontani da una definitiva quadratura del cerchio – si accontentano, almeno a questo giro, di capitalizzare al meglio i propri riferimenti musicali riuscendo comunque nell’intento di tracciare un suggestivo percorso visionario tra le increspature della vita come se osservata attraverso il finestrino bagnato di un’auto (“Bipolar lament” su tutte).

Sulla personalità c’è dunque ancora molto da lavorare, ma quanto al resto quasi tutto è al posto giusto in quest’opera prima: dalla bella voce emozionale dello Speri al gran lavoro atmosferico del reparto chitarre – desertiche e in odor di Wilco all’occorrenza – dalla reattività della base ritmica al garbo acustico di alcuni passaggi. E con queste premesse quell’“aeroplano pieno di speranza”, evocato alla fine del disco, non sembra poi essere così lontano.

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La recensione Resilience Blues di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2016-02-08 09:50:00

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