Coez - Non c'è niente che non va nel pop

La carriera da rapper è ormai alle spalle, si definisce un "nuovo cantautore italiano". Questo è il nuovo Coez.

Coez
Coez - Mattia Zoppellaro

La tempesta è finita, Coez torna con un nuovo disco che è un'ammissione di tranquillità, la prova di un'attesa maturazione. Produzione ricchissima, pop da classifica (nel senso più positivo del termine) e temi che si discostano per una volta da un'intimità che a volte può sfiorare l'egocentrismo. Il periodo del rap è ormai alle spalle, questo è il nuovo Coez.

Niente che non va, oltre che un titolo, un’ammissione di tranquillità. Cosa è successo dal 2013, anno del tuo ultimo disco, ad oggi?
Sicuramente sto un po’ meglio, ho iniziato a stare meglio mentre registravo il disco precedente. Diciamo che in ogni disco si tende a raccontare non quello che ti sta succedendo in quel momento, ma ciò che si è appena concluso. Nel momento in cui stai un po’ meglio riesci anche a parlare delle cose che ti hanno fatto stare male, no? Quando stai una merda non riesci molto a metterti a scrivere. Dopo l'uscita di "Non erano fiori" sono migliorate molte cose, anche a livello lavorativo. E già quella è una cosa che ti leva molti pensieri, perché fare musica oggi non è facilissimo. Il fatto di poter vivere di questo non è poco.

Qual è la cosa più difficile del fare musica oggi?
Costruire una carriera musicale che stia in piedi per anni è sempre stato difficile, in qualsiasi epoca. Io penso che le difficoltà di questi anni siano legate al fatto che le strutture che si accollano le robe del genere sono poche. Per esempio quando sono arrivato a Carosello, la mia etichetta, mi hanno subito fatto capire quanto loro fossero coscienti che il percorso di un artista è lungo, e non si aspettassero che facessi il botto subito, perché la carriera è una roba che si costruisce. Io ho avuto la fortuna di trovare un discorso del genere. Tutti i miei colleghi sono usciti fuori dal web e continueranno a lavorare per un po’, non so come si evolveranno. Per me quel discorso è iniziato un po’ prima.

Diciamo che, comparato a molti tuoi colleghi, il tuo è un percorso più tradizionale.
Sono partito come rapper e a un certo punto ho smesso, proprio quando il rap stava decollando in Italia. Ho capito che forse non era proprio quello che volevo fare e ho deciso di rischiare. Per questo sì, a livello discografico è stato in qualche modo tradizionale perché non sono di certo nato su YouTube (anche se ovviamente un minimo il web mi ha aiutato), ma a livello artistico invece sono stato proprio il contrario della tradizione.

“La rabbia dei secondi” è un gran bel singolo. Ha una produzione molto ricca, a metà tra Cremonini e Pharrell. Anche nel resto del disco dominano molto i fiati, i violini, i pianoforti, ci sono un sacco di strumenti. Una cosa che oggi come oggi è inusuale anche in un disco pop, figuriamoci in quello di un artista che viene dal rap
In realtà il pezzo che avevamo preso come riferimento artistico era una cosa più brit, solo che poi lo abbiamo “gonfiato” molto. Qualcosa tipo “Park Life” dei Blur, pensavo a qualcosa del genere quando ho scritto il singolo, anche se “La rabbia dei secondi” è molto più pop. In “Park Life” c’è un pezzo parlato con una base molto cadenzata, e poi nel ritornello si apre. Più che un occhio all’America, in questo disco abbiamo guardato alla Gran Bretagna.

Il disco precedente era stato prodotto da Riccardo Sinigallia, ma paradossalmente era meno pop di questo
Sì, effettivamente quel disco lì si portava dietro tutti i retaggi del rap che era impossibile togliersi di dosso, anche perché non sentivo ancora l’esigenza di distaccarmene completamente. La mia scrittura è cambiata in modo molto graduale. È stato il “vestito” che Sinigallia ha dato alle canzoni che le ha allontanate dal rap, come per “Lontana da me”, ad esempio. Sulla seconda strofa entro con le metriche alla Rick Ross, una cosa di cui la gente non si accorgerà mai, lo so, probabilmente perché sono sopra un wurlitzer. Con Sinigallia avevamo mischiato molto le carte, in questo disco invece le canzoni sono partite già pop, chitarra e voce.

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Quindi è così che hai scritto le canzoni?
Io ho scritto assieme a Ceri, che è il produttore del disco, un ragazzo di 24 anni, un fenomeno. Abbiamo lavorato insieme nella stesura. All’inizio doveva solo comporre assieme a me i pezzi, senza produrre. Ma poi si era affezionato al progetto, tutti i virtual instruments che aveva scritto stavano già in piedi da soli, quindi ci siamo detti “chiamiamo dei musicisti veri ed è fatta”.

Quanti musicisti ci sono nel disco? 
Un bel po’. C’è il mio chitarrista, poi T-Bone dei Bluebeaters che si è occupato dei fiati insieme ad altri collaboratori, Patrick Benifei (Casino Royale, Bluebeaters) ha fatto le tastiere del disco, pianoforti a coda, hammond, wurlitzer, tutto. Contrariamente all’abitudine che c’è nel rap italiano di affidare il mastering a tecnici americani (a prescindere dalla cura che ci mettono), noi siamo andati a Londra al Metropolis Studio e ci siamo messi nelle mani di Stuart Hawkes, lo stesso che ha lavorato su “Back to Black” di Amy Winehouse, Disclosure, Sam Smith e tanti altri. Un professionista che ci ha trattato bene, e si sente.
Da un certo punto di vista chiudere questo disco è stato un bagno di sangue, ci abbiamo messo un anno. Ma alla fine eravamo tutti soddisfatti.

Hai detto che questo è un disco pop, e io ti do ragione
In realtà non so più cosa significhi pop, ovviamente adoro sfuggire le definizioni. Se ascolti il disco di Jovanotti, che ha quel sound un po’ ballabile, lo potresti sicuramente definire pop, ma non c’entra niente con quello che faccio io. Comunque è un tipo di pop che in qualche modo è alternativo: passa da “Niente che non va”, un pezzo elettronico, a “Le parole più grandi”, che è un pezzo piano e voce. C’è il pop, ma c’è anche il cantautorato, altri pezzi che come tipo di scrittura e beat si avvicinano più al mondo hip hop.

A te che tipo di pop piace?
Il pop inglese mi è sempre piaciuto moltissimo. I Blur sono riusciti a creare un tipo di pop unico, caratteristico, nazionale. Non a caso è noto come brit pop. Sono riusciti a far diventare qualcosa che non era pop, popolare.

La tua cartella stampa parla di “nuovo cantautorato italiano” - immagino ci si riferisca ad un nuovo tipo di pop italiano che proviene dal rap, ma arriva da un’altra parte servendosi di un sacco di parole. Però nell'avvallamento che in Italia si è creato tra rap e pop è davvero difficile orientarsi. Ci trovi Moreno come Nesli, Fedez come Baby K con Giusy Ferreri, e mille cose ancora...
I nomi che hai fatto sono molto più pop di quello che propongo io. Preferisco che mi diano del nuovo cantautore piuttosto che uno che fa quel tipo di pop.

Una cosa mai sentita: un ex rapper che vuole farsi dare del nuovo cantautore
Sto lavorando affinché tra qualche anno, quando qualcuno nominerà Coez, non ci sarà bisogno di definirlo con un genere musicale predefinito. Che poi è il sogno di tutti. Se uno ha chiaro il percorso artistico che hai fatto sa che si può aspettare un pezzo con il piano, così come “Ti sposerai”, che dentro ha il kalimba e ha un’atmosfera hawaiana, così come “Dove finiscono le favole” che ha dentro una specie di charleston. Io vado in studio per scrivere dischi e mi diverto, e poi sticazzi di quello che faccio. Faccio cose che a me piacciono.

È un percorso, quello dal rap al pop, non privo di ostacoli. Qualcosa che ha fatto prima di te anche Neffa.
No, secondo me è diverso. Neffa ha smesso di fare rap e si è dato alla motown, è passato dal punk, al rap, alla motown. è uno che si muove per generi, per classificazioni. Invece se senti i miei dischi puoi sentire tutte le fasi di questo cambiamento graduale, non mi puoi classificare in un genere, che poi è una cosa importante nella carriera di un musicista, non stufare mai, magari non piacerai a tutti ma non rimanere mai uguale a te stesso. Non che questo squalifichi in qualche modo Neffa, quel che ha fatto è geniale. Se senti il rap di “Chicopisco” è fantastico, ha creato un lessico tutto suo. Da quello - bam - è arrivato a “La mia signorina”. I primi dischi del “nuovo” Neffa mi sono piaciuti molto, ha scritto davvero delle hit clamorose.

“Io so che sono bravo a fare rap non puoi negarlo / Chi può dirlo quale il posto in cui starò tra qualche anno? / Magari insisto e sfondo con un disco commerciale / E un branco di bambini mi daranno da mangiare”. Questo è un estratto da un tuo vecchio pezzo rap, “Quello che so”.
Si che poi c’è anche un errore grammaticale, perché sarebbe “un branco di bambini mi darà”...

Se vogliamo mettere i puntini sulle i, anche nel titolo dell’album che esce oggi mancherebbe un congiuntivo…
(ride) Sì ma è licenza poetica, se te la canti in testa senti che suona meglio così. A volte certi errori sono necessari, ci sono casi in cui è troppo più fico metterci una cosa sbagliata. Mi ricordo che anche Sinigallia una volta ebbe una discussione con Fabi su un pezzo vecchio (ora non ricordo quale), perché Fabi gli faceva notare che c’era un errore di grammatica, forse proprio un congiuntivo mancante, ma Sinigallia insisteva che era una questione di metrica e andava bene così

Comunque, avevo introdotto questo discorso per farti notare come ci sia gente che porta ad esempio proprio dei tuoi versi a dimostrazione di come tu ti sia rinnegato
Alla fine lì dico “Magari insisto e sfondo con un disco commerciale”... (ride) più coerente di così!

Sì, diciamo che la frase più controversa è quella dopo, quella sui bambini
Be’ alla fine non ho continuato a fare musica per bambini. È palese che questa roba qui sia molto più matura di un disco come “Figlio di nessuno”. Però lì c’era l’hardcore, la cattiveria, cose che si scambiano per maturità quando non è così, alla fine è solo voglia di spaccare tutto, una cosa adolescenziale. Paradossalmente ci vuole molta più maturità per scrivere un pezzo come “Niente che non va”, non c’è proprio paragone.

Si capisce però che per un ventenne che ti ascolta è molto più facile digerire una roba più “gangsta” - forse perché lo carica, gli dà coraggio
Sì ma quello è un problema dei ventenni, non mio, poi capiranno, come poi ho capito io. Quando ho scritto quel disco avevo 23-24 anni, ero incazzato come una iena però se lo risento adesso ci sono cose per le quali arrossisco, che non si possono sentire

È normale, sarebbe strano il contrario
Sì, ho fatto un percorso umano e anche artistico, e questa cosa si rispecchia nella mia arte. Non mi comporto più in un certo modo, i gusti e le durezze si smussano, non sceglierei più il tipo di ragazza che magari poteva attirarmi a vent’anni

Che ragazze ti piacevano a 20 anni? Tipe gangsta?
No, mi piacevano le stronze, tanto stronze

Stronze con la Smart?
No, non così stronze (ride)

Un’altra cosa che ha destabilizzato molto i tuoi fan è che in questo disco non ci sono featuring. Perché secondo te per loro è così importante? Cosa significano i featuring in Italia?
Molti sono ancora troppo ancorati all’idea del rap. Se prendi un disco di Vasco Rossi non c’è un featuring, lo stesso se ne prendi uno di Dente, Levante, chiunque. C’è forse un featuring su un disco di Tiziano Ferro? No. È una cosa da rapper, ma se fai canzoni e non pezzi rap, non ha senso. Immagina se in “La rabbia dei secondi” a un certo punto entrasse Gemitaiz a rappare, non c’entrerebbe niente. E lo dico avendo scritto per lui e Madman “Instagrammo”, che era un pezzone, ma che per me non funzionerebbe. Sono troppo vecchio per quelle cose, il treno del rap per me è partito. Quando io spaccavo il culo con “Figlio di nessuno” facevo 1000 views, non c’era nemmeno Facebook. Andavo in giro con Brokenspeakers a suonare davanti a 20 persone, prima funzionava così. Ora fai un disco, o un singolo, lo metti sul web e hai subito un’etichetta che ti chiama e si innesta un meccanismo. Io non vengo da questo periodo qua. Quando mi ha chiamato il mio attuale manager io già avevo dato segnali di cambiamento, era già uscito “Invece no” e stavo già lavorando ad un progetto di musica elettronica.

In questa transizione immagino avrai dovuto cambiare anche tipo di vocalità
Sì ho preso moltissime lezioni di canto. Nei live dello scorso disco ho avuto molti problemi da questo punto di vista, problemi che non mi ero mai posto, perché quando fai rap puoi parlare, cantare, strillare, non ci sono note, non frega niente a nessuno se dal vivo non sei intonato o identico a come suoni su disco. È stato difficile cambiare, abbiamo lavorato molto sul fisico, sull’anatomia, sulla tecnica. Il mio insegnante fa corsi di growl, quindi di tecnica ne sa. Mi ha insegnato e tuttora mi insegna moltissimo, ha capito il mio stile e mi ha dato gli strumenti per portarlo avanti. Ci sono cose che si registrano e che sono formalmente sbagliate: prendi “Il cielo è sempre più blu” di Rino Gaetano, o “Mio fratello è figlio unico”, è uno che non arriva alla nota e strilla fino a che non ci arriva - però ha un suo stile, è una peculiarità. Il mio maestro mi ha messo in condizioni di usare questa cosa quando voglio, ed evitarla quando non voglio. Riascoltando il disco ora, ci sono dei suoni che emettevo che adesso non mi piacciono più, quindi vuol dire che sto migliorando.

“La rabbia dei secondi” ha un feel molto positivo ma il testo in realtà parla di una cosa che in questo momento in Italia ha un grandissimo ruolo: il risentimento, l’invidia, la rabbia
Scrivendo il pezzo pensavo a me stesso; anche a me è successo di essere trattato come un secondo, di lottare e trovarmi sempre qualcuno davanti. È la rabbia dei secondi, spero di aver trattato il tema con la giusta distanza. Il pezzo fa luce anche sul “primo”, la persona che vuole essere sempre primo a tutti i costi, non importa quanto stia sacrificando della propria vita. Nel pezzo volevo far arrivare anche quel discorso lì. Nella canzone canto “mi chiedo se c’è un punto d’arrivo, ma l’arrivo non c’è”, e il punto sta proprio lì, il bello della vita è anche darsi da fare. La classica frase fatta “non è tanto importante l’arrivo ma il percorso”, ho capito che è vera. Le persone che si buttano in avanti con irruenza, poi le vedi appassire, perché non sono forti di tutto il percorso. Durante il percorso bisogna fermarsi e accorgersi che certi momenti valgono la pena di essere vissuti, anche se possono essere duri. Negli ultimi anni ho cominciato ad apprezzare anche quelle fasi lì.

Ho letto che secondo te “Niente che non va” è il pezzo più bello che tu abbia mai scritto 
Perché secondo me è il mio pezzo meno ego-riferito, anche se parla molto di me. Da parte mia è stato intelligente esprimermi in forma non auto-referenziale, cosa che ho sempre fatto in tutti i miei pezzi, a parte quando c’era qualche story telling. Quando canto “nasci per sbaglio / nasci bersaglio / salti da un ponte / e non hai niente che non va”, è come se lo dicessi nell’orecchio di un amico. Mi sembra un pezzo più nobile degli altri, dove per una volta mi sono messo io a servizio dell’ascoltatore, mi sono identificato in lui. Sono contento di averlo fatto, anche perché siamo tutti degli egocentrici del cazzo, soprattutto se sei un artista e devi dimostrare al mondo che sei il più forte di tutti.

“Costole rotte” invece è una canzone dura.
Il ritornello era una di quelle cose che avevo registrato sul telefono tantissimo tempo fa. Poi sono andato a Trento, dopo che non riuscivo a scrivere da mesi. Proprio in quei giorni ci fu la notizia dell’assoluzione di tutti gli imputati del processo Cucchi, una roba che mi fece intristire per davvero. Parlandone con Ceri poi gli ho raccontato che in effetti avevo scritto una bozza di canzone sull’argomento molti mesi prima, gliel’ho canticchiata, poi abbiamo registrato il ritornello, e dopo poco avevo scritto anche il resto delle strofe.

Tratta di una vicenda molto grave e amara, eppure l’andamento della canzone è quasi quella di una filastrocca per bambini
Sì, sembra quasi la sigla dei Puffi, o Giro Giro Tondo, quella roba lì (ride). Prendendo le dovute distanze, ha un po’ la stessa struttura di “Girotondo” di De André, in cui cascava questa bomba mentre i bambini cantano allegri. Allo stesso modo il ritornello di “Costole rotte” dice cose pesanti, ma con una melodia leggera, che avevamo pensino di far cantare a dei bambini.

Ho letto che a metà della scrittura del disco hai avuto un grande blocco. In che tipo di situazione scrivi i pezzi?
Tre pezzi li ho scritti in macchina con memo vocale. Ma di solito io scrivo i dischi, li registro, li ascolto e poi ho un anno di buco in cui non so cosa fare. E continuo a scrivere, continuo a “spurgare”, ma mai roba al livello del disco appena uscito. Poi magari capita la settimana ispirata in cui mi escono 6-7 pezzi. Stavolta mi sono chiuso in casa con il mio produttore e sono usciti tutti i pezzi. Ceri me l’ha fatto incontrare il mio manager, che poi è anche il mio art-director, mi consiglia grafici, stylist, tutto.

A proposito di stylist, queste camicie dove le prendi?
(ride) Da Davide Turcati, che ha un negozio a Travagliato, Brescia. Con lui abbiamo iniziato a lavorare dopo "Ali Sporche”, e ha iniziato a fare bene il suo lavoro da “Hangover” in poi, perché prima indossavo cose che non mi rispecchiavano al 100%. Lì ho iniziato ad indossare camicie e giacche, cosa che ha fatto storcere il naso a qualcuno

Addirittura?
Be’ capirai, a tutti quelli del rap.

Si prendono troppo sul serio, "questi del rap"
È quello, si prendono troppo sul serio. Dovrebbero uscire un po’ di più, cercare di rimorchiare un po’ di ragazze. Magari ai miei concerti, che è pieno (ride).

 

 

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L'articolo Coez - Non c'è niente che non va nel pop di Nur Al Habash è apparso su Rockit.it il 2015-09-04 15:30:00

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