Fricat - Un carnevale su sfondo nero

Joe Antani, ex Apes on Tapes, ci racconta il suo nuovo progetto Fricat, che parte da Andrea Pazienza e arriva all'hip hop italiano

In un lungo giro di giostra che parte da Andrea Pazienza e finisce con un neologismo che suggerisce una diversità fatta di orchestre, marcette, crescendo, contaminazioni delle più efficaci: Fricat (aka Joe Antani, Apes on Tapes) ci parla di questo sentimento che è, appunto, il "fricatismo", ovvero un imbastardimento gioioso. 

Parliamo un po' di Fricatismo: da dove hai tirato fuori il nome Fricat, intanto?
(Indica un quadro raffigurante un asino) Vedi quel quadro? È la tesi di laurea di un mio amico che frequentava l'accademia a Firenze e un giorno l'ha piazzato qui perché è enorme e non sapeva dove metterlo. Però mi piace. Mi ha sempre ricordato la locuzione latina "Asinus cum asinum fricat" che, a sua volta, mi fa sempre venire in mente una vignetta di Zanardi di Andrea Pazienza. Non so se conosci il fumetto, è la storia in cui vanno alla festa di carnevale con le tutine, si annoiano e il più piccino, Petrilli, dice che gli piace la reginetta, e allora Zanardi dice: «Asinus cum asinum fricat», perché lui è mezzo nobile. Quella in cui vanno nel dormitorio e c'è un incendio.



È quella storia che si scopre solo alla fine essere un sogno?

Sì, è il sogno di uno dei tre nel quale uno di loro muore. Va be' insomma io a Zanardi e Pazienza ci son legato, in più suonava bene. Sono andato a documentarmi e frico, fricas, fricui, fricatum, fricare è la radice di varie cose. Penso anche di "fuck" in inglese, passando per "frichen" in tedesco. Significa "frizione" e ci sta con la danza, con le percussioni, insomma la frizione serve (ride). Sono tutti film mentali che mi ritornano, un giorno ero lì a Bologna e mi misi a ragionare sul fatto che ci sono dei pavimenti talmente lucidi che quando piove scivoli. Senza attrito è un casino. Mi ricordo che ero depresso e mi misi a canticchiare che: «senza attrito non puoi andar da nessuna parte». Mi è rimasto e probabilmente mi è rimasto anche nel disco.

Fricat che da "Asinus cum asinum" poi diventa "Fricatism".
Sì, io la vedo come un'evoluzione: dopo averne studiato la radice mi interessava tirarci fuori qualcosa di nuovo e mi sono inventato questo neologismo. Che poi ho solo messo -ismo alla fine del nome, ma sono andato a controllare e c'è solo l'aggettivo "fricativo", come per la r fricativa. Allora forse il fricatismo è una condizione medica di cui uno soffre se "stvuscia sempve la lingua", ma non penso. Mi andava bene raggruppare l'idea di questi contrasti che poi anche la copertina richiama sotto questo neologismo. Semanticamente poi la frizione sta bene con i contrasti, ci ho pensato tanto e mi piace. In realtà mi è venuto fuori quando mi han chiesto di descrivere il disco per il press kit, sono bravo a dire cazzate circostanziali. (ride)

E ti sei detto: anche oggi l'ho portata a casa!
Ma poi mi sono stufato, volevo fare qualcosa di mio perché in questa penisola mi sembra che abbiamo sempre problemi di self deprecating. Che è un po' la causa per cui non succede mai niente; se prendiamo sempre per esempio ciò che viene da fuori e non ci prendiamo per un attimo non dico sul serio, ma anche "per scherzo" sul serio, è difficile venga fuori qualcosa. Allora ho deciso di dargli un nome altisonante che magari quello lo ignorano meno.

Quindi quale sarebbe l'ambizione dietro il fricatismo?
Guarda, secondo me il genio è la pazienza infinita. Cerco sempre di non mettermi delle mete quanto dei checkpoint, mi interessa la continuità. Prossimo checkpoint, intanto, dopo il disco e i video sarà il tour, che è la parte che mi diverte di più, sia prima che dopo che durante. Suonare dal vivo è una delle cose che sicuramente mi soddisfa di più, anche a livello materiale. Hai il feedback diretto della gente e il feedback diretto dei promoter tramite bonifico che aiutano i progetti ad andare avanti (ride).

E poi?
Ho già in mente il prossimo capitolo. Si profila eh, non è definito. Però dal momento che con Fricat gestisco tutto io, mi diverto a fare le cose "a tavolino", a inventarmi piani e strategie. Tendo a ragionare evolutivamente, quindi dopo il fricatismo che è l'ibrido, la ritualità, la bastardizzazione gioiosa, devo scegliere se andare più su o andare più giù. Nel senso che dal punto di vista immaginifico devo scegliere se diventare più scuro o più gioioso, fondamentalmente. Mai lasciando perdere il contrario, ma voglio vedere. Sai anche che sono affascinato da questi giovani: dai cantautori nuovi, da quelli che vanno a tempo e da quelli che non vanno a tempo, mi piacciono i giovani. Non escludo quindi parentesi verbose, nonostante mi piaccia scavare nella non verbalità. Essendo attratto dalle commistioni strane non lo escludo e mi piacerebbe. Poi io mi sento già un altro disco dentro.

Ci vedo dell'ironia: parlando di evoluzione infatti sei letteralmente passato dalle scimmie con gli Apes on Tapes alle maschere del 9000 avanti Cristo. Com'è nata la copertina?
Io a Capibara ho solo fornito riferimenti e parole, gli ho chiesto qualcosa di bellissimo e terribile, con dei contrasti netti ma universali, fruibile più o meno tutti. Io di mio ci ho solo messo lo sfondo nero, perché ci tenevo. Lo sento sulle tracce.

È interessante, qualche tempo fa parlavo con un mio amico di Merleau-Ponty e della sua teoria emersiva del linguaggio. Per lui, infatti, è la parola a emergere dal silenzio. Non è che parli e ogni tanto stai zitto, semmai di base stai zitto e ogni tanto parli.
Sì ma 'sta cosa mi ricorda i tempi in cui ero a Bologna a studiare al Dams e mi interessai al rapporto che c'è tra sfondo nero, che poi pare sia il silenzio, e il colore. All'epoca vidi anche il documentario su "The Dark Side Of The Moon", in cui spiegavano quanto fosse importante il rapporto tra silenzio e musica negli arrangiamenti. In quel disco c'è tanta narrativa che viene assegnata al silenzio. M'è servito a montare questo disco. Nel contesto odierno, dancefloor e trap vivono di "raise", "drop" e il silenzio, il vuoto è una parte fondamentale. Anche quando facevo video percepivo lo sfondo nero come punto da cui partire, nel senso che se hai lo sfondo nero da cui partire e aggiungi la luce, lo sfondo rimane comunque nero. Se ci fai caso anche i video degli Apes on Tapes come "Cattlestar Galak-Tical" hanno lo sfondo nero. Un po' perché sono un pigro di merda, un po' perché mi è diventata una cifra stilistica. Poi è bello perché è infinito, è tutto ma anche niente. Questa ossessione dello sfondo nero è ricorrente ma mi ci trovo comodo.

video frame placeholder

Parliamo del disco, finalmente: tu mi hai detto che sono delle profezie. Cosa intendevi? 
Guarda, diciamo che a volte mi piace farmi i film come i bravi nerd fanno. È una cosa che ho fatto a posteriori senza pianificare a tavolino. Succede che io compongo e poi un mese dopo le riprendo e dico: «Ah, vedi vedi il mio inconscio?». Leggo nelle mie interiora. Sai come fanno i cospirazionisti che dopo che qualcosa è successo uniscono tutti i puntini? Ecco, io faccio lo stesso ma sulle robe mie.

Allora cos'è che vedi nei brani che compongono il disco?
Credo fosse una lettura molto romanzata dei tempi che correvano sei mesi fa, non so quanto possano essere interessanti.

Stai sviando, però. C'è una narrazione sin dai titoli, no?
Io faccio questi giochi di parole sin dal liceo. "Fellatio benevolentiae" è una battuta che si faceva quando ti spiegavano la captatio benevolentiae a letteratura. Mi sono chiesto: «dove posso sfogare questa cosa?» e mi son risposto: «nei dischi», così che poi la gente li legga e ci ricami sopra. Mi piace quando succede, io per primo cerco di far cose che attirino un approccio simile e mi interessa sentire cosa ci han ricamato sopra. Penso sia la cosa più bella di tutte ascoltare le interpretazioni che vanno oltre quello che cercavi di dire. Ne ho ricevute tante su questo disco, mi han detto che è parecchio visivo. Sono contento perché ho messo una spunta a una cosa che volevo fare: un disco davvero immaginifico. I titoli, in maniera un po' enigmatica, danno agio a disquisizioni.
"Status Squad", per esempio, mi fa pensare a una squadra che si occupa di mantenere lo status quo. Infatti ha un inizio piuttosto lento con una certa epica, poi la marcetta, le percussioni, lo scontro in cui la squadra agisca per difendere lo status quo. Antifacade invece è un gioco di parole tra "antifascismo" e questa cosa della "facade", idea molto italiana a livello architettonico ma anche sociale. Siamo molto attenti alla facciata quando poi dentro c'è di peggio. È una zappa sui piedi a livello culturale questa continua ricerca della facciata.

Un altro aspetto fondante del disco è il contributo della Wasbridge Philharmonic Orchestra. Da chi è composta e com'è nata questa collaborazione?
Allora: la Wasbridge Philharmonic Orchestra è la Wasbridge Philharmonic Orchestra. Nel senso che hanno scelto questo nome proprio per non rivelare la loro identità. Io rispetto la loro decisione ed è comunque stato bello collaborare con loro. Abituato a lavorare con la tastierina e lo schermo, ho imparato un sacco di cose spiegando loro cos'avevo in mente, l'impeto che gli volevo dare. Sono stati bravi, hanno capito tutto al volo e ci siam divertiti. Era quello che cercavo, un contrasto tra l'elettronica acida e i suoni più caldi. Dal vivo avevo paura per il drop di "Status Squad". Fà di brutto e ha un effetto corale. Finché non lo provi dal vivo non puoi saperlo e un intro così lungo può spaventare, invece prende bene e sono contento del feedback umano.

A proposito di questo, come sei finito a lavorare con Shablo e Avantguardia?
Questa è una storia che mi chiedono spesso: io vengo da Potendera ma a 19 anni ho avuto la fortuna di andare a studiare a Bologna e restarci per otto anni. Lì ho conosciuto tantissime persone che ho avuto modo di reincontrare più tardi nel mio stesso ambito. Per un paio di mesi ho abitato in Piazza Puntoni, ospite da un mio amico, nello stesso appartamento abitava Pablo Shablo. Era il 2001 e in quel periodo mi ero rotto il cazzo dell'hip hop e della scena, c'era un clima di merda e mi ero distaccato. Nell'altra stanza però c'era Shablo e vedevo passare da camera sua da Inoki a Kaos. Produceva tanto e faceva roba molto soul veramente fica con una sua collega. Non avevo mire però di fare beat per i suoi amici, avevo bisogno di acqua fresca elettronica. Tantissimi anni dopo, immagino abbia visto come sia andata con gli Apes on Tapes e mi contattò dicendomi che era tempo che voleva fare una roba più elettronica di livello. Avevo fatto uscire da poco Fricat e gli piacque. Avantguardia poi non vuole mettere paletti alla gente che viene accolta e da lì è nata la cosa.

Trovo che per come lavori sei sempre molto vigile su te stesso, quindi ti chiedo di descriverti in tre parole.
Un iconoclasta carnevalesco. C'è lo sfondo nero eh, ma ci si diverte. Il divertimento è di per sé un valore. Mia nonna durante la guerra ascoltava dischi jazz di nascosto e questa cosa mi ha sempre colpito. Ogni tanto si scappava nelle case e si ballava il jazz di nascosto perché era volgare e ci si divertiva a bestia. Questi contrasti qui mi han sempre interessato.

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L'articolo Fricat - Un carnevale su sfondo nero di Raffaele Lauretti è apparso su Rockit.it il 2016-12-21 13:09:00

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