Cinzia La Fauci: i Maisie, Snowdonia, la vita



Cinzia, eccoci. Direi di partire dal titolo del vostro ultimo album, “Bacharach for President, Bruno Maderna Superstar!”. Che cos’è: un omaggio, un manifesto o solo suonava bene?
Che Dio ci fulmini il giorno in cui faremo qualcosa solo perché suona bene! Ricordo un festival del cinema a Messina con Tonino De Bernardi presidente di giuria. Ad un certo punto il regista torinese chiese ad un giovane concorrente che presentava un corto: perché vuoi fare cinema? Lui rispose: per divertimento. Beh il buon Tonino andò su tutte le furie e non posso dire che avesse torto. Abbiamo citato Bacharach perché lo riteniamo semplicemente il più grande autore pop di tutti i tempi, una vera icona per il nostro mondo “ideale”. Bruno Maderna è un pioniere dell’elettronica, con quelli come lui nasceva quella riflessione sul distacco normale e (dis)umano tra arte e realtà, ma anche una lucida, impotente rappresentazione dei suoni del capitalismo reale. Maderna e Bacharach rappresentano per noi due poli opposti (?). Incudine e martello: sogno pop e deprimente senso di alienazione.

In questo album vi siete “riappropriati” interamente delle canzoni, al contrario del precedente “Music Is A Fish Defrosted With A Hair-dryer” nel quale vi eravate solo occupati della parte compositiva per lasciare a “veri musicisti” l’esecuzione finale. Come mai?
Perché, per nostra disgrazia, abbiamo varie personalità: una pletora di voci fastidiose e amichevoli, esaltanti e confuse si agitano nelle nostre teste. Per questo motivo a volte ci va di agire in un certo modo, a volte in altri modi. Possiamo suonare canzonette, comporre piccole operette (morali?) e lasciarle eseguire ad altri. Credo sia un po’ il problema dei nostri tempi: siamo troppe cose contemporaneamente.

Sintetizzatori, effetti, campionamenti, chitarre, trombe, bassi, pianoforte, marimba, tastiere, mandolino, cimbali, sax, voci femminili e maschili… insomma, una vera e “propria sarabanda da cabaret” (come ha scritto Osini nella sua recensione) in salsa squisitamente pop (aggiugo io). Come nascono i vostri pezzi?
Abbiamo da pochissimo stabilizzato il nostro metodo compositivo. Nei primi album non facevamo altro che registrare pezzetti casuali di musica e quando, uno sull’altro, somigliavano ad una canzone io ci cantavo su. Adesso, solitamente dopo cena, prendiamo la chitarra, qualcuna delle nostre poesie e le mettiamo in musica. Ecco come nasce una canzone pop: quando salendo le scale senti i vicini ridere e schernirti, storpiando il ritornello a mo di nenia infantile. E’ come se dicessero: ci avete rotto i coglioni, eppure non riusciamo a liberarci dal vostro ricatto melodico. Poi tutto viene da se: si chiudono gli occhi, si immaginano le trombe, le chitarre, i violini e si cerca di incidere il risultato di questo piccolo, innocente sogno.

Leggendo i testi sono rimasto stupito dall’efficacia con cui questi sono scritti: storie e/o momenti che oscillano fra l’assurdità (soprattutto) e la razionalità, raccontati con una dose di ironia così tagliente da divenire talvolta malcelata malinconia. Leggo ad esempio “Ambra and her fans” e prima mi metti a ridere, poi ci rifletto su. Ecco, da che cosa parte e come si sviluppa la scrittura di un testo?
Quasi sempre guardando la tv, che è l’unico, perverso modo di (non) sapere cosa ci succede intorno. Ambra è nata tanti anni fa, quando la giovane pornostar in questione rilasciava un’intervista a “La vita in diretta”. Sembrava felice con i suoi pantaloncini attillati e la generosa scollatura. Anche il suo ragazzo lodava la sua professione di pornostar. Il padre diceva: non c’è nulla di male, è solo un lavoro come un altro. Noi guardavamo increduli questo grande sogno familiare. Era come se ci stessero dicendo: stiamo realizzando per voi l’utopia hippie. Ma poi? Una volta spente le telecamere, che succede? Ma poi? Io devo pagarlo questo free love! Per vederti succhiare un uccello devo mettere mano alla carta di credito. Ecco, ci siamo detti: questa è l’essenza del pop.

Nel booklet del disco sono inserite anche le traduzioni dei testi. Quanta importanza hanno le parole nel pop?
Per noi le parole sono importantissime. Ci piace l’idea di lanciare messaggi. Immaginiamo sempre qualcuno che dice: voglio fare come loro, spacco tutto. E poi non fa nulla. Le canzoni sono “nulla”, un nulla magnifico.Vogliamo essere urticanti ma anche gentili e consolatori. Le parole possono cullare l’intelletto, come la musica. In fin dei conti non c’è molta differenza. Ma tutto deve essere coerente: non mi piacerebbe cantare d’amore su una base musicale dei Pantera, lo trovo stupido.

Sei incredibile, dico davvero. Qualche tempo fa, comunque, in un’intervista, hai dichiarato che "il post rock è l`ideale colonna sonora per le città-cimitero, quel deprimente cimitero che è il nostro pianeta", che “la stragrande maggioranza degli artisti preferisce celebrare la fine di tutto anziché pensare all’inizio di qualcosa”. Qual è la chiave giusta per dare un nuova, vitale linfa alla musica moderna?
Il punto è, che pur facendo molti sforzi, non vedo nessun possibile inizio. Quello che oggi è bello è finto e quello che è deprimente è spaventosamente vero. Mi piacerebbe davvero poter capovolgere l’assioma marxista: vorrei che la forma potesse creare la vita, una nuova vita. Credo nella costruzione (forse) di microcosmi di felicità personale: amare un cane, un parente, scambiare due parole con il bottegaio. So che è antipatico dirlo, in quest’epoca di isteria no-global, ma mi piacciono le cose “tradizionali”, mi sono sempre piaciute. Abbiamo distrutto la civiltà contadina ed ora sono cazzi nostri. E’ tempo del business delle emozioni perdute: il cibo di una volta lo fa la Findus, aprono una miriade di trattorie che hanno nomi come “la zuppa del nonno” o “le buone cose di una volta”. Personalmente non mi va di andare in piazza ad urlare banalità, semplicemente perché non ho il fisico di Lara Croft, non voglio fare parte di questo videogame fatto di buoni e cattivi, uno contro l’altro. Io ho ancora qualche amico, delle relazioni sociali piuttosto solide, ma vedo tutto intorno un “sense of speed” che non mi piace. Considerami una specie di Forrest Gump, me ne sto seduta mentre tutti quanti corrono verso il nulla. La musica bisognerebbe spegnerla per un po’ oppure scrivere di cose che si conoscono bene. Si può anche fare come i Maisie che scrivono di cose che non esistono, forse con la speranza di attirare su di loro i mali del mondo. Siamo dei missionari.

Qualche tempo fa sul nostro forum si tenne una accesa discussione riguardo le “etichette che aiutano la musica” - poi tagliata e cucita in formato ridotto anche sul magazine numero 18 di Rockit – che vide te e Mirko Spino accesi astanti. Riassumo per poi farti la domanda: un ragazzo aveva affermato che quelle etichette considerate “benefattrici dell’underground” producevano solo una cerchia ristretta di persone, una sorta di èlite. Tu, incazzata al punto di giurare sulla testa di Acty di smettere di postare sul forum, provocatoriamente chiedevi se questi stessi ignoti criticoni, poi, acquistassero i dischi di Wallace, Bar la Muerte, Fosbury, Snowdonia e così via. Arturo diceva insomma che queste etichette più che valorizzare l’underground italiano pensassero più a valorizzare i proprio amici e/o parenti.

La musica indie italiana, quella dei demo, è secondo te qualitativa? Mirko Spino dice di non aver mai ascoltato un demo inviato da un gruppo interessante a tal punto da volerlo produrre.
Io credo di essere di bocca buona rispetto a Mirko Spino. Lui è palesemente ossessionato dalla forma: gli piacciono le cose fatte bene, ben prodotte, ben suonate, gli piacciono quei dischi che sono belli per definizione, nascono belli, vivono belli, muoiono belli. Le cose più interessanti, ascoltate ultimamente, sono il prodotto di puro scazzo, di violenza auto-lesionista o di brutture generate dalla noia o dalla gioia senza riscontro. Posso affermare di ricevere almeno un demo a settimana che meriterebbe la produzione.

E del pubblico indie, invece, che ne pensi?
Non credo, purtroppo, di amare il pubblico indie. Ma non credo neppure di amare il pubblico pop, rock o di avanguardia. Non mi piacciono i punk, i bravi ragazzi, gli ossessionati dai cellulari o dai Pere Ubu. Temo di non amare più nessuno, compresa me stessa. Eppure, certi giorni, amo tutti e vorrei dare delle feste piene di persone che si parlano, che mangiano di gusto i miei antipasti. In generale la capacità decisionale degli esseri umani non esiste più. O meglio: non è mai esistita, però magari c’erano più cose che ti influenzavano, anche in contraddizione tra loro. C’era la famiglia, la vita, il cinema, la tv, le esperienze, gli incontri, la curiosità. Oggi c’è grande ansia di appartenenza, ci si sente soli e si vuol fare parte di una famiglia, fatta di suoni amichevoli (evita gli sconosciuti e le loro caramelle avvelenate, figliolo). Si odia il confronto, la dialettica. Siamo tutti schiavi dell’efficacia, bisogna fare le cose perché servono, perché si deve costruire qualcosa: delle famiglie finte, un’amore ovattato e crudele.

Più in generale, qualche tempo fa, chiesi a Daniele della Homesleep quale fosse la sua opinione riguardo l’indie italiano, se ci fossero stati miglioramenti, se la strada da percorrere fosse ancora lunga… ebbene, a suo avviso la strada da fare è ancora lunga, sebbene siano stati fatti molti passi avanti rispetto al passato. Daniele individuava il problema di fondo nella mancanza di soldi e nella nostra perpetua tendenza a voler combattere come tra poveri a causa delle invidie. Qual è la tua opinione a riguardo? Che cosa ci manca per diventare grandi?
Beh in generale direi che la faccenda non mi riguarda, voglio dire che non è una cosa interessante. Perché dovremmo essere grandi? E grandi rispetto a che cosa? In quale paese esiste una grande scena musicale? Non credo che la geografia o la geopolitica giochi un ruolo in questo caso. In Italia esce l’1% di dischi interessanti rispetto alla produzione annua. Facciamo finta che si producano 1.000.000 di dischi in Italia, ci siamo? A fine anno avremo 10.000 belle cose e il resto sarà da buttare nel cesso. Chiaramente dove si producono 100.000.000 di dischi avremo più scelta, ma le percentuali non cambiano. C’è una costante mondiale nella stupidità, nella cretineria di massa, nel culto della banalità e nell’appecoramento. Se vorrai contattarmi alla fine del 2003, saprò farti un dettagliato elenco da 1 a 10.000. Ti faccio un esempio: io sono in contatto con moltissime piccole, geniali etichette underground negli Stati Uniti. E’ un tesoro che resterà (giustamente?) sepolto, perché li, come qui, vince chi ha i soldi per costringere la gente a comprare il loro prodotto (valido o meno è un problema che non ci/li riguarda).

Allora ti contatterò a fine 2003!

In un certo senso, comunque, l’aggancio naturale di questo argomento è Snowdonia, la vostra etichetta. Direi di parlare anche di questa vostra invenzione, tua e di Alberto, un’attività che ormai prosegue da parecchi anni. Vuoi raccontarci come è nata? E’ nata perché il suo fondatore Marco Pustianaz aveva l’intenzione di chiuderla, per mancanza di tempo. A noi entusiasmava l’idea di buttarci in un’avventura così priva di senso e l’abbiamo fatto.

Quali sono le caratteristiche che vi spingono a produrre una band?
Ogni disco è storia a se. Produciamo i Maisie perché altrimenti il nostro ego ne morirebbe, i Le Pasque perché scrivono canzoni degne del miglior Sergio Endrigo, gli Orange perché sono tanto intellettuali quanto cazzoni, depressi ed auto-lesionisti, gli Aerodynamics perché ci ricordano quando da piccoli ascoltavamo gli Human League nel walkman e sognavamo l’apertura di un grosso ipermercato pieno di luci. Produciamo i Mutable per la loro dolcissima malinconia casalinga e perché hanno modi gentili e amichevoli, The Finger perché ci piace l’idea di un cowboy meridionale che sogna il suo ranch e lavora nel nord Italia…
Tutto quello che facciamo ha una ragione e amiamo le nostre band di amore fisico vero.

In che modo seguita una band cui producete un disco? Mi spiego, quali sono gli oneri che vi accollate (master, promozione…) e quali sono, se ci sono, invece, le spese che la band deve fare?
Se pensi che Snowdonia possa produrre 10 dischi all’anno, pagando interamente le spese, significa che mi ha preso per la figlia segreta di Wanda Osiris (rido: in realtà pensavo fossi la figlia segreta di Joachin Cortes, figlia incestuosa, s’intende!, NdR) . Tutto quello che possiamo fare è offrire al gruppo la metà della spesa di stampa (e direi che già è una grossa mazzata sui piedi). Mettiamola così: regaliamo i nostri soldi a dei bravi giovani, aiutandoli a restare nell’anonimato, ma con qualcosa da raccontare ai loro nipoti.

Quanto tempo, quante energie e quanti soldi consuma gestire un’etichetta?
Beh ti dico solo che ho 31 anni e l’altro giorno in autobus una signora all’ottavo mese di gravidanza mi ha offerto il posto. Fatti due conti.

E in quanto a soddisfazioni come la mettiamo?
Quelle sono grandissime. Scherzi a parte direi che Snowdonia ha salvato le nostre vite dalla noia.

Cosa pensi delle altre etichette e come sono i rapporti fra di voi?
Quelle della mia epoca (il susseguirsi delle epoche è diventato vorticoso, adesso per fare un secolo bastano 2 anni…il mio amico batterista Stefano Giust sostiene che è tutta colpa degli Ufo) hanno chiuso quasi tutte. Rimane la Wallace a produrre buoni dischi (anche troppo buoni). Con le altre non ho praticamente contatti. Qualche tempo fa mi ha scritto la Homesleep per uno scambio di CD. Una volta ricevuto il pacchetto mi affrettai ad esprimere il mio parere sulle loro produzioni. Mi risposero dopo 2 mesi, dicendo di non avere avuto il tempo di sentire i miei. Io dissi: devo produrre il nuovo Maisie, vi interessa ascoltarlo? A questo punto si interrompe ogni contatto, forse ci stanno ancora pensando.

Poi che altro? Ah si, si…una volta si usava tra etichette e musicisti scambiare i dischi (almeno così ricordavo) per cui ho scritto ai Baustelle e proposi uno scambio: il loro disco per una copia dei Maisie. Loro mi risposero qualcosa come: non ci interessa, se vuoi il cd te lo compri! Beh è anche vero che avevo detto: se non volete scambiarlo me lo compro. Ma quanta brutalità! Pensavo che facessero pop, ma si comportano da punk post-moderni: maleducazione che va a braccetto con un senso del business da fare invidia a Cesarone Previti.

Molti dei vostri gruppi suonano una musica che ha come aggettivo fra gli altri “internazionale”. Non avete mai pensato/provato di lanciare i vostri dischi anche in Europa?
Temo di non avere alcun senso degli affari ma a volte ho degli slanci di imperialismo economico. Ricordo che lo scorso anno scrissi a circa 200 distributori in tutta Europa, proponendo un sampler. Mi ha risposto solo un tizio dall’Olanda che mi ha detto: senti, i tuoi gruppi non ci interessano, però avremmo 8 band olandesi da proporti per eventuali concerti in Italia. Oddio, temo che il mondo degli affari mi rifiuti a priori.

Ora, invece, ti chiederei come avevo già fatto a suo tempo con Daniele Homesleep, una carrellata di risposte veloci a domande brevissime, a cominciare dall’indicarmi tre etichette straniere…
Premetto che le etichette che amo di più sono ormai defunte o hanno del tutto cambiato stile. Dovendo parlare di oggi le prime che mi vengono in mente sono: Jagjaguwar, God Mountain e Tomlab.

…tre etichette italiane…
Snowdonia, Snowdonia, Snowdonia.

…tre artisti stranieri che vorresti assolutamente nel vostro roster…
Tav Falco, Harvey Sid Fisher e Bob Log III.

…tre dischi del vostro catalogo che assolutamente consigli…
Come posso consigliare un disco ed escluderne un altro? Se li pubblico è perché li amo, ma farò uno strappo alla regola: Maisie, perché ci canto io e perché i giornalisti dicono che siamo bravi. I Le Masque (in uscita a settembre) perché sono nel giro dai primi anni 80 e hanno fatto dei dischi assolutamente impedibili e preziosi. Orange perché l’incoscienza è qualcosa che dovrebbe far parte della vita di tutti noi, meglio se in dosi massicce.

Benissimo, credo di aver chiesto tutto quanto desideravo chiedervi. Prima di salutarci, però, vorrei che ci comunicassi quali progetti e quale idee avete in serbo per il futuro…
Noi siamo prevedibili come il TG1. Ci vedrete in giro ancora per tanti, tanti, tanti anni. Il nostro scopo sarà sempre lo stesso: proporre al pubblico (esistente o meno) dischi interessanti da ascoltare. Non sappiamo e non vogliamo fare nient’altro.



Avevo voglia di fare un’intervista a Cinzia La Fauci perché tutte le volte che avevo letto sue cose ne ero sempre rimasto in una qualche maniera interessato. Volevo parlare con lei prima dei Maisie, ma poi, soprattutto, di Snowdonia. Lei è di Messina, allora le ho chiesto se aveva voglia di fare un’intervista a Rockit via mail e lei ha risposto di si. Ho preparato le domande e gliele ho mandate. Lei mi ha spedito le sue risposte. Le sue risposte credo siano qualcosa di assolutamente interessante. Forse anche di più. Effetto straniamento, molto spesso. Qualcosa su cui riflettere, insomma, per poi magari anche non condividere. Spero divoriate anche voi queste parole come ho fatto io. Poi spero compriate i dischi Snowdonia. “Le canzoni sono un nulla, un nulla magnifico”.

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L'articolo Cinzia La Fauci: i Maisie, Snowdonia, la vita di Carlo Pastore è apparso su Rockit.it il 2003-07-16 00:00:00

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