Colapesce - Torneremo felici

Colapesce ci racconta in anteprima come sarà il suo nuovo disco, "Infedele"

Foto di Elena Fortunati
Foto di Elena Fortunati

Per la copertina ha scelto la foto della prima comunione, accompagnata però da un titolo che va in tutt'altra direzione: "Infedele". Il terzo album di Colapesce è così, vive di estremi e fa coesistere gli spunti più pop e quelli più ostici della discografia del cantautore siciliano. Un disco breve, ma pieno di spunti e riferimenti, fatto di mare e di città, di collaborazioni e momenti di estrema solitudine. Tutte cose che meritavano di essere raccontate, per prepararsi al meglio all'ascolto di "Infedele", in uscita il 27 ottobre per 42 Records/Believe. 

 

Prima di iniziare, facciamo un passo indietro: quando è stato l’ultimo concerto del vecchio tour, quello legato al disco “Egomostro”?
L’ultimo concerto con la band è stato a Napoli due anni fa, settembre 2015, in una specie di festival con Marta sui Tubi e Levante. Poi ho fatto il tour con Alessandro Baronciani, ma era un’altra cosa, slegata da “Egomostro”.

Ecco, due anni non sono pochi, ma per come è cambiato l’ambiente musicale, sembra ne siano passati venti. Stai per tornare in un contesto molto diverso.
Completamente diverso, anche perché il disco precedente è di tre anni fa e tre anni fa era un mondo diverso: Spotify c’era ma lo usavano in sette, quel disco è uscito a cavallo di un cambiamento. Il supporto era già morto, ma il digitale non era ancora codificato come adesso. Sembra l’altro ieri, ma sono cambiate tantissime cose. Pazzesco.

Poi questo big bang dell’ultimo anno: è una cosa che hai avuto presente mentre scrivevi? Tu come tutti i tuoi colleghi che stanno tornando in questo momento non potete non sentire della pressione
È vero, tre anni fa era ancora molto netta la differenza rispetto a un altro tipo di musica. Le radio non passavano le canzoni, per quanto mi riguarda mi ha passato solo la RAI, mentre le mainstream non passavano musica indipendente. Durante il tour con Baronciani ho notato che il pubblico aumentava, in alcuni posti abbiamo fatto il doppio della gente rispetto al concerto con la band. Poi mi sono fermato ed è esploso questo fenomeno, anche se ancora è presto per tirare bilanci.

Lo sfondamento di quel soffitto di vetro è quello che tutti noi abbiamo sempre auspicato, però adesso che è successo fa comunque impressione per proporzioni e tempistiche.
La mia unica paura è che adesso - e ho il sentore che alcune band stiano seguendo questa scia - si tenda a normalizzarsi alle radio, senza mantenere la propria identità. Questo è il mio unico terrore da fruitore e da musicista, perché in alcuni casi sto vedendo che si fanno i pezzi per andare in radio e questa cosa può essere pericolosa.

“Infedele” non rientra in questa tendenza, visto che a mio avviso contiene le tue cose più pop di sempre, ma anche quelle più ostiche.
Sì, contiene i due estremi di come vedo io la canzone d’autore: gli artisti che ascolto fanno questo tipo di operazione. “Infedele” è più immediato, ma anche più denso in alcuni punti, perché ho estremizzato alcune cose, soprattutto in fase di registrazione e ricerca testuale e musicale. Il disco l’ho prodotto insieme a Jacopo Incani (Iosonouncane) e Mario Conte, che è il produttore con cui avevo lavorato anche su "Egomostro". È stata proprio una produzione a tre: io avevo i pezzi, li abbiamo ascoltati con Jacopo e abbiamo lavorato sui provini. Abbiamo fatto una lunga pre-produzione e poi abbiamo registrato a Milano la parte elettronica e all’Alpha Dept di Bologna il resto, ovvero batteria, chitarre e bassi.

Com’è stato lavorare con Jacopo?
C’è stata subito una buona sintonia: Jacopo è sardo, io siciliano, Mario Conte napoletano, quindi eravamo tutti e tre gente di mare, abbiamo registrato tra mangiate di pesce e chiacchiere. Sardegna, Sicilia, Napoli: il triangolo della morte (ride, ndr). In realtà mi sono trovato benissimo, io e Jacopo abbiamo un background simile a livello di ascolti e di modo di lavorare.

Intorno a Iosonouncane ci sono ormai vere e proprie leggende sui tempi di lavoro e sui suoi metodi: puoi confermare?
È super perfezionista, come lo sono anche io. Sono partito con il focus del disco chiaro, i pezzi li avevo e ne parlavamo più o meno da un anno, quindi anche per lui probabilmente è stato più semplice concentrarsi sulla produzione. È stato molto interessante anche lo scambio culturale tra un sardo e un siciliano. Noi siciliani siamo più eterei, voliamo da una parte all’altra, abbiamo meno i piedi per terra. Lui da sardo è un testa dura, un pragmatico che bilanciava il mio aspetto più trasognante: quando avevo dei dubbi, lui non ne aveva. È una persona decisa e sicura e mi aiutava a capire quale fosse la cosa giusta da fare. Magari ci sarei arrivato da solo, ma ci avrei messo molto più tempo.



Il disco è di otto tracce e sfrutterei proprio la scaletta per una panoramica su “Infedele”. Si parte con “Pantalica”, che è il pezzo in cui direi che si sente maggiormente la presenza di Iosonouncane.
E in realtà era il pezzo già prodotto (ride, ndr), anche se con lui abbiamo sviluppato tutta la seconda parte del brano, quella più free, in cui c’è anche un assolo di sax di Gaetano Santoro. Però sì, è anche il pezzo più alla Iosonouncane. C’è forse anche il pregiudizio su Jacopo come uno da ascolti ostici, da gusti difficili, ma in realtà è anche un grande conoscitore di musica pop: magari non è proprio il fan numero uno di Guè Pequeno, ma è molto aggiornato sulle uscite.

È un pezzo pienissimo di simbologia e di immagini molto potenti.
Pantalica è un posto molto importante per me: si trova vicino a Solarino, dove sono nato e per questo lo frequento da quando ho sei anni. È una necropoli sicana, con questo canyon gigante al centro del quale scorre il fiume Anapo: camminando tu hai alle pareti la necropoli e sei circondato dalla vegetazione. Lì ci sono le prime forme di insediamento umano in Sicilia. La genesi di questo pezzo è stata strana: ho scritto prima il beat, la ritmica, che è una cosa che non faccio quasi mai. Il testo poi l’ho scritto di getto ed è rimasto così. In realtà è uscito con immagini talmente precise che sì, ci ho messo cinque minuti a scriverlo, ma in realtà era da vent’anni che immagazzinavo quella quantità di informazioni, che ho assorbito in tantissimo tempo. Ogni immagine era perfettamente chiara e se visiti il luogo le riconosci dalla canzone. È un luogo potentissimo, pieno di energie e pieno di leggende, di cui si parla anche nel libro “Le pietre di Pantalica” di Vincenzo Consolo. All’inizio il pezzo doveva chiamarsi proprio così, ma poi la pigrizia da borderò me l’ha fatto accorciare (ride, ndr).

Questi posti sono talmente grandi e potenti che di solito ti fanno sentire minuscolo: Pantalica ha ucciso l’egomostro?
Assolutamente, è un posto che ti purifica. Entri in questi cunicoli scavati nella roccia dove passa l’acqua e hai una sensazione di scrub, come si dice a Milano. Esci proprio con la pelle nuova.

“Pantalica” è il pezzo più ostico del disco, poi arriva “Ti attraverso”: quando l’ho sentito per la prima volta ho pensato che fosse la prima canzone veramente pop di Colapesce.
Anche “Ti attraverso” ha una genesi stranissima. La parte di piano della strofa l’ho scritto cinque anni fa: ce l’avevo lì che mi girava, mi girava, mi girava, ma non riuscivo a svilupparla. Nel frattempo ho fatto “Egomostro” e continuava a girarmi, ma non trovavo mai la quadra. Dopo tre anni, usando una vecchia chitarra che ho comprato a 80 euro in un mercatino, mi è uscito il giro del ritornello e ho scritto il testo. Poi per un altro anno non riuscivo a chiudere le strofe, avevo dei dubbi perché a livello melodico la prima e la seconda strofa sono molto diverse e mi sembrava un problema. Alla fine ho capito che era la cosa giusta da fare: due mondi differenti che confluivano in questo ritornello.

"Colapesce: per scrivere Pantalica, la prima canzone di Infedele, ho impiegato cinque minuti, ma l'ho avuta dentro per vent'anni"


Mi sembra di capire che il tuo approccio al lavoro sia abbastanza estemporaneo, non sei di quelli che si siede a tavolino e si dedica a un pezzo alla volta.
In realtà, faccio anche quello. Sui miei pezzi non ho una regola, quando lavoro come autore invece me lo impongo, anche perché ci sono canoni più ferrei da seguire. Quando scrivo le mie cose sono più paranoico e arrivo davvero a scrivere in cinque minuti un pezzo come “Pantalica” solo perché l’ho avuto dentro per vent’anni. Però finché non mi convince al 100% non riesco a dire che è chiuso.

Ci sono cose che non ti hanno convinto e hai lasciato fuori da “Infedele”?
Tantissime, i pezzi erano venti. In realtà ci sono canzoni rimaste fuori che mi piacciono moltissimo, ma una canzone non scade, quindi la posso sempre riprendere. Però mi sembravano di troppo per questo lavoro, che trovavo compiuto così. C’è un equilibrio, un viaggio all’interno della canzone: ognuna ha un suo mondo e quasi una sua epoca. C’è un fil rouge del disco che è proprio la canzone, declinata in varie forme.

Terzo pezzo: “Totale”.
Anche questo pezzo ha avuto una genesi atipica rispetto alle mie canzoni: l’ho firmato con Antonio Dimartino e l’abbiamo scritto in una sessione di co-scrittura a un camp di Sony/ATV. Quindi inizialmente non l’avevo scritto per me, poi però mi sono innamorato del brano e non riuscivo a staccarmene: era stato praticamente preso da Luca Carboni come singolo per il suo disco, ma non ce l’ho fatta, perché comunque resto prima un cantautore e poi un autore, anche se ovviamente mi sarebbe convenuto cederla. Questo pezzo però aveva un’energia tale che ho deciso di tenerlo: non potevo rinunciare a urlare da un palco “ho un disco nuovo da potere cantare”. Il provino di “Totale” l’ho prodotto con Luca Serpenti, poi con Jacopo abbiamo aggiunto alla fine tutta la parte di cori in stile Beach Boys.

La botta che ti arriva nel pezzo è quel “Torneremo felici” prima del ritornello. Cos’è per te? Una domanda, una certezza, una speranza?
Non è sicuramente una certezza e neanche una domanda, è più una speranza. Credo sia la canzone più pop che abbia mai fatto, ma il testo in realtà non è così immediato. A proposito di testo, in origine avrei dovuto cantare “Siamo nati tutti da una fica”, che era ancora più potente come immagine.

E che infatti è rimasta nel video.
Sì, nel passaggio in cui sono nel labirinto di Arianna, che ha un ingresso a forma di fica. Nel testo invece l’avevo censurato perché il pezzo sarebbe dovuto andare a Carboni. Poi me lo sono tenuto, ma nel frattempo mi sono convinto che stesse meglio così, anche per evitare problemi con le radio. Poi al limite farò un “director’s cut” più in là.

video frame placeholder



Passiamo a "Vasco da Gama" e "Decadenza e Panna", che per me sono i due pezzi Sufjan Stevens dell’album.
“Vasco da Gama” è il mio pezzo preferito dell’album. Questo pezzo ha un’atmosfera sua, magica, che è venuta così anche a culo: spesso l’artista millanta chissà quale ispirazione, ma a volte è coincidenza di energie e situazioni esterne. È un pezzo che parla di mare e Vasco da Gama, che è uno dei miei eroi, anche se qui non faccio riferimenti precisi a lui, se non quando canto “San Gabriele pancia di legno” riferendomi alla sua barca che si chiamava così. A parte questo, ha tanti riferimenti marittimi a cominciare da “Circumnavigo”, che è la prima parola con cui inizia, ma in realtà l’ho scritta a Milano. Probabilmente parlo meglio del mare quando sono lontano dal luogo in cui sono nato. Ero a Milano malatissimo, a letto, con la febbre alta e mi ero messo lì a lavorare dal letto: avevo questo giro circolare d’arpa in testa, è stata una sorta di terapia che non mi ha guarito, perché ho dovuto prendere l’Actigrip, ma di sicuro mi ha aiutato. Io quando sono triste o mi trovo in un luogo che non mi piace, penso a dove sono nato, ad alcuni posti in particolare, come a Pantalica e Ognina, che sono le mie ancore di salvezza. Avevo la strofa e il ritornello e poi una lunga parte strumentale dove avrei voluto mettere un’altra strofa: quando l’ha sentita, però, Jacopo ha detto che non avrei dovuto mettere nulla, che era perfetta così e abbiamo aggiunto solo questa sorta di assolo di chitarra classica, nato in un momento in cui stavo ascoltando molto fado. Ero in quel trip, poi Vasco da Gama: tornava tutto.

È il vero pezzo di mare prodotto dai tre uomini di mare?
Il mare ritorna anche in una serie di voci di pescatori che ho preso da un documentario di Vittorio De Seta che ho musicato live e che ho messo come tappeto sonoro. Quindi se ascolti in cuffia senti questi pescatori siciliani che parlano. Tutte queste componenti portano a un equilibrio secondo me perfetto, che è arrivato solo grazie alla collaborazione con altre persone. Oggi si tende a fare i dischi da soli o con un solo producer, che magari capisce subito il tuo suono e riesce a spararlo dritto in faccia, ma alla fine il risultato è qualcosa di bidimensionale. Hai la base sotto, la voce sopra, tutto funziona alla perfezione, è tutto in ordine però questa cosa la soffrivo e non riuscivo a capire cosa cazzo fosse a darmi fastidio. Poi ho capito che nei dischi che preferisco c’è una sorta di tridimensionalità e riesci a darla solo mettendo insieme più suggestioni e più teste. Spesso oggi i cantautori lavorano sul brano da soli e quasi lo finiscono, l’idea di affidarmi di più mi ha aperto nuove soluzioni e la spazialità del brano si è aperta. Sono forse pippe un po’ da produttore, ma sono convinto che sia una cosa necessaria che prima o poi arriva.

"Colapesce: volevo che Infedele fosse un disco tridimensionale, con una spazialità più aperta"


A livello teorico può anche essere una pippa, ma se poi porta a un preciso tipo di chitarra o a delle voci di pescatori ha anche delle ricadute molto concrete.
Inizialmente può essere ostico come approccio, perché rende un brano più complesso. Ma una volta che riesci a entrarci dentro, la percepisci meno come usa e getta.

“Decadenza e panna” è il pezzo più semplice del disco, secondo me molto legata alla precedente. Sono entrambe canzoni d’amore, ma “Vasco da Gama” è più sensuale, legata al sesso, mentre la seconda mi è sembrata più dedicata a tutto quello che accade nella vita di una coppia, al rapporto quotidiano.
È l’ultimo pezzo che ho scritto per il disco ed è legato a una situazione autobiografica particolare, di cui però preferisco non entrare nel merito. Inizialmente era strumentale e molto più ricca, poi Jacopo mi ha consigliato di tenerlo solo chitarra e voce. Ha un andamento un po’ beatlesiano, da George Harrison. L’immagine “Decadenza e panna” può sembrare strana, ma alla fine tutto torna.



Uno dei temi portanti del disco è la sacralità: c’è in “Pantalica”, ritorna in “Vasco da Gama” e ovviamente anche in “Maometto a Milano”.
Sì, non è un caso che alla fine il disco si sia chiamato “Infedele” e che non abbia voluto dare spiegazioni sul titolo, così ognuno lo può leggere come vuole. Anche “Maometto” l’ho scritta a Milano e sin da subito avevo chiaro che strofa e ritornello sarebbero dovuti essere due mondi diversi, in grado di spostarti. Per le strofe mi sono lasciato ispirare da Bruno Lauzi e da “Onda su onda”, che per me è una delle canzoni italiane più belle di sempre. C’è quindi questo immaginario esotico, che viene poi spazzato via da un ritornello che ti riporta a Milano: mi piaceva l’idea di unire questi mondi. Sul ritornello volutamente non ti do spiegazioni, perché è giusto che ognuno si faccia la sua interpretazione: può sembrare giudicante, ma non lo è.

Ritornello che dice “Maometto forse è nato a milano / aperitivo più negroni sbagliato / il qualunquismo che poi genera soldi / siete tutti felici siete tutti risolti”. Ti spaventa il qualunquismo?
Il qualunquismo mi terrorizza. In questi anni è all’apice e addirittura sembra quasi normalizzato: c’è soprattutto sui social, ma anche in politica. Inizialmente nel ritornello invece di “siete tutti risolti” volevo mettere “siete tutti coinvolti”, che richiamava De André, ma alla fine ho deciso che forse lì sarei caduto nel giudicare. Lo diceva lo stesso De André, il suo terrore era risultare maestrino e mettersi a giudicare gli altri. Lui in questo è stato maestro, al punto da ammettere negli anni di fare fatica a riconoscersi in “Tutti morimmo a stento” e “Storia di un impiegato”, che riteneva troppo giudicanti. “Coinvolti” è rimasto lì fino all’ultimo, ma poi ho preferito “Risolti”... così questa cosa posso usarla come aneddoto nelle interviste.

“Compleanno” è il pezzo più prodotto, ma con il testo più corto: di nuovo si torna all’estremizzazione di poli differenti. Mi ha ricordato in qualche modo l’ultimo album degli Amor Fou, non so se ti ci ritrovi.
Mi piacevano un sacco, sono anche molto amico di Alessandro Raina, ma a dire il vero non li sento molto in questo pezzo. Sono partito da questo giro di fanfara funebre che c’è all’inizio: volevo farlo con una vera fanfara, ma per questioni di budget e tempo non sono riuscito a farlo. Avevo solo quel giro e un ritornello, ho provato varie strofe ma non mi convincevano, poi è nata questa parte samba subito dopo l’intro che mi piaceva. Lo immaginavo come un pezzo quasi da club, infatti entra questa cassa quasi deep house nella parte centrale, prima di tornare all’origine. È un pezzo volutamente a specchio. Inizialmente sarebbe dovuta essere la prima anteprima del disco, avrebbe dato un impatto molto diverso, ma alla fine ho preferito “Ti attraverso”.

Il disco si chiude con “Sospesi”, che è uno dei pezzi più belli a mio avviso. Il mio viaggio mentale mi ha fatto pensare a Luigi Tenco che canta nei Timber Timbre.
I riferimenti sono proprio quelli e il provino era ancora più Timber Timbre, con chitarre molto scure e slapback sulla voce, però poi l’ho italianizzato di più, perché volevo che uscisse più un aspetto Ciampi e meno americano. Infatti alla fine la voce è molto avanti rispetto al mix, seguendo un canone che è anche cliché, ma in questo caso diventa narrazione, quindi funzionale alla canzone. “Sospesi” l’ho scritta a Catania al piano e ha un’atmosfera un po’ più jazz, forse è per quello che ricorda Tenco.

Me l’ha ricordato anche per un certo atteggiamento nel testo: “nel lasso di tempo in cui non lavoro / mi dedico a te” mi ha rimandato al classicissimo “mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare”. Una sorta di cinismo mascherato.
Poi tra l’altro il finale dice in modo ossessivo una cosa che sembra dolcissima, ma non lo è: “Lo faccio per te / soltanto per me”, che ti crea un attimo di sospensione. È la magia delle parole, che con due cose riesci a creare dei mondi.

È un pezzo un po’ particolare per finire, perché resta la sensazione che qualcosa debba ancora succedere. Del resto si chiama “Sospesi” non a caso…
Sarebbe dovuta essere la penultima traccia e “Compleanno” l’ultima, ma come narrazione mi piaceva questo senso di sospensione che magari ti spinge ad ascoltare il disco da capo.



Quindi otto tracce, perché c’è tutto quello che doveva essere, però è un grosso cambiamento per te, gli altri dischi erano più lunghi.
Sì, infatti all’inizio avendo molti pezzi pensavo anche a un doppio, ma poi mi sono autocensurato.

Anche perché per fare un doppio con Iosonouncane ci avresti messo otto anni…
Sì, esatto, sarebbe stato più facile costruire un nuraghe (ride, ndr). Comunque volevo mettermi alla prova con un disco più corto, anche se alla fine dura più di mezz’ora. Volevo evitare uno dei difetti di “Egomostro”, anche se poi per me non era un difetto, ma con questi tempi di fruizione e di attenzione... Uno dei difetti di “Egomostro”, dicevo, è la durata: ha tante canzoni, ha testi molto densi. Volevo evitare lo stesso errore e poi già mi suonava bene così. C’è in realtà un nono brano, che faremo uscire più avanti, un po’ come hanno fatto gli LCD Soundsystem con l’ultimo album. Ci stava benissimo, ma in realtà ci stava fin troppo bene, quindi ho deciso di toglierlo. È un brano strumentale che parte da un canto mozarabico pre-gregoriano, eseguito da un coro francese e che ho registrato con il telefono in una chiesa. In quel momento lavoravo a un brano di matrice molto classica, che si rifaceva quasi a Bach, per fare una canzone neoclassica, ma con la marimba. Riascoltando il canto che avevo registrato mi sono reso conto che era allineato per bpm e tonalità con il pezzo che stavo scrivendo: una botta di culo incredibile, perché era perfetto. È un brano che sicuramente faremo live, ma non volevo sovraccaricare il disco con troppi elementi e quindi ho deciso di toglierlo.

Dopo aver parlato del disco, torniamo all’inizio dell’intervista, ovvero al tour, che non parte subito dopo l’uscita.
Il tour parte da gennaio a Milano a Santeria Social Club, poi in quasi tutte le altre città lo faremo a teatro. Non so perché su Milano non abbiamo scelto un teatro, forse per avere un inizio più energico. Ho in testa un bello spettacolo, spero venga bene. Avremo un organico allargato, perché saremo in cinque sul palco, ma gireremo in nove. Ci sarà uno spettacolo con luci e interventi scenici che non voglio spoilerare. Farò ovviamente tutto il disco e poi repertorio vecchio.

Cosa ti aspetti come risposta da parte del pubblico, anche in seguito a questa esplosione numerica di cui parlavamo all’inizio?
Mi aspetto di ritrovare quello che ho lasciato, non ho aspettative in più al momento, ma avere la mia fanbase che mi segue da tempo e riconfermarla anche a questo giro per me sarebbe un grande successo, anche perché non so se il disco ha le caratteristiche per essere recepito. “Egomostro” era in anticipo: tre anni fa mi dicevano che era troppo pop, anche la mia etichetta lo diceva. Poi solo sette mesi dopo era già tutto diverso. In qualche modo mi piace pensare che abbia aperto questo canale, magari sottotraccia, ma in quel periodo è stato il primo. E poi... beh poi c’è stato questo grande passaggio dall’indie al pop.

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L'articolo Colapesce - Torneremo felici di Marco Villa è apparso su Rockit.it il 2017-10-22 15:36:00

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