Nitro - Pensare alla morte e al futuro del rap

Se i fan preferiscono concentrarsi più sul lato privato di un artista che sulla sua musica, Nitro li accontenta; a loro rischio e pericolo. “Suicidol” è un viaggio nella sua parte più intima e marcia. Un album che parla di morte, di odio e di rabbia repressa. Uno dei dischi più belli dell'anno: ce

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Se i fan preferiscono concentrarsi più sul lato privato di un artista che sulla sua musica, Nitro li accontenta; a loro rischio e pericolo. “Suicidol” è un viaggio nella sua parte più intima e marcia. Un album che parla di morte, di odio e di rabbia repressa. Uno dei dischi più belli dell'anno: ce lo racconta in questa intervista.

Partiamo allegri: “Suicidol” è un concept album sulla morte, giusto?
Si, è una cosa molto, molto voluta. Tutto il disco gira attorno all'idea che se muori vendi più dischi ma non è detto che ti vengano riconosciute le tue qualità. La gente è attratta morbosamente dalla morte, la morte rende tutto un po' più misterioso. Per morte si può intendere molte cose: quando uno smette di scrivere, quando smette di produrre, quando pensa di non aver più niente da dare a nessuno. È una questione spirituale.

Non è un po' presto per preoccuparsi di cosa lascerai ai posteri?
Non è mai troppo presto (ride, NdA). Capisco benissimo che detta da uno di ventidue anni può suonare un po' strano. Per me un artista deve essere un tramite tra qualcosa di più alto a qualcosa di normale. Quindi è suo dovere dire il messaggio che si sente dentro. Io mi sentivo di dire questa cosa e l'ho sviluppata come meglio potevo.

In “The same old story” dici: “l'arte fa volare pur sentendosi inferiori”.
Esatto, era per dire che, anche se l'artista spiega qualcosa di più elevato, non vuol dire che si senta per forza superiore a chi lo ascolta. In ogni campo, che sia lo sport, l'arte o la musica, uno bravo riesce a farti sembrare semplici delle cose che, in realtà, non lo sono. Ti spiega in maniera semplice una cosa che, magari, non lo è per niente ed è quello sto cercando di fare.

Quindi sei uno bravo.
Mi riesce bene o almeno, dopo due dischi solisti ed il “Machete Mixtape”, posso dire che quello che scrivo in qualche modo colpisce la gente. Non sto a giudicare se in maniera positiva o meno, ma la colpisce.

Nel disco dici che l'arte è come se ti mettesse su un piedistallo ma, una volta salito, ti fa sentire solo. Che è una cosa un po' anomala per il rap italiano dove, invece, si tende più a ribadire quanti soldi hai fatto, quanto spacchi, quante donne hai ecc.
Sì, ma quando è finito il concerto e ti trovi a casa da solo è un'altra cosa.

“Birdman” l'hai visto?
Si, mi è piaciuto molto. Riesce a presentare l'artista, sostanzialmente, come un insicuro disilluso del suo stesso talento o dell'arte in generale. È bello far vedere alla gente che non sei un intoccabile solo perché sei sopra ad un palco.

Quelle che racconti sono tutte paranoie vere o un po' esageri?
È tutto vero ma chiedere a uno se esagera sulle sue paranoie è un ossimoro: la paranoia è, di per sé, l'esagerazione di una paura. Io penso che sia anche un modo per esorcizzare determinate mie debolezze: una volta messe nel disco è come se me le togliessi dalla testa.

Certo in alcuni punti racconti delle cose davvero intime. In “Rivivere” scrivi: “se capisse che anche quando scopo sento poco e niente”, non tutti gli uomini avrebbero il coraggio di dirlo.
Io quel coraggio ce l'ho avuto, come quando dico che se non avessi fatto il rap sarei ancora vergine, su cui ci rido sopra ma non è una cosa esattamente leggera.

Se permetti direi che quella che ti ho citato io è un tantino più pesante. Non hai paura che ti vedano come un freaks e che, alla lunga, la gente non ti prenda più sul serio?
Mah... cosa me ne frega. Spesso e volentieri gli artisti vengono scambiati come fenomeni da baraccone, anche quelli seri.

La domanda l'hai capita: perché uno si deve mettere così a nudo?
La vera domanda è “perché non dovrei farlo?”. Lo sai qual è il paradosso del fan? Tu al fan piaci per la musica che fai ma se gli fai conoscere il tuo privato è decisamente più contento. Fa molto più effetto se posti una scena della tua vita quotidiana al posto di pubblicare una canzone. Loro vogliono vederti sì come artista ma soprattutto come persona. Io ho risposto: va bene, però sono cazzi vostri. Vi offro tutto quello che ho, ve lo metto su un piatto d'argento e nella maniera più intima possibile, ma se non vi piace ricordatevi che l'avete voluto voi.

Giusto per rimanere su argomenti leggeri: parliamo di odio. Sicuramente non sei l'unico a fare canzoni contro i propri hater, ma è un argomento abbastanza centrale nei tuoi dischi, sbaglio?
Non voglio fare la vittima, è l'ultimo dei miei problemi quando faccio musica. A me piace sfogarmi: detto molto onestamente, sono una persona che ha parecchia rabbia repressa. Se aggiungi che sono abbastanza introverso, non parlo molto, ho sempre visto il rap come mezzo per svuotarmi di tutta quella roba che, altrimenti, non saprei dire.

Di tutte le critiche che ricevi qual è quella che ti dà veramente fastidio?
Quando scrivono che dico cose senza senso: anche se non le capisci, non vuol dire che non ce l'abbiano. E forse quando mi dicono che sono arrivato fin qui solo perché mi hanno dato una spinta. Sono sui palchi da quando avevo 13 anni, sono 10 anni che sono dentro al rap, merito il rispetto di chi si è fatto il culo fin da piccolo.

Mi dici qualche tecnica per zittire un hater?
Ce ne sarebbe una sola: ignorarli. Purtroppo non sono perfetto e non sempre ci riesco. A volte vorresti davvero fargli capire quanto è inutile, colpirne uno per educarne cento. Una volta ad un concerto è successo, mi sono proprio sfogato. Su Facebook può capitare ma cerco di essere più educato, non puoi metterti allo stesso livello di uno che ti dà del coglione senza alcuna motivazione. Solitamente quando gli dici: “Ok, spiegami in modo chiaro e razionale perché sono un coglione” lui, non avendo argomenti, abbassa la cresta.

Il succo di “The Same Old Story” è che gli artisti fanno i duri e gli stronzi solo per coprire le proprie insicurezze. Anche tu quindi?
Sì, certo. Ci sono i due lati del mio essere aggressivo: mi piace mettermi in gioco, altrimenti non avrei mai fatto freestyle; e poi c'è una parte più intima. Se ascolti il disco, penso si capisca quando faccio lo stronzo solo per rompere il culo a chi ipoteticamente mi sta davanti e quando, invece, lo faccio per difendermi perché, sostanzialmente, sono una persona insicura.

Facciamo un passo indietro: qual è stato il disco che ti ha portato a fare rap?
"E.L.E. (Extinction Level Event): The Final World Front” di Busta Rhymes, 1998.

E qual è il nuovo giovane che arriverà e si prenderà tutto?
Joey Bada$$, sembra un piccolo Nas. Ha un suono molto old school, in America c'è il ritorno di questo tipo di suoni. Secondo me appena svilupperà un minimo delle sononità più personali potrà sicuramente mangiarsi il mondo. Mi piace il collettivo A$AP Mob: A$AP Rocky, A$AP Twelvyy, ecc. In Italia non saprei dirti, sinceramente sono poco informato sui nomi nuovi mentre sono sempre stato un nerd del rap italiano: conosco un casino di album che probabilmente, tranne me e pochi altri, non ha mai ascoltato nessuno. Prendi “Nextraterrestrial” dei Camelz Finnezza Click, è stato uno dei dischi che, per primi, hanno portato una certa attitudine hip hop da noi.

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A livello di suoni questo disco ha un un approccio abbastanza vecchio, tipo alla Dirty Dozen.
C'è stato un lavoro abbastanza meticoloso, ho passato in rassegna più di duecento strumentali per scegliere le quindici del disco. Ci ho messo tutto quello che volevo. L'idea di “vecchio” è sempre relativa, l'Italia al momento è dov'era l'America dieci anni fa. “Sassi e diamanti” ha la struttura da hit americana ma se la sono filata in pochi – e non lo dico perché credo che sia un capolavoro ma perché ha il flow ed i suoni tipici di come si scrivono, oggi, le hit in America. “Rotten” è esplosa subito ma se la facessi sentire ad un americano mi direbbe che l'ho copiata dal Slim Shady del 2004.

Sono vecchie anche le citazioni, in quest'ultimo disco citi spesso Eminem e in “Danger” infilavi un campionamento dei Sangue Misto già alla prima traccia.
Per me è un dovere, penso che se hai ascoltato un certo tipo di musica e questa ti ha cresciuto è giusto renderle omaggio.

Come hai scelto i featuring?
Io la vedo un po' così: se faccio una cena a casa mia posso invitare chi voglio, ma se cucino pesce è inutile chiamare quelli a cui non piace. Cerco di adeguare le partecipazioni all'ambiente del progetto e non in base alla possibilità che il tal nome mi porti più vendite. In un disco così oscuro ci potevano stare bene pochi nomi, sono contento di quelli che ho scelto. Mi dispiace non aver avuto nessuno della Machete, ma eravamo reduci da un disco veramente impegnativo, “Machete Mixtape 3”, e avevamo le pile scariche per scrivere nuovi pezzi insieme.

Parliamo d'amore: “Sassi e diamanti” e “Pleasantville” lo raccontano in due modi molto diversi.
Rappresentano due fasi. È come se fossero la parte prima e la parte seconda di un discorso. La prima parla dell'inizio di una relazione, quando non sai se ti puoi fidare o meno della persona che hai a fianco, se arrivi a “Pleasantville” vuol dire che hai acquistato la fiducia.

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E “Rivivere” come va interpretata?

Eh, “Rivivere” (lunga pausa, NdA). Diciamo che è stata scritta in una brutta giornata. Te lo dico molto sinceramente: non sono bravo a raccontare cosa voglio trasmettere nelle canzoni, tante volte non lo so nemmeno io. È questo il bello ed è anche il motivo per cui faccio musica, se avessi tutto così chiaro probabilmente scriverei libri. Io rappo perché faccio fatica ad esprimermi (ride, NdA).

Provaci.
“Rivivere” è quello che ci rende umani, se pensi semplicemente al fatto di ri-vivere... è una cosa umana, non penso che un animale si ponga il problema dell'esistenza di una vita dopo la morte. È il fatto che può andare tutto malissimo ma la speranza, nell'animo umano, c'è sempre. Per questo è l'ultima traccia del disco.

Da quanti anni ti paghi le bollette con la musica?
Da tre anni, appena ho finito la scuola mi sono trasferito a Milano.

Com'eri a scuola?
Andavo bene a scuola perché a casa mia c'era la legge che se non prendevi bei voti non potevi andare a fare quei concerti infrasettimanali dove magari tornavi alle quattro di mattina e alle otto dovevi già essere in classe. Ho sempre saputo che volevo fare rap, ho dovuto trovare un modo che mi permettesse di farlo.

Quanto ci metti a scrivere una canzone?
Dipende, può essere mezz'ora oppure una settimana.

Dove scrivi?
Note sul cellulare, foglio e penna e, alla fine, computer. Osservo la gente, quando non so cosa scrivere vado in giro per Milano con le cuffie e guardo le persone.

Come ti trovi a Milano?
Male, ma mi fa scrivere bene (ride, NdA).

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L'articolo Nitro - Pensare alla morte e al futuro del rap di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2015-07-24 08:53:00

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