Suonare dal vivo: il festival come specchio della nostra cultura musicale

Perché un festival come il Primavera in Italia non ci sarà mai, e cosa significa suonare al Primo Maggio a Roma. E poi, i tour della Pausini e Jovanotti messi al confronto con quello di Miley Cyrus. Ecco la seconda parte della lunga chiacchierata fatta a fine marzo con Toni Soddu.

Perché un festival come il Primavera in Italia non ci sarà mai, e cosa significa suonare al Primo Maggio a Roma: ecco la seconda parte della lunga chiacchierata fatta a fine marzo con Toni Soddu.
Perché un festival come il Primavera in Italia non ci sarà mai, e cosa significa suonare al Primo Maggio a Roma: ecco la seconda parte della lunga chiacchierata fatta a fine marzo con Toni Soddu. - Il concerto del Primo Maggio a Roma
14/04/2014 - 12:04 Scritto da Sandro Giorello

Ci ha già elencato gli errori più frequenti di una band italiana su un palco. Oggi pubblichiamo la seconda parte di quella chiacchierata: l'attenzione si sposta sui festival, il confronto tra quelli italiani e quelli esteri, i problemi di sicurezza e di legislazione, e le nostre super star che non vanno mai oltre la Svizzera. Toni Soddu - il più importante stage manager italiano - ci dà il suo punto di vista sulla cultura musicale in Italia.

Nell'articolo precedente abbiamo ampiamente spiegato come una band straniera arrivi sul palco più preparata rispetto ad una italiana. Quali sono i casi, invece, dove reggiamo il paragone con l'estero?
In Italia ci sono produzioni ad altissimo livello. Ti posso dire che i Subsonica hanno una struttura tecnica di tutto rispetto, che potresti avvicinare tranquillamente a quella dei Depeche Mode. Più in generale, chi ha imparato il lavoro si è organizzato bene: si è costruito una propria squadra e un set up a prova di scemo, perfettamente calibrato sulle esigenze del gruppo. Se parliamo di band emergenti, invece, il paragone non sempre regge. C'è proprio un tipo di educazione diversa.

Che intendi?
Spesso ad Arezzo Wave ti capita di lavorare con band che vengono dall'estero ma che non hanno grossi contratti discografici. Non hanno nessun backliner di lusso o cos'altro: tutto è sulle spalle dei musicisti, magari si fanno accompagnare da un tour manager tutto fare che dà una mano a scaricare, prende gli accordi con gli organizzatori e poi cura anche il merchandise. I musicisti stessi, però, arrivano perfettamente consci di quello che devono portare e di quanto devono suonare. Lo dicono anche loro: "it's festival time, or not?" Cioè, è una maniera di suonare, sei condizionato da tempi brevi, dai cambi palco frenetici, da questa adrenalina  che ti sale quando ti trovi davanti a 5000-10000 persone anche se non sei tu l'headliner.
Per educazione intendo questo, e penso sia merito della scuola: gli inglesi e gli americani hanno imparato da piccini che quando si va a scuola si segue l'insegnante, e se tu non impari poi la scuola non la passi. C'è una metodologia, uno studio e, soprattutto, un rispetto verso chi sta lavorando per te. Da noi invece vigono sempre regole leggendarie, non c'è mai nessuno che si prende un manuale o si informa leggendo giornali specialistici. Di articoli che parlano di queste cose ne trovi almeno uno all'anno, soprattutto sui giornali dedicati agli strumenti. Da noi invece c'è la regola dell'amico: “un mio amico mi ha detto che si fa così”, chi sia poi questo amico non lo scopri mai. Ma succede anche ai livelli più alti, pensa Sanremo: io ho seguito parecchi esordienti, mi ricordo i Sonohra, mi dissero “ma no, noi andiamo lì, ci sarà già tutto” mentre Sanremo è una bestia nera. Se non ti porti i tuoi tecnici non ne esci vivo: ti posso citare i Negramaro bloccati perché le basi non arrivavano, gli Afterhours con la chitarra che non funzionava perché era collegata male, ecc ecc.

Le nostre produzioni possono competere con l'estero o anche il livello dei tecnici – stage manager, fonici, datori luci – non regge il confronto?
Noi abbiamo tecnici di altissima qualità, molti lavorano in produzioni internazionali. Quando una società inglese – che normalmente prenderebbe solo inglesi – trova uno come Davide Lombardi lo prende al volo. E' il classico ragazzo che dopo la maturità cerca lavoro, si impegna e finisce a lavorare con Bocelli, Foo Fighters, Oasis, ecc ecc. L’italiano che ha passione in questo mestiere ha una marcia in più, perché è quello che trova le soluzioni sempre e comunque. Gli inglesi, gli americani, sono “standard”: quando li vedi lavorare sembrano una pattuglia, lo stage manager è il sergente e ci sono i soldati che obbediscono agli ordini. Noi siamo più fantasiosi. In più c'è carenza di giovani, la fascia 25-40 è sempre più scoperta, se trovano un venticinquenne talentuoso, sta tranquillo che lo prendono subito.

(Eros Ramazzotti)

E il livello qualitativo dello show? Un concerto di Jovanotti o della Pausini può essere paragonato a quello di Miley Cyrus?
Alcune produzioni si. Sono al livello delle produzioni medie internazionali. Manca invece l'artista che affronti un tour mondiale da 80 show all’anno; anche da quello capisci quanto è importante una produzione: un conto è fare una data sola a New York, un conto è fare 80 concerti in tutto il mondo. I nostri numeri uno, Vasco Rossi e Ligabue, non vanno oltre il confine con la Svizzera.
C'è Ramazzotti, lui è un fenomeno che è andato nel mondo con una struttura ed una qualità più che adeguata. Con il tour di “Dove c'è musica” (l'album del 1996, NdR) aveva talmente successo che nei festival suonava dopo Rod Stewart e Phil Collins, voglio dire: il batterista dei Genesis apriva il concerto di Ramazzotti. E perché Ramazzotti continua a lavorare all’estero ancora oggi? Perché ha creato un pubblico suo, affezionato, che lo va a sentire e canta in italiano anche se non è italiano, non ha solo un pubblico di italiani all'estero. Se lavori bene te lo riconoscono: sei stato bravo, hai venduto biglietti, lo spettacolo è bello, allora ti richiamano l'anno dopo. I nomi che hai fatto tu... la Pausini ha avuto un periodo di esposizione simile quando ha vinto un Grammy latino, ma poi non ha saputo portare ai concerti anche le persone non italiane. Oggi fa il Madison Square Garden a New York però se guardi sul sito non trovi altre date americane. Cosa ti fa pensare? A me fa pensare che se l'è affittato a sue spese, così poi fa il video e in Italia passa il messaggio che ha una fama internazionale. Il Madison Square Garden è una struttura molto costosa, devi essere i Metallica per riempirlo e avere un guadagno, non basta portarci gli italo-americani. E comunque non bastano due sole date negli Stati Uniti per dire che stai facendo un tour internazionale.

Parlando della Pausini siamo obbligati a parlare dell'incidente di due anni fa dove, a causa del crollo del palco, è morto il tecnico Matteo Armellini. Poi è seguito quello dove ha perso la vita Francesco Pinna nel tour di Jovanotti. Come è cambiato il tuo lavoro dopo questi due incidenti?
È cambiato molto. È cambiato soprattutto per la presenza di ispettori del lavoro sul campo che prima non si erano mai visti. Se questi incidenti non sono successi prima è grazie a chi ci lavorava, non certo alle normative. Le normative sono lacunose, adesso si usano le stesse regole dei cantieri edili, che è la cosa più lontana da un palco che viene montato in tre giorni e smontato il giorno dopo. Noi senior per tanti anni abbiamo controllato l’operato dei promoter locali e della produzione con cui lavoravamo. Eravamo i primi a prevenire eventuali malfunzionamenti o capire se una tale struttura montata in una certa zona era sicura e se non era sicura ne parlavamo con il promoter.
Il punto è che il live, ormai, è l'unica vera entrata di un'artista, è il vero motore dell'economia musicale. Per cui per fare uno spettacolo da 70 euro a biglietto non puoi presentarti sul posto con quattro luci colorate. Vogliono lo spettacolone e più lo show è grosso più hai cose da controllare. Soprattutto il corretto montaggio di una struttura che porta 40 tonnellate, sono come due camion carichi sopra la tua testa. E se la produzione se ne frega, ci vuole qualcuno che dica: "allora il palco te lo monti da solo, vediamo se Jovanotti si fida a cantare lì sotto”. C'ero anche io con il tour della Pausini quando è morto Matteo, mi ricordo la telefonata di quel mattino dove mi dicevano di non partire perché era crollato tutto.

(Il palco di Laura Pausini, 5 Marzo 2012)

C'è stata chiarezza sulle responsabilità di questi due casi?
Nel caso della Pausini ci sono state delle indagini preliminari, tutte le società coinvolte hanno presentato le varie documentazioni, ci sarà il processo. Ci sono delle certificazioni di legge che sono obbligatorie. Cioè, per Jovanotti è stato sbagliato il montaggio, la struttura non è cascata perché era “rotta”.

Nel febbraio 2013 c'è stato un incontro ad Arezzo molto importante dove si è iniziato a parlare di questi temi. E' cambiato qualcosa oggi?
In questi mesi stiamo costituendo un nuovo progetto che andrà a sostituire l'albo dei professionisti. Raccoglierà tutti: noi senior, le cooperative che fanno spettacolo, le società che organizzano concerti, tutti insieme, in modo da creare un protocollo per lo spettacolo. È due anni che ci lavoriamo, si chiama “Tavolo della sicurezza”, ci incontriamo a nostre spese, a Bologna o a Roma, e siamo presenti alle riunioni del ministero per dire la nostra. Abbiamo un nostro ufficio stampa: ogni volta che si ignora qualcosa o si presentano delle leggi mal scritte il nostro ufficio invia un comunicato stampa. Si devono sapere queste cose, lo spettacolo viene considerato come “voi andate a giocare, vi divertite”, invece si parla del lavoro di 40.000 persone.

Vorrei parlare meglio del tuo lavoro di stage manager. Chi è il tuo cliente: il pubblico che vuole godersi il concerto, la band che si deve esibire, il direttore del festival che ti assume?
L’obiettivo di un festival è quello di fare esibire gli artisti, dal primo all'ultimo, nel miglior modo possibile. È quello per cui sono pagato in sostanza.

Il tuo lavoro si misura in minuti di ritardo?
Esatto, deve essere preciso al minuto, non posso permettermi che l'artista finale cominci in ritardo rispetto all'ora stabilita e non riesca a completare il suo set. Il mio lavoro è organizzare il set di tutte le band di un festival, dalla prima all'headliner.

C’è questa leggenda su di te: sei quello che ha “spento” i Metallica mentre suonavano.
Ho stoppato anche gruppi importanti, è vero. Sopra di me c'è un orologio molto grosso e visibile a tutti, e se io dico “last song” quella deve essere l'ultima, altrimenti spengo tutto. Ogni tanto si comportano male, in realtà non capita spesso. I Metallica sono stati il caso più eclatante. Poi Articolo 31, tagliati senza pietà prima di Lenny Kravitz, era uno dei momenti di loro maggiore successo e scoppiò un putiferio. Sebastian Bach, spento senza pietà, i Bush pure. Va detto che gli stranieri ci tengono ad essere i più bravi e gongolano quando finiscono il set cinque minuti prima. I nostri, ahimé, devi sempre marcarli stretti.

In 35 anni di carriera qual è stato il momento più problematico che hai dovuto gestire?
Sicuramente il Primo Maggio, è la cosa più pesante da affrontare. Per prima cosa è una diretta televisiva di 8 ore, e poi è un festival assurdo dove i gruppi suonano 12 minuti a testa. Tu hai 12 minuti di cambio palco perché, come immagino saprai, c'è questo palco girevole e, mentre una band si esibisce, nella parte posteriore del palco si prepara la band successiva. Finito lo spettacolo, il palco gira e la band dietro deve essere pronta per partire. Il tutto in 12 minuti, e lo fai per 8 ore di fila mentre sei in diretta e non puoi sgarrare perché alle 19 arriva il telegiornale. All’estero non esiste una cosa del genere, non c’è, esiste solo da noi.

(Nina Zilli)

Quindi quel primo maggio dove gli Afterhours non riuscirono a suonare era colpa tua?
(ride, NdA) No, può succedere che gli artisti non si rispettino tra di loro. Lo so riconoscere quando una band ti dice che è l'ultima e poi a tradimento fa ancora un pezzo. A quel punto chiamo il direttore e gli chiedo se vuole che spenga tutto o meno. Per gli After c'erano stati due problemi: prima un'orchestra di 100 violoncelli che aveva fatto ritardo di 10 minuti, e poi Nina Zilli che aveva allungato la scaletta di due pezzi. Il direttore mi aveva detto di lasciarli suonare, gli After sono slittati dopo la diretta e hanno deciso, poi, di non fare più il concerto.

Qual è l’incognita che ti spaventa di più normalmente?
La corrente che salta. È la cosa peggiore, magari sei ad un minuto per dare il GO, salta la corrente, le tastiere si azzerano e se ne va tutto a puttane.

Il meteo è una cosa più gestibile?
Sì, chi fa il direttore di produzione stampa il bollettini di meteo.it e li appende in tutto il festival. Tutto lo staff tecnico è preparato a coprire la strumentazione con dei teli appositi.

(Toni Soddu sul palco del primo maggio)

Io, forse sbagliando, dico sempre che in Italia ci sono pochissimi festival, al contrario ci sono tante manifestazioni che mettono in fila più gruppi nello stesso giorno. Un'esperienza tipo Primavera o Coachella - con tanti palchi che suonano in contemporanea e tante band diverse al giorno – qui non c'è, se non in casi isolati. Tu che ne pensi?
No, da noi quella roba non c'è. Ci sono dei festival che, come proposta, potrebbero essere all’altezza di quelli esteri ma che non hanno quella quantità e quella varietà di artisti.

E secondo te perché?
Da noi funziona il colpo grosso. Tu puoi aspettarti un festival con, ad esempio, Rage Against The Machine, Black Sabbath, Queens of the Stone Age e poi altri 10 nomi minori ma assolutamente importanti e che portano gente. Ma devi stare 10 ore davanti a quel palco per poter vedere l'headliner. Se vai, ad esempio, a Donington invece ci sono talmente tanti palchi e tanti artisti che non riusciresti a vederli tutti.
Penso sia una questione di cultura musicale, non c’è niente da fare. Ti dico, io questo mestiere l'ho scelto soprattutto per passione, è impossibile pensarla altrimenti, non lo fai per soldi. E l'ho scelto perché amavo la musica, andavo a vedere tutto, mi informavo, compravo i dischi e lo faccio ancora oggi. Se tu hai questo interesse vai a vedere tutti non solo Jovanotti o Fiorella Mannoia, oppure Paolo Conte, che sono di tutto rispetto, chiaro, ma vai a vedere anche A Toys Orchestra, i Calibro 35 o Caparezza, vai a vedere tutto. Ogni artista è diverso dall’altro e non te ne basta uno solo.

(Il Coachella Festival)

La situazione dei locali italiani come la vedi?
I locali italiani sono gestiti da persone che, in primo luogo, sono appassionati di musica e, dopo, degli imprenditori. Infatti la loro difficoltà è quella di coniugare delle loro scelte di gusto artistico e riuscire a guadagnare dei soldi. In più sono pochi: in una città come Dusseldorf ne trovi 8-10 e tutti che fanno musica diversa, in una città italiana delle stesse dimensioni ne trovi uno. La cultura in Italia è delegata esclusivamente agli appassionati e fortunatamente c’è perché questi tengono botta. La musica è sempre stata una cosa artigianale, non puoi organizzarla come un'industria, perché è talmente cangiante, ha culture alterne, ritmi diversi e imprevedibili. Richiede una grande flessibilità.

Pensa invece che spesso la si presenta come un qualcosa da preservare e che non deve cambiare mai. Dobbiamo chiudere, e lo faccio con la domanda più semplice: dopo 35 anni di carriera perché fai ancora questo lavoro?
È per la varietà, il mio lavoro non è mai uguale ogni volta ti pone dei problemi diversi e tu ti devi ingegnare per risolversi. Sono molto fortunato a poter vivere grazie ad una cosa che mi piace così tanto e che ho scelto di fare. Direi che è quella la motivazione principale.

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L'articolo Suonare dal vivo: il festival come specchio della nostra cultura musicale di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2014-04-14 12:04:00

COMMENTI (4)

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  • lozio.fruttoarancione 9 anni fa Rispondi

    Davvero un articolo bello e interessante!

  • ammoniarec 10 anni fa Rispondi

    Sono d'accordo su tutto, ma credo che Toni si sia confuso tra Ramazzotti e la Pausini. Forse è il contrario...

  • faustiko 10 anni fa Rispondi

    La professionalità e la passione. Applausi.

  • saggiofaggio 10 anni fa Rispondi

    Toni Soddu: compostezza e competenza.
    Roba rara.