Vita di Boncompagni, secondo Boncompagni

Un'intervista inedita a Gianni Boncompagni che racconta come dagli anni '60 ad oggi sia stato una figura fondamentale e in un certo senso rivoluzionaria per la storia del costume italiano

Gianni Boncompagni
Gianni Boncompagni - via radionorba.it

Era marzo o aprile del 2005. Con Carlo Antonelli stavamo lavorando alla riedizione “totalmente riveduta e corretta” del nostro tomo sulla storia dell’Italia e della musica da ballo, “Discoinferno”. La ragione per cui volevamo a ogni costo inserire un’intervista con Gianni Boncompagni è molto semplice: in tutto ciò che ha fatto – alla radio, alla tv, nelle piazze italiane, nei club (fu il primo dj del leggendario Piper di Roma) – Boncompagni è stato un vero motore della sprovincializzazione del gusto musicale medio nel nostro paese.
Lo è stato senza essere né didascalico né hipster (tutto il contrario casomai), ma guidato da un portentoso intuito “pop” che da un lato sicuramente s’abbeverava alle origini provinciali, non contadine ma quasi, dall’altro fruiva della sua naturale predisposizione internazionale, molto evidente nell’intervista a seguire, e da un altro ancora usava – forse, in qualche forma, magari solo per ridere – certe teorie allora nuovissime sui “persuasori occulti” (quella mania per i tormentoni, per la ripetizione che diventa successo). Boncompagni ci aveva già dato buca un paio di volte all’ultimo minuto, non perché se la tirasse, ma semplicemente per la proverbiale pigrizia: “No dai, ragazzi, non mi va. Piuttosto vi invito a cena, ma l’intervista no”. Alla fine (con la deadline all’orizzonte) risolvemmo di farla per telefono. Lui fu gentilissimo, ma al tempo stesso distratto, a momenti addirittura laconico. Rimase al telefono con noi per quasi due ore, ma su certe cose a cui tenevamo moltissimo (la costruzione dell’icona Raffaella Carrà negli anni ’70, per dire) fu vago ai limiti dell’amnesia. Un po’ perché probabilmente non gliene fregava un cazzo, un po’ perché forse era davvero il tipo di persona per cui rievocare il passato è fondamentalmente una noia. Questa è la versione integrale (tranne i momenti più laconici) dell’intervista uscita su “Discoinferno”. E comunque, a parte i tormentoni, lui ha scritto anche “Ragazzo triste come me / a-ah”.


L’epoca in cui nacque “Bandiera gialla” fu anche l’epoca storica in cui si colloca abitualmente la cosiddetta “invenzione dei giovani” come consumatori attivi... Lei la ricorda così?
Era così. Prima i giovani non avevano soldi. E anche allora ne avevano pochi. Ma chi fruiva dei dischi in quel momento erano i ragazzi, certamente.

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Quanti anni aveva, lei, allora?
Io sono del ’32, era il 1965… avevo 33 anni. Però arrivavo da un’esperienza internazionale: ero stato dieci anni in Svezia, dove facevo lo stesso lavoro alla radio svedese.

E come ci era finito in Svezia?
Non l’ho mai capito neanch’io… Facevo il dj alla radio, a Stoccolma. Ho iniziato facendo le lezioni di lingua italiana, poi mi sono allargato: ho iniziato a conoscere le altre persone che lavoravano lì alla radio, e anche aiutato anche dal fatto che parlavo perfettamente lo svedese, nel giro di un paio di mesi ho iniziato un programma di musica che era l’esatta anticipazione del “Bandiera Gialla” che anni dopo avrei fatto in Italia. Per entrare in Rai ha contato molto la mia esperienza internazionale, il fatto che parlassi diverse lingue... L’ambiente della Rai, lì a via Asiago, all’epoca era molto provinciale, molto antico. Ci si sconvolgeva per Claudio Villa. Magari quelle che suonavano erano pure le canzoni dell’epoca, ma erano presentate in maniera ottocentesca. C’era un annunciatore forbitissimo che con una dizione inappuntabile diceva: «Di Borghezio, Fanfella, Marra, trasmettiamo ora “Il mare è vicino”. Canta: Giuseppe Amaranto. Dirige l’orchestra...». Dopo dieci, quindici secondi di bianco, partiva il brano. E dopo che era finito: «Di Borghezio, Fanfella, Marra, avete ascoltato...», così. Arrivando dalla Svezia, capite bene che lo choc culturale è stato grande.

Ci racconta qualcosa delle sue origini, in Italia?
Ah, io nasco in provincia, ad Arezzo. Ho vissuto ad Arezzo fino ai diciott’anni, con in mezzo la guerra e tutto, e poi sono andato in Svezia. All’epoca era la nazione più all’avanguardia di tutto il mondo, e probabilmente lo è ancora adesso.

Lì in Svezia ha anche fatto conoscenza con la leggendaria “maggiore rilassatezza” dei costumi sessuali svedesi rispetto all’Italia?
Beh, diciamo che lì mi sono tolto l’atavica fame aretina.


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C’è un ricordo dell’epoca che la accompagna ancora oggi?
Le minigonne: per me che venivo da Arezzo erano pura fantascienza. Mary Quant, Carnaby Street, lì erano già arrivati.

Dicevamo del traumatico ritorno in Italia…
Tornato in Italia ho trovato il deserto… però ho ritrovato anche il mio amico Renzo Arbore, e la sua passione per la musica nera, il jazz, il rhyrhm’n’blues.

Che però non suonavate a “Bandiera gialla”
Lo suonavamo, sì. Suonavamo anche i grandi cantautori, come Battisti. E i pezzi pop, naturalmente.

Andavate in onda il sabato pomeriggio, giusto? Con un pubbico “vero” di fronte…
Sì, c’era un po’ di pubblico in studio, sentivi gli applausi. Alcuni tra quelli che venivano sempre in studio, poi sarebbero diventati a loro volta famosi: Renato Zero, Loredana Bertè, Mita Medici... Clemente Mimun (futuro direttore del TG2 e poi pure del TG1, ndr) veniva sempre anche lui, tra il pubblico, e una volta lo facemmo cacciare perché era una specie di discolo, faceva casino, dava fastidio agli altri...

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E ovviamente eravate consapevoli di essere un fenomeno di costume pazzesco…
Lo vedevamo. Se suonavamo un pezzo, la settimana dopo quel pezzo diventava numero uno nella classifica di vendita.

Quelli naturalmente sono anche gli anni del Piper, a Roma.
Sì, Piper e “Bandiera gialla” sono nati nello stesso periodo. Io al Piper facevo il dj: sarà stato il ’63, forse il ’64. Fu la prima discoteca italiana, prima c’era la “sala da ballo”. Ero amico dell’avvocato Alberico Crocetta, l’inventore del Piper. Andavamo insieme a Londra. Quando il Piper aveva appena aperto, a Londra ci andavamo un paio di volte al mese, a prendere questi gruppi di capelloni da far suonare. Portammo giù i Cyan Three, che poi diventarono il gruppo che accompagnava Patty Pravo dal vivo. Crocetta era molto, molto simpatico. Con lui sono stato anche un paio di volte a New York. Siamo andati a vedere i Beatles nel famoso concerto allo Shea Stadium di New York. Il posto era ovviamente tutto pieno, trovare i biglietti fu complicatissimo, e io e Crocetta eravamo forse gli unici maschi in tutto lo stadio, di sicuro gli unici adulti. Il pubblico era tutto fatto di ragazzine urlanti, forse giusto qualche fratello che le accompagnava. Tutte ragazze: noi eravamo sbalorditi. Ancora oggi rimpiango di non aver avuto con me una macchina fotografica. E il concerto durò tre o quattro minuti al massimo, perché appena loro attaccarono il primo pezzo – “She Loves You” – le ragazze sfondarono le cinque file di poliziotti e transenne che dividevano il palco dalla platea, e il concerto fu immediatamente sospeso. Avevamo affittato una macchina, ci mettemmo tre ore per tornare in albergo perché fuori c’erano tutti i genitori con le auto che aspettavano le ragazze.

Torniamo per un attimo al Piper, se le va: fino a che ora si tirava avanti una serata, in quel periodo?
Fino all’una, una e mezza, massimo le due. Ma erano tutti adulti. I ragazzi, quelli che ascoltavano “Bandiera gialla”, non c’erano. Poi, dopo sarebbero arrivati anche loro, ma all’inizio c’erano questi personaggi, come Luchino Visconti

A sentirlo raccontare così sembra quasi un night…
No, un night no, anche perché il locale era molto grande, i soffitti alti. Era un ex-cinema. No, scusate, un ex-garage. C’erano molte luci, luci sfolgoranti. All’inaugurazione suonarono i Rokes e l’Equipe 84. La mia cabina da dj era lì sopra, in alto, e c’erano due piatti, chi li aveva mai usati due piatti? Si passava da un pezzo all’altro con la dissolvenza. E poi c’era un impianto molto, molto forte.

Il Piper generò delle imitazioni?
Si, sempre Crocetta aprì il Piper di Viareggio, che però funzionava solo d’estate. Al Piper negli anni ’70 ci girammo anche un programma televisivo, “Superstar”. C’era una scenografia in vetroresina che ricostruiva una specie di cattedrale al centro del locale. C’erano dei pannelli con dei personaggi dei fumetti – Mandrake, Lothar… – e una bolgia di ragazzini che ballavano. Bellissime luci.


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C’era un’idea “pop” nel senso di Pop Art?
Sicuramente sì. Ero io a disegnare anche le scenografie dei miei programmi, e prendevo ispirazione da tutto, anche da Andy Warhol, che però allora conoscevano in pochissimi.

Che musica suonava, come dj, al Piper?
Quello che si chiamava lo “shake”. C’era anche la musica nera, che a me piaceva moltissimo: James Brown ad esempio… solo che era difficile da ballare, però i più giovani ci provavano, lo ballavano.

“Alto gradimento” invece quando iniziò?
Io le date non me le ricordo mai… ma mi pare nel ’67. Andò avanti per dieci anni, all’ora di pranzo. Era un quotidiano, anche se spesso noi registravamo le puntate con mesi di anticipo, anche sei o sette, perché eravamo molto impegnati. Io facevo mille altre cose: facevo il giornalista, lavoravo in pubblicità, ero testimonial della Coca Cola, facevo consulenze per grosse compagnie… Ero sempre a Milano, a Torino… Per sei anni ho fatto il consulente della Fiat, consulente d’immagine: facevo le convention per l’uscita della Punto, della Uno, della Ritmo...

Come ricorda la Milano notturna degli anni ’70?
Un po’ provinciale, forse. Io a Milano frequentavo i pubblicitari, che erano quelli più avanti, più internazionali di tutti, ma a parte loro e quelli della moda, la città restava abbastanza provinciale. Come Roma, del resto. Ricordo di una volta che andai in un negozio di ottico a comprare un paio di occhiali, e quelli del negozio mi riconobbero e chiamarono tutte le commesse dei negozi vicini, e non la finivano più di dirmi: “Ma lei, è veramente Boncompagni?”, a chiedere autografi… Io non ci potevo credere, e non ci credevano nemmeno gli altri a Roma quando glielo raccontai.

“Discoring” è probabimente il vero spartiacque rispetto all’ingresso di certo pop chiamiamolo “meno allineato” nella vita di molti bambini e teenager dell’epoca… Che ricordo ha degli inizi?
Era un programma all’interno del contenitore di “Domenica In”, nel quale facevo il dj esattamente come alla radio. Stavo dietro una consolle con un mixer molto ingombrante, due giradischi, e le quinte erano delle repliche di grossi amplificatori, tipo Bose, che si aprivano e dietro c’era il “teatrino”, cioè il palcoscenico. Presentavo i cantanti, che poi cantavano i loro pezzi, e lanciavo i dischi più venduti della settimana, nel senso che facevo proprio sentire i 45 giri sul giradischi e poi li lanciavo tra il pubblico...

“Discoring” è iniziato nel 1977/78, quindi in piena epoca disco: l’idea era di far irrompere la discoteca nel pomeriggio degli italiani?
No, a “Discoring” ci venivano anche i cantanti italiani, quelli più giovani per lo meno. Io poi non ho mai amato la discoteca come ambiente, troppo rumore, non si riesce a parlare.

Se la ricorda quella ragazza, Gloria Pedimonte, che ballava nella sigla (“Baila guapa”…)?
Era una delle molte signorine non parlanti della televisione. Era la sigarettaia dell’Hilton, pensa un po’: la trovammo lì...

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Ma quindi lei in discoteca proprio non ci andava?
Ci andavo per vedere che succedeva, per prendere idee. Soprattutto all’estero: a New York sono andato allo “Studio 54”, la musa ispirarice di tutte le discoteche. C’era il “selector” alla porta che decideva chi poteva entrare e chi no. Era geniale perché non c’era nessuna regola: c’era la coda, e lui magari faceva entrare uno vestito come uno straccione e lasciava fuori uno elegantissimo. Noi ce la rischiammo, facemmo la coda e arrivati all’ingresso feci un gesto al selector, un gesto all’italiana, tipo “ok!”, e lui ci fece entrare.

C’era Arbore con lei?
No, Renzo non era un gran viaggiatore, ero con degli amici, e con la mia fidanzata dell’epoca, Isabella Ferrari.

Televisivamente, gli anni ’80 per lei iniziano con “Pronto Raffaella”. Era stupendo: quei fondi azzurri, il faccione di Raffaella Carrà sempre in primo piano…
Io usavo il primo piano, che nessun’altro in televisione usava così. Stavo fermo con la camera sul volto della conduttrice, mentre gli altri miei colleghi si scatenavano a fare zoomate, a cambiare inquadratura ogni secondo… Io stavo immobile, pochissimi stacchi. Comunica più un primo piano, se è una faccia mobile come quella di Raffaella, che mille cambiamenti d’inquadratura. È stato il primo grande programma nella fascia di mezzogiorno: prima di noi non c’era nulla, il monoscopio. Soltanto Corrado con “Il pranzo è servito” su Canale 5, ma noi eravamo mille volte più forti come ascolti.

E poi i fagioli: il gioco del “quanti fagioli ci sono nel vaso”…
Vabbè, quella è una cosa che avevo scopiazzato da una televisone privata. Avevo visto questo gioco e l’ho rifatto pari pari a “Pronto Raffaella”. E lei aveva questi abiti, coloratissimi, fiorati... c’era un suo stilista personale che glieli preparava. Io detesto il kitsch, sono per natura amante del minimalismo, per cui vi lascio immaginare cosa ne pensassi di quei vestiti, ma la lasciai fare: era ovvio che era la cosa giusta. Raffaella esplodeva, letteralmente, dal televisore.

Con Raffaella (Raffaella Carrà e Gianni Boncompagni sono stati fidanzati per nove anni, dal 1969 al 1978, ndr) andavate a ballare?
No, siamo sempre stati molto casalinghi. Serate in casa. Pochissima mondanità.


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Quali sono stati i suoi altri programmi televisivi negli anni ’80?
Eh, tantissimi. I principali furono “Pronto Raffaella” e “Pronto chi gioca?”, poi quattro anni di “Domenica In” con Lino Banfi, poi Marisa Laurito, poi Edwige Fenech: grandissimo successo, ascolti bulgari, 51%…. È in quegli anni che Berlusconi mi fa la corte per risolvergli il problema del mezzogiorno su Fininvest, completamente schiacciato dalla Rai. Anche con “Domenica in” ho dato delle discrete batoste a Fininvest. Loro la domenica pomeriggio proprio non ce la facevano: a un certo punto hanno fatto uno show intitolato “La giostra” a cui partecipavano tutti i loro grandi personaggi del periodo – Pippo Baudo, Raffaella che nel frattempo era passata a Fininvest – ma non ce la facevano lo stesso, contro “Domenica in”.

Ovviamente non possiamo non chiederle che tipo fosse Berlusconi, anche se immaginiamo la risposta…
Era molto simpatico: era moderno, scherzoso, un barzellettiere. E poi molto convincente, tant’è vero che convinse pure me. Chiesi una cifra spaventosa, che lui mi diede senza la minima discussione. Chiesi anche l’ultimo modello di telecamere digitali, perché – gli dissi – le telecamere che avevano in Fininvest trasmettevano in bianco e grigio. E poi chiesi la diretta, e infatti “Non è la Rai” fu il primo programma in diretta della Finivest.

All’inizio il programma lo conduceva Enrica Bonaccorti, giusto?
Durò pochissime settimane, la massacrai al punto che se ne andò. Ricordo che girai uno spot per il programma in cui lei veniva fucilata come la Tosca, e lei non capì che non era uno scherzo, che la stavo fucilando sul serio. Il vero salto “Non è la Rai” lo fece quando passò dal mezzogiorno al primo pomeriggio.

Infatti quello che è rimasto nella memoria condivisa è il periodo dopo che le ragazze presero il sopravvento. Il ricordo, però, è quello di un programma estremamente voyeuristico: la piscina, la schiuma…
No no, assolutamente, in realtà era un programma molto pudico. Solo all’inizio ci fu un po’ di voyeurismo, perché c’era una piscina e le ragazze erano in costume da bagno. Ma durò quindici giorni, e poi eliminammo la piscina. Anche perché eravamo nell’occhio del ciclone, con tutti i fucili puntati su di noi, tutti gli assistenti sociali che si scagliavano contro il programma. Secondo me in realtà era un programma soprattutto gioioso, e assolutamente non bavoso. Era come il paradiso. Io lo dicevo sempre agli altri, all’epoca: “dovremmo pagare noi per venirlo a fare, questo programma”.


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Ma qual era l’idea dietro il programma?
Il nulla. Io sono un esperto del nulla, il nulla fatto bene però. Come dico sempre: “Il nulla è grande, perché non gli si può togliere niente”. Ricordo un paio di battute buone, molto iconoclaste. Ad Ambra facevo sempre dire: “Ambra c’è”; oppure: “Ambra c’è e si vede, altri non so”.

C’era un’intenzione di celebrazione della bellezza, della giovinezza?
Anche, si. 150 ragazze che ballavano, cantavano…

Ecco, appunto: quel balletto su “Please Don’t Go”, che sembrava non finire mai…
Io sono da sempre un patito del tormentone. Il responsabile Fininvest del programma diceva: “Ma non potete rifarlo sempre uguale!”, e io gli rispondevo: “Guarda che il balletto potrebbe durare anche un’ora, e la gente sarebbe contentissima lo stesso”. Per me era un momento bellissimo, il più bello dell’intero programma. L’ho detto, era come essere in paradiso.

E Berlusconi in tutto ciò?
Berlusconi telefonava spessissimo. Simpatico, come sempre. In regia avevamo questo telefono cordless, dove però si sentiva pochissimo. Berlusconi chiamava per parlare con me, e io già di mio ci sento poco, per cui cercavo di immaginare cosa stesse dicendo, e di ridere quando intuivo che stava raccontato una barzelletta. Dopo passavo il telefono al responsabile Fininvest – Vasile, si chiamava – che diceva a Berlusconi: “Dottore, guardi che Boncompagni non ha sentito niente come al solito”. Questa era la gag ricorrente. Poi ci fu un’altra gag che ci accompagnò per tutti gli anni del programma, e che risale a quando firmai il contratto. Vengono gli avvocati da Milano, io firmo per questa cifra pazzesca, e come anticipo mi fanno un assegno da un miliardo. Io, quindi, esco dallo studio dell’avvocato con questo assegno da un miliardo in tasca, come il signor Bonaventura. È ormai sera, così decidiamo di andare a mangiare da “Dante”, che è una trattoria a quartiere Prati. Arriva il conto, e io mi alzo per pagare. Chiamo Dante e gli dico: “Senti, mi puoi cambiare questo assegno?”. E lui: “Certamente dottore!”, e se ne va di là col mio assegno. Dopo un po’ torna, con una faccia strana: “Dottore, forse c’è un problema”. E a quel punto tutti giù a ridere.

Cambiò qualcosa dopo la “discesa in campo”?
No, non direi. A “Non è la Rai” facevamo delle piccole gag, Ambra dialogava con l’angelo e il diavoletto in sovrimpressione e scherzava sul fatto che l’angelo fosse Berlusconi e il diavolo D’Alema, poi si facevano battute sul Milan. In realtà lei era molto iconoclasta, e ripensandoci oggi c’è davvero da chiedersi com’è possibile che ci abbiano lasciato fare con tanta libertà.

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“Non è la Rai” fu un grosso successo in temini di ascolti?

Non enorme, in verità. Avevamo uno zoccolo molto fedele, ma fu più il fenomeno di costume che il successo.

E dopo “Non è la Rai”?
Sempre in Finivest feci “Primadonna” con Eva Robbins: quella scenografia con i 400 ufficiali di marina… Poi mi chiesero di fare “Casa Castagna”, ma dopo tre o quattro giorni me ne andai, non ce la facevo proprio. La televisione è noiosa. La televisione per funzionare oggi deve essere banale, senza nessun guizzo. È stato sempre così, in realtà, ma adesso mi annoio.

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L'articolo Vita di Boncompagni, secondo Boncompagni di Fabio De Luca (https://about.me/fabiodeluca) è apparso su Rockit.it il 2017-04-18 09:19:00

Tag: addio

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