Heidegger VS Guè Pequeno

Fenomenologia di Martin Heidegguer, o di come "Vero" sia l'Essere e Tempo" del rap italiano

Martin Heidegger con il volto di Guè Pequeno
Martin Heidegger con il volto di Guè Pequeno - Fotomontaggio di Omar Hraoui

«L'esistenzialismo è un "movimento" che, come tutti i movimenti, ha una periferia liquida e un centro solido. Questo centro è il pensiero di Martin Heidegger».

Questo scriveva Leo Straus nel 1971 sul noto fenomenologo Martin Heidegger, tra i protagnosti indiscussi della filosofia del ventesimo secolo. Fondatore involontario dell'esistenzialismo (Sartre scrisse "L'Essere e il Nulla" pochi mesi dopo la lettura di "Essere e Tempo", libro mai completato dal filosofo tedesco), Heidegger è rimasto negli anni tra le figure filosofiche più affascinanti grazie ai suoi contributi all'estetica e all'ontologia.
Certo, per alcuni il crucco è soltanto un vecchio provincialotto che usava parole incomprensibili e intraducibili agli stessi tedeschi e che ha più o meno avallato il pensiero nazista (c'è chi parla di una sua "resistenza spirituale", le questioni sono tutt'altro che chiare), ma non è il luogo giusto per parlarne.

Con la giusta ironia, superando le disquisizioni di carattere più o meno tecnico e compiendo un gigantesco volo pindarico dalle giuste proporzioni, è possibile poter stendere un parallelismo tra il buon Martino e Cosimo Fini, già conosciuto come Guè Pequeno. Un parallelismo che funziona talmente tanto da poter affermare, senza nessuna ombra di dubbio che "Vero" è il "Sein und Zeit" del rap italiano.

Anche già solo riformulando la frase con cui l'articolo si apre, ci si accorge subito che ha senso dire che: «Il rap italiano è un "movimento" che, come tutti i movimenti, ha una periferia liquida e un centro solido. Questo centro è il rap di Guè Pequeno».

Attivo musicalmente da ormai quasi venti anni, Guè Pequeno è uno che il rap sa farlo molto bene e che negli anni si è costruito un personaggio complesso e ormai completamente autonomo dai Club Dogo, gruppo di cui è membro.
Il titolo dell'ultimo disco del milanese è "Vero", che ai più attenti richiamerà indissolubilmente la nozione di esistenza autentica del primo Heidegger. Un track by track accompagnato dai temi principali del tedesco dovrebbe rendere lampanti le affinità con lo squalo grigio che tutti conosciamo.

Così come per Heidegger abbiamo dimenticato, giorno dopo giorno, cosa voglia dire confrontarci con l'esistenza, così i «Pequeno» con cui il disco si apre ci costringono a rapportarci con il liricista. Qualcuno ammetterà che è un inizio debole per speculare di filosofia, ma se parliamo di esistenza come esigenza e dato di fatto, cosa c'è di meglio che far annunciare il proprio nome? Inoltre è pur sempre un disco rap ed è giusto che tenga il focus su se stesso, oltre che sulla rilettura di un classico della filosofia tedesca.

Per Guè Pequeno come per Heidegger, dunque, esistere e confrontarsi con l'esistenza sono una vera e propria esigenza metafisica (è chiaro che in un disco rap comunicare e confrontarsi sono un'esigenza proprio come lo è esistere mentre si è vivi, vero?). Allo stesso modo, però, questa esigenza metafisica richiede una polarizzazione d'atteggiamento di fronte al duro compito di «esserci»: l'esistente può decidere infatti se continuare a crogiolarsi in questa inquietudine del perché si esiste, in questa sospensione del nulla, o decidere di sfuggire a questa inquietudine, illudendosi di placarla nell'oggettività delle cose che non gli è «proprio», "perdendosi" (non vi mai è un valutazione morale per Heidegger, specifichiamolo) nella generalità anonima. Si può esistere («essere-nel-mondo» direbbe il crucco) tra le cose e gli altri esseri umani perdendosi nel mondo, lasciandosi vivere, tuffandosi nella quotidianità.
Oppure si può modificare questo tipo di esistenza, non tanto nel contenuto quanto nella prospettiva in cui affrontare il tutto: consci della propria identità individuale.

Il Guercio, a mo' di novello Rasputin (monaco russo convinto che per sconfiggere il peccato bisognasse conoscerlo approfonditamente) nei primi tre brani del disco si prodiga nel presentarci quali sono i comportamenti tipici di uno stile di vita inautentico. Il sentimento fondamentale che si avverte, una volta consci della propria condizione di gettatezza nel mondo, è l'angoscia: stato rivelativo della nostra finitezza. La morte ci circonda e il peso di questa rivelazione ci porta a una fuga da noi stessi, ci costringe a rifugiarci nelle cose. Ci si lascia vivere, rifugiandosi nel materialismo sfrenato.
"Bosseggiando" è lo zenith di questo momento: "E lei gira sul palo come un elicottero / La pussy rosa come un fenicottero / A letto poi ci faccio stretching / Allergico al vostro rap, etcì / Resto negli annali con i criminali / A 220 sulle BMW / Ho maleducati sopra le Ducati / Boss vestito in haute couture /Nuove Louboutin, G nuovo Lupin" racconta perfettamente tutti i caratteri essenziali di questa fase (il perdersi negli oggetti, la socialità, la deiezione) che vengono, più avanti, approfonditi coerentemente nel disco.

"Squalo", chiacchieratissimo, brano che ha anticipato l'uscita del disco è sì un anthem dedicato al moneymaking, ma il mood cupo suggerisce anche una certa inquietudine che per i più acuti non può che essere la logica conseguenza del rattrappimento che subisce l'umano buttandosi nel non-umano: una degradazione della tragicità dell'umana solitudine tramite la mondanizzazione dell'economicità. Lavorando ci tuffiamo in una perenne distrazione da noi stessi, in un continuo sforzo per stordirci e che riusciamo a comprendere in modo familiare solo tramite «maneggiabilità», a cui certo poi subentra il vantaggio economico.

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Lo stesso martellante ritornello «Devi essere squalo / squalo / squalo / devi essere squalo / per pagare questi affitti devi essere squalo / squalo / squalo / devi essere squalo / per uscire dai conflitti devi essere squalo» suggestiona, e come in un mantra rende chiara la diffidenza che guida la socialità quando legata al lavoro e alla paura che accompagna questi due momenti in un primo momento inautentico: è attraverso la socialità che si fa strada la comprensione degli altri come «collaboratori», «soci», ma è sempre nella comune opera di difesa delle cose che questo avviene. Nella quotidianità, ognuno viene a sentirsi uno di tanti altri, altri che divengono, col tempo, un "Altro" sempre più impersonale, un chi che è tutti e nessuno.

Si dice, si legge, si scrive in una neutralità che s'impone sul soggetto e livella l'espressione personale, in una «produzione in serie» (termine non casuale) di opinioni che i mezzi di comunicazione rendono sempre più efficiente (A proposito, avete presente la recente "Insta Lova?") e che Guè dimostra di conoscere benissimo quando dice che: «è difficile tra i falsi rimanere vero / io lo sono più nel male che nel bene, credo / pensavo di essere immortale come questo cielo / la mia coscienza morta avvolta dentro ad un telo nero».
Nel primo distico vengono prese le distanze dalla banalità del vivere collettivo, mentre è proprio quando Guè ci conferma che credeva di essere immortale che prende atto del Nicht, il niente. Guè, preso dall'angoscia (il telo nero che avvolge la coscienza), sa che morirà, conosce adesso l'evento che lo ha costretto alla fuga materialistica dei primi tre brani ed è sospeso, è -appunto- in equilibrio.

 

Come uscire da questo impasse? Heidegguer ce lo suggerisce nella traccia successiva: l'ulteriore step è la noia.
"Schiavi di questo occidente / il materialismo ci offusca la mente / mi sembra evidente che puttana sei / puttana ci resti per sempre", la lucidità di questi versi è disarmante e in una sola fotografia riusciamo a cogliere quello che Heidegger definisce come un «grido della coscienza» che intende far tornare a pensare l'individuo davanti a se stesso.
Certo, Guè adotta un espediente narrativo, sfoga il suo giudizio su una donna che tra i vizi e un rapporto complicato non è altro che lo specchio perfetto nel quale riflettersi e, ammonendo questa donna nel finale, il rapper milanese sta ricordando a sé stesso di questo rattrappimento. Si trova ora davanti a se stesso, pensando se stesso in un duplice fronte: se da un lato pensa al suo passato (prima della propria mercificazione), dall'altro c'è il futuro con tutte le possibilità di proiettarsi nel mondo, ex-sistere, sporgersi nell'esistenza e progettarsi liberi dalla mondità delle cose. Una volta, infatti, che queste ci hanno annoiato siamo davvero liberi da esse.

«Ho scritto delle canzoni / per cambiare il mio destino» ci dice Pequeno in "Equilibrio" e rincara la dose subito dopo in "Interstellar": «L'asfalto qui scotta, la città in avaria / ero davvero vicino alla follia / all'inferno, a un fermo di polizia / cancellarmi come un'amnesia / credevo di essere una stella / ero solo in mezzo alla polvere della sua scia / là fuori una guerra, ho scaricato le armi».
Guè inserisce la sua narrazione all'interno di una temporalità proprio come lo è l'esserci che ha conosciuto la noia. In un'esistenza autentica, infatti, si smette d'essere illusoriamente svincolati dal passato e da ciò «che non è più» e si vive, si progetta, in una decisione anticipatrice della morte, evento finale davanti cui ci si riscatta dicendo un forte «sì».

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Con una strizzata d'occhio all'eterno ritorno nietzschano, Guè ripropone questi temi ciclicamente una seconda volta (ancora una volta il passaggio nell'inautentico e il distacco da questo) forse a voler suggerire una certa storicità.
Se da un certo punto di vista può sembrare contraddittorio (come? Ci riparli della mercificazione e del deperimento dell'essere-nel-mondo nonostante tu sia ormai essere-per-la-morte?), è certamente vero che persino Heidegger per fondare una storicità mondana dovette negare il principio basilare della sua filosofia: quello per cui l'autenticità è nullificazione di tutte le possibilità mondane. Inoltre stiamo pur sempre parlando di un disco, non scordatevelo.

Quello che è sicuro è che, finalmente, Guè giunge al finale con "Vero". Il brano, autentico guizzo di dialettica che farebbe impallidire il miglior Hegel, riassume perfettamente il senso dell'intero disco (non a caso è la title-track): l'apertura della prima strofa ci ricorda la paura dell'esserci e un certo discostarsi dall'uomo banale che prosegue nella seconda strofa. La litania viene interrotta da un ritornello che ben presenta l'indifferenza del mondo all'uomo, il distaccamento dall'impersonalità e l'anonimato e l'intenzione di restare vero, autentico.

La terza strofa, infine, si staglia sullo sfondo di quanto già detto: un Guè Pequeno ben consapevole della progettualità che richiede la dimensione esistentiva dell'essere-per-la-morte invita l'ascoltatore, il rapper, chiunque sia all'ascolto e stia confrontando con il disco a farsi avanti. In quell'avanti, prego Guè carica tutta la sua esperienza e tutto il narrato a disposizione del prossimo esistente in perfetta linea con ciò che un disco rap deve fare: confrontarsi.

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L'articolo Heidegger VS Guè Pequeno di Raffaele Lauretti è apparso su Rockit.it il 2016-09-08 11:17:00

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