La morte del rock è la sua garanzia di immortalità

Prince, David Bowie, Lou Reed e tantissimi altri: oltre le commemorazioni su Facebook, quanto sono profonde le relazioni che instauriamo con i musicisti?

Prince da giovane
Prince da giovane

La morte correva sul fiume, un tempo: oggi lo fa sui social, diventando macabra protagonista di migliaia di post ogni volta che una celebrità ci lascia. Non c’è da decidere se sia giusto o sbagliato, è semplicemente inevitabile: su internet condividiamo qualunque cosa, soprattutto tanta musica - dunque perché limitarsi proprio quando l’autore di quelle canzoni improvvisamente non c’è più? Si arriva su YouTube per cercare il pezzo più rappresentativo, più amato, o più sconosciuto. Amen. Lo facciamo tutti, o quasi. 

E quest’anno, inutile scriverlo, le occasioni non sono mancate: il 2016 non è neppure al giro di boa e si è già portato via David Bowie, Primo Brown, Glenn Frey, Keith Emerson, Paul Kantner, Maurice White, Black, George Martin, Gianmaria Testa, Signe Toly Anderson, Jimmy Bain, Dan Hicks, Steve Young, Phife Dawg, Gato Barbieri, Dennis Davis e, come se non bastasse, pochi giorni fa si è aggiunto anche Prince.
Ne ho scordato qualcuno? Probabile, ma sono un numero sufficiente per affermare che tra gennaio e aprile si è commemorato parecchio, considerando anche il fatto che, accanto a tanti musicisti, ci hanno lasciato un gran numero di personaggi noti. E già il 2015 non era stato da meno: lo scorso anno se ne sono andati tra gli altri Pino Daniele, Demis Roussos, Maurizio Arcieri, Mike Porcaro, Percy Sledge, Ben E. King, B.B. King, Steve Strange, Carlo Ubaldo Rossi, Daevid Allen, Louis Johnson, Ornette Coleman, Dieter Moebius, Frank ‘Bøddel’ Watkins, Phil ‘Philthy Animal’ Taylor, Kim Fowley, Chris Squire, Giancarlo Golzi, Rodolfo Maltese, Giorgio D’Adamo, Allen Toussaint e, gran finale, Scott Weiland e Lemmy Kilmister.

Aldilà di riflessioni su connessioni cosmiche, coincidenze astrali o massima concentrazione di sfiga nell’ambiente musicale, sarebbe interessante capire da dove nasce l’esigenza di condividere con il mondo il dolore per la perdita di un musicista. Per molti "l’importante è partecipare": quando si è davanti a un lutto che diventa momento di commozione universale, per alcune persone è necessario commentare in qualsiasi modo, anche se non c'è una particolare vicinanza con il defunto, per il semplice motivo di voler partecipare ad un momento collettivo importante. Perché biasimarle? Chi lo fa di solito è un fan in prima linea, qualcuno che segue l’artista da sempre e per il quale la scomparsa di un artista (seppur così lontano) è un dolore reale. Non sa bene cosa scrivere o pubblicare, non vorrebbe confondersi con la massa di coloro che non sono "abbastanza fan", ma il più delle volte si lascia guidare dall’istinto. Totale empatia per loro. Dall'altra parte della barricata ci sono invece le persone nostalgiche, quelle che non sono legate particolarmente ad un artista ma sentono che con certe morti un’epoca è finita, i ricordi delle cassettine o dei poster in cameretta riaffiorano istantaneamente e spesso diventano oggetto di post ad alto contenuto emotivo e che cominciano con “Era il (anno a caso, basta che sia prima del 2000)”. Col passare del tempo, ci finiamo un po’ tutti. Infine ovviamente ci sono quelli che sparano battute sul morto, e quelli che invitano a piantarla.

Ma la domanda da farsi ogni volta che internet diventa un malinconico stelo di elogi funebri è: quanto sono profonde le relazioni che instauriamo con i musicisti? Quanto reali? In fondo ciò che ci serve è la musica che ci hanno lasciato, e quella resta. Anzi, spesso alla scomparsa di un musicista viene voglia di scoprire di più, di cercare cose che non conoscevamo, insomma la morte diventa quasi uno stimolo positivo. Eppure con certi artisti sviluppiamo un rapporto quasi possessivo, proviamo gelosia, siamo convinti che siano eterni e in fondo lo sono: nel quotidiano per noi non cambia molto, non li incontravamo per strada prima e non li incontreremo poi, potremmo anche convincerci che ci siano ancora e che abbiano deciso di non produrre più dischi, e nella vita reale avrebbe lo stesso effetto. Ma ovviamente non è così: quando muore un artista le cui canzoni hanno accompagnato parte della nostra vita, ci sentiamo come se quella parte venisse archiviata. Sentiamo gli anni che passano e ci convinciamo che non ci saranno sostituti all’altezza, non necessariamente perché non ci siano davvero, ma perché il rapporto che si instaura con certa musica negli anni dell'adolescenza e post adolescenza ha delle particolari caratteristiche che poi è impossibile ricreare.

C'è il rischio di diventare nostalgici, ma il piacere della scoperta che si ha a quell’età (e ancor di più quando non c’erano i mezzi attualmente a disposizione) è unico, irripetibile: un bagaglio emotivo scarno e guidato da ormoni impazziti si apre alla conquista di discografie intere che da quel momento rimangono lì, protagoniste insieme a noi dei momenti che ricorderemo poi con maggiore intensità. E come i ricordi, che continuano a vivere attraverso fotografie e racconti tra amici, così succede ai musicisti, solo che invece di farlo in tre lo facciamo in migliaia, in alcuni casi milioni. Vista così, sembra una cosa bella: la musica (e il rock) non muore, anche se spesso qui o là dicono il contrario. E allora salutiamo proprio con la musica un pezzo della nostra storia che diventa ufficialmente memoria collettiva, con la tristezza di un futuro che poggia su pilastri sempre più esili, ma con la consapevolezza che anche il futuro avrà sempre una meravigliosa colonna sonora.

 

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L'articolo La morte del rock è la sua garanzia di immortalità di margherita g. di fiore è apparso su Rockit.it il 2016-04-26 11:46:00

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