FIB2004 (quarta parte)



Godot, il figliol prodigo
A mezzogiorno il risveglio è traumatico. Chi campeggia sa che il sole ad un certo punto batte sulla tenda come un martello impazzito, ed il rumore del caldo è troppo forte che alla fine uno è costretto a svegliarsi. Sudato e Rincoglionito. Tra l’altro, la nostra tenda è l’unica posta alla dolente azione del sole durante l’intera giornata. Un solarium, praticamente. Si bestemmia e – come il Verbo Rock insegna – si cercano gli occhiali da sole per coprire le nefandezze della sera prima.

Non trovo i miei occhiali da sole. Bestemmie satellitari SMS ad ignoti bastardi. Capisco di avere perso i miei occhiali da sole Armani, fidati compagni di viaggio da ben due anni a questa parte. Erano graffiati, con la montatura un bel po’ sbilenca. Ma erano bellissimi: chiunque li abbia visti conferma. Intanto, la mia valigia ancora non porta notizie di sé, atteggiata più a viziata bambina scocciata che a buona figliola prodiga che capisce di aver sbagliato. Brutto stronzo di un bagaglio Godot. Giuro che se mi succede qualcos’altro brucio una maglietta di Morrisey come dimostrazione provocatoria.

Oggi comunque è il giorno dei Micecars. Il giorno dell’Italia che emerge a Benicàssim. A (stupido) rigor di logica l’unica giornata che dovrebbe interessare me di ROCKIT, tutta roba italiana. Decido, prima di andare a mangiare, di fare una telefonata all’aeroporto. E scopro che la mia valigia sarà all’Ayuntament de Benicàssim alle 18:30, e io dovrò essere presente per firmare il foglio, altrimenti non potrà essere rilasciata. Gioisco come un bufalo quando si innamora di una bufala. Poi realizzo che il concerto dei Micecars inizierà alle 17:35, dunque – visto che fra l’Ayuntament e il la zona concerti ci sono 20 minuti a piedi – dovrò perdermi qualche minuto di concerto.

Ora, tu magari credi che io scherzi e queste cose me le inventi, ma purtroppo non è così. Dico: ti pare logico che, dopo tre giorni vestito di abiti sudati in attesa del mio bagaglio Godot, questo stronzo debba arrivare proprio a cavallo dell’esibizione dell’unica band italiana in cartellone? Siamo di fronte ad un complotto comunista, ne sono certo.

Decidiamo di andare a mangiare. Sulla strada ci fermiamo un attimo ad aspettare Diego, e un ragazzo si avvicina per farci una domanda. Ci chiede se anche a noi hanno rimosso la macchina da una zona transennata dove troneggiano cartelli che – in stampatello – recitano “proibido estacionar, los retira la grua”. Ci dice che le transenne ieri non c’erano e nemmeno i cartelli. Provate ad indovinare di che nazionalità è? Esatto!

Il pomeriggio scorre tranquillo, e alle 17:35 ci rechiamo allo Escenario Hellomoto per vedere – finalmente – i Micecars. La gran parte dello scarso pubblico italiano qui presente è ben assiepata. Ci saranno – in tutto – circa 500 persone, ovvero un numero irrisorio paragonato alla media del FIB, ma è pomeriggio, ed è veramente troppo presto per incominciare a vedere musica.

Entrare nel tendone è come sentirsi a casa. Una sensazione quasi di appartenenza. Fuori per sentirsi dentro. Come vedere vincere l’Italia ai Mondiali, ma dall’estero.

Giacomo Fiorenza è al mixer, e suda. Emiliano Colasanti invece – che è qui in veste di produttore/arrangiatore/roadie/manager/giornalista/intellettuale/ ascoltatore/artista/presenzialista – si dimena a lato palco, come un padre alla prima partita da titolare del figlio nei pulcini, e suda. I Micecars suonano al 60% delle loro possibilità: le voci rimangono una velleità per pochi, e la caratura sul palco è quella di chi ha nelle proprie corde solo 4 concerti. Ma è l’intera situazione ad essere bellissima. Il pubblico segue le canzoni con attenzione, e partecipa, perché qui in Spagna la cosa bella è che il pubblico, ai concerti, partecipa. Batte le mani. Si muove. Balla. E pure sulle note dei Micecars parte un battimani. Emozioni. Sorrisi. Ragazze bellissime, con una coppola in testa. Però fuggo, che ho una valigia che mi aspetta.

Corro. Più veloce della macchine. Corro. In infradito, ovviamente, visto che le scarpe sono nella valigia. Corro, che sono le 18:25 e ho ancora almeno 10 minuti di strada da fare. Corro, e arrivo all’Ayuntament. Chiedo che ore sono ad un inglese. Mi dice che sono le 18:40. Gli chiedo se per caso ha visto passare un corriere, che ho perso la valigia e la sto aspettando. Mi dice che anche lui è lì per questo e che no, non l’ha visto passare. Respiro.

Cinque minuti e vediamo arrivare una Citroen bianca di una decina di anni fa. Si ferma, scende una coppia di adulti. Pastore?, urla uno. Si sono io. C’è la sua valigia. E questo in Spagna lo chiamano corriere?

A brand new man
Docciato, pulito e cambiato, Carlo Pastore torna sulla strada del festival con la consapevolezza di aver ritrovato il suo prodigo bagaglio. Estasi e tranquillità, contrapposti alla tristezza di aver perso gli attesi Snow Patrol (oltre ai Kings of Leon, già visti a Genova, con tra l’altro una discreta noia).

Il primo obiettivo è la conferenza stampa degli Einsturzende Neubaten. Cioè Mr. Blixa Bargeld a tre metri di distanza.

In abito scuro, gessato. Capello liscio, lungo, che spesso copre gli occhi. Nella mano sinistra una bottiglia di Campari, nell’altra del vino bianco. Annoiato, furioso, dà indicazioni ai suoi compagni di gruppo. Un coglione di giornalista francese gli chiede se suona ancora nei Bad Seeds. Lui dice che no, non suona più nei Bad Seeds e non risponderà mai più a domande così stupide. Come dargli torto? Ma l’atmosfera si gela. La signorinadellasalastampa chiede per un'altra pregunta. Silenzio. Allora Blixa beve un goccio del suo bicchiere di bianco, prende in mano il microfono e presenta se stesso e gli altri della band. Il tono è quello di un capò nazista furioso. Dice che è loro hanno accettato di essere di partecipare a questa conferenza, e dunque sarebbe meglio che ci fossero domande, altrimenti se ne torneranno nel loro camerino caldo 45 gradi. L’atmosfera è gelata. Blixa allora saluta, si gira verso la signorinadellasalastampa e le chiede come diavolo si fa a fare una conferenza stampa quando appena dietro si sta svolgendo un rumoroso concerto rock. Lei non risponde. Tutti siamo in silenzio. Gli EN se ne escono.

Cinque minuti di ferro e fuoco. Industrial noise. Questo sì che è spettacolo. Corro dai Lali Puna all’Escenario FiberFIB.

Il tendone è gremito. C’è un caldo che si soffoca, altro che 45°. Il concerto inizia con seri problemi tecnici. Lei, Valerie, è rammaricata. Dieci minuti di ritardo, poi parte il primo pezzo. Ed è magia. Volare su soffici melodie. Danzare sulle nuvole. Una girandola di suoni che si attorcigliano in un’armonia pressoché perfetta. La gioia estatica dell’electro-pop. I brani attingono sia da “Faking The Books”, l’ultimo disco, sia da “Scary World Theory”. Un concerto dove domina la grazia, e la leggerezza si adagia dentro le scarpe, obbligandole a muoversi. Stupendo.

Corro per tentare l’assalto al finale degli Air, ma è tutto pieno. Allora torno verso l’Escenario Verde, dove i Tindersticks stanno giusto finendo. Peccato per entrambi. Salto anche Thomas Morr e piuttosto che i tristissimi Charlatans, ovvero una band senza più niente da dire, ritorno all’Escenario FiberFIB per gli Einsturzende Neubauten. La mia prima volta dal vivo. I ricordi di quando leggevo il loro nome per la prima volta nelle biografie dei Marlene Kuntz. Il fascino di un’estetica talmente forte da essere totalizzante. I martelli pneumatici sul palco. Un intero mondo che arrivava ad un ragazzino che credeva che Kuntz facesse assonanza(dissonanza) con noise. Il noise. Una parola che ha condizionato la mia musica. E ora gli Einsturzende Neubaten, a Benicàssim, con il tendone nuovamente gremito. Al FIB si chiudono i cerchi.

Dovete immaginarvi dei musicisti tutti vestiti di nero. In prima linea, chitarra voce e basso, da destra a sinistra. Dietro, strani oggetti, strani oggetti da percuotere. Strani oggetti da percuotere che, una volta percossi, creano suoni che passano dalla caverna alla luce senza – a onor del vero – una apparente spiegazione. Suoni di cui non è dato sapere né l’origine né la provenienza. Poi, una voce che per davvero qualcuno ha rubato al Diavolo. La voce di Jim Morrison, caduto e affogato in un lago di sangue, dove poeti navigano e recitano poesie. Delle canzoni che – oltre le apparenze – sono Canzoni con Melodia (soprattutto le ultime, o quelle da “Silence is Sexy”). Si balla anche in questo concerto, e ciò – almeno per me – ha dell’incredibile. Parte “Sabrina”, il bacio donato all’eternità, e si spengono le luci.

Adesso tocca ai Pet Shop Boys, quindi voi puristi potete anche saltare questo paragrafo, sperando che un giorno la cecità e la sordità possano farvi pagare il duro prezzo di cotanto snobismo che ostentate oggi senza un minimo di pudore. Comunque. Diciamo che un set dei tracotanti Pet Shop Boys non è divertentissimo, soprattutto per chi non ha nelle vene e nel sangue un determinato periodo storico (gli ottanta) e un tot di album (i loro), ma si parla di un Evento. Di cantare “Go West” in un’orgia sociale da stadio di Epiche Emozioni. Di vedere all’opera la Storia della Musica. Di capire il Pop. Di capire noi e gli altri. Di riempirci di tastiere fino ad esplodere. Per poi dire, “io c’ero”. Io c’ero.

Così, mentre la stanchezza bussa alla mia porta con una furiosa insistenza, bevo una birra nell’attesa del set dei Kraftwerk, l’ultimo live di questa lunga giornata. Ma più passano i minuti, più il mio corpo perde energia. Nemmeno la mia volontà più ostentata riesce a fermare questo inesorabile declino, a cui assisto inerme, senza poter fare nulla. Non vorrei perdere i Kraftwerk, ma incomincio a pensare che questo sia ciò che mi tocca fare. Bestemmio, ormai per inerzia. Mi obbligo ad assistere all’inizio del loro set. E faccio bene, almeno quello... Scende il telone e sul palco compaiono quattro uomini in abito davanti a dei notebook. Gli schermi proiettano immagini. Attacca “Machine”, ma i miei occhi cominciano a chiudersi. Così sono costretto a mollare, visto che mi aspettano anche 30 minuti buoni di cammino. Che probabilmente percorrerò ad occhi chiusi, senza aver sentito nemmeno un pezzo da “Autobhan”.

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FIBER era il giornale ufficiale del Festival de Benicàssim. Ogni giorno usciva con un numero ricco di interviste, articoli, anticipazioni, aneddoti e altre cose meno interessanti. FIBER era gratuito e tutti lo prendevano, magari non lo leggevano, e poi lo lasciavano lì. Io, così come tanti altri che invece lo leggevano, ho conservato tutti i numeri.

Questa è la copertina del sette agosto, su cui troneggia Neil Tennant, leader dei Pet Shop Boys. Tutto vestito di bianco come Silvio Berlusconi in Sardegna, però senza bandana.

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L'articolo FIB2004 (quarta parte) di Carlo Pastore è apparso su Rockit.it il 2004-08-24 00:00:00

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