Superonda è il libro giusto per riscoprire la storia della musica italiana

Dentro ci troverete artisti sconosciuti e grandi nomi, ma raccontati da una prospettiva assolutamente diversa da quella alla quale siamo abituati

- Il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza. Foto via wfmu.org
07/09/2016 - 13:00 Scritto da Nur Al Habash

Se siete tra quanti non apprezzano i volumi musicali dalle pretese enciclopediche, quelli che assomigliano più a dizionari nostalgici che a libri veri e propri, allora amerete "Superonda - Storia segreta della musica italiana".
Stiamo parlando dell'ultimo libro di Valerio Mattioli, uscito prima dell'estate per Baldini & Castoldi, un volume che esplora con una narrazione avvincente la musica italiana tra il 1964 e 1976, passando in rassegna tutti quegli artisti che riuscirono a sviluppare linguaggi originali che lasciarono un segno nella nostra storia musicale. 
Dentro ci troverete sì grandi nomi (Morricone, Battiato, Area, Battisti), ma raccontati da una prospettiva assolutamente diversa da quella alla quale siamo abituati - assieme ad artisti che nel tempo sono stati dimenticati ma che vale la pena riscoprire per tracciare una nuova storia della musica italiana, o perlomeno per aggiornarne la narrazione ai nostri tempi.
Il libro si compra qui, di seguito invece trovate una chiacchierata con l'autore: si parla del cliché della nostalgia a tutti i costi, del Gruppo d’improvvisazione Nuova Consonanza, del free jazz italiano e tanto altro ancora.

 

So che il titolo “Superonda” deriva dal nome di un bizzarro divano di Archizoom. Ma mi interessa capire qualcosa in più riguardo il sottotitolo del libro, “Storia segreta della musica italiana”. 
Più che una storia segreta la chiamerei una storia parallela: molti dei protagonisti del libro non sono per niente sconosciuti, e non è che Ennio Morricone o Franco Battiato siano proprio degli ignoti underdog della musica italiana. Quello che cambia è che nel libro vengono affrontati attraverso delle chiavi di lettura o semplicemente dei periodi storici che solitamente sono tenuti un po’ ai margini della storiografia pop del nostro paese. E poi sì, c’è tutta una serie di nomi tecnicamente più underground, anche se ai tempi molti di questi erano tutto tranne che sconosciuti: una rivista considerata “commerciale” come Ciao 2001 riservava molti articoli anche alle formazioni più piccole di quello che all’epoca veniva chiamato “il nuovo pop italiano”. Effettivamente poi il tempo è passato, i dischi sono finiti fuori catalogo, e certi gruppi sono rimasti un culto per una piccola cerchia di appassionati. Poi tra ristampe, recuperi e riscoperte questi materiali sono ritornati in circolo: alla fine certi nomi sono molto meno sconosciuti ora di quanto non lo siano stati solo 10 anni fa.

C’è qualcuno tra questi nomi che secondo te è un peccato sia rimasto “segreto” per tutti questi anni?
Mah, di tanti si potrebbe dire “eh questi avrebbero meritato di più”. È un luogo comune che tutti noi che parliamo di musica utilizziamo in abbondanza (pure troppo). Molti di questi personaggi erano calati in un contesto che difficilmente avrebbe potuto resistere al passare degli anni, ma si possono comunque ipotizzare dei what if.
Ad esempio, cosa sarebbe successo se “The Feed-back”, il disco rock del Gruppo d’improvvisazione Nuova Consonanza, avesse avuto una maggiore eco o fosse stato spinto con più convinzione dall’etichetta e dai suoi stessi protagonisti quando uscì nel 1970? Oppure: cosa sarebbe successo se Le stelle di Mario Schifano non fossero rimaste confinate a quell’episodio strano che è il loro unico album? Anche se a proposito delle Stelle, mi ricordo che quando intervistai Claudio Rocchi mi disse che lui li aveva visti anche dal vivo, furono comunque protagonisti di uno degli eventi più hip della Roma dell’epoca, giravano per l’Italia, erano un nome abbastanza conosciuto - ne scrisse pure Alberto Moravia!
“The Feed-back” dei G.I.N.C. invece è stato un tentativo un po’ bislacco che quasi per definizione non poteva funzionare: dei compositori di mezza età che si mettono a fare rock sperimentale in un paese in cui il rock sperimentale a malapena esisteva. Alla fine le cose sono andate come dovevano, è il tempo che poi produce queste distorsioni, questi ritorni, queste prospettive alterate che mettono tutto in fila e ti fanno pensare “ah ma guarda, nel ’70 in Italia si faceva anche questo”.

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Perché hai deciso di concentrarti proprio su quel dodicennio? 
Be’ da qualche parte bisognava pur iniziare e nell’introduzione del libro spiego anche perché ho individuato nel 1964 l’abbrivo della vicenda che volevo raccontare. Allo stesso modo, a un certo punto bisogna pur chiudere e se c’è una data simbolo che chiude un’epoca (culturale, sociale e politica ancor prima che musicale), quella è il 1976 - per tanti motivi che, di nuovo, nel libro vengono spiegati. Tieni conto che dal 1977 in poi si apre davvero una fase nuova: cambiano gli attori, cambiano le modalità, cambia l’immaginario… e cambiamo ovviamente anche le musiche.

Spesso tra gli appassionati di musica (e ancor più spesso tra i lettori di Rockit) si sente ripetere lo stesso ritornello: “la musica di una volta era migliore, c’era una qualità più alta”. Un’affermazione palesemente falsa, tant’è che viene ripetuta in ogni epoca: mi ha fatto piacere constatare come nel tuo libro questo concetto esca fuori abbastanza chiaramente, e non ci sia mai spazio per toni nostalgici
Considera che l’altro giorno mi sono imbattuto in un passaggio - mi pare su un Melody Maker del 1964 - nel quale i Rolling Stones venivano accusati di essere dei pallidi imitatori dell’originale blues che era molto meglio quindici anni prima. E parliamo dei Rolling Stones.


(Il passaggio del Melody Maker del Maggio '64, nel quale si accusano gli Stones di scarsa originalità)


Personalmente, credo sia un’opinione appiattita che viene dal non essere in grado (anche solo per pigrizia) di farsi un’idea più analitica di quello che sta succedendo nel qui e ora. O forse una visione serena, chiara e distaccata su un periodo musicale si può avere solo se sono passati 60 anni?

A ogni epoca corrispondono dei modi di riflettere in chiave artistica il periodo storico in cui ci si trova. Certo, se a qualcuno non piace il 2016 e preferirebbe vivere nel 1964 perché internet non c’era e c’erano più tram e la televisione era in bianco e nero e c’era un canale soltanto... Be’, posso capire che preferisca sentire i dischi di un giovane Gianni Morandi che non il suo omologo di adesso.
Poi per carità, ci sono periodi più eccitanti nella storia del pop e periodi più di risacca. Però invito tutti a rileggere le recensioni d’epoca di gruppi che adesso consideriamo storici e inattaccabili e vedere come quell’atteggiamento esistesse anche nei loro confronti, sia da parte del pubblico che dei critici che idealizzavano il famoso passato che mai più ritornerà”.

Forse sarebbe interessante raccontare il periodo musicale italiano che va dalla fine degli anni ’90 alla metà dei 2000, una terra ancora vergine da questo punto di vista.
Gli anni ‘90 sono sicuramente un periodo storico che dobbiamo ancora storicizzare come si deve, in qualche modo dobbiamo ancora farci i conti. È strano perché di solito vale la famosa “regola dei vent’anni”, quella per la quale vent’anni dopo si comincia a riflettere, pensare, recuperare quello che era successo nei due decenni precedenti. Però ancora non ho visto un reale approfondimento sugli anni ’90, che in Italia sono stati un periodo molto vivace e molto contraddittorio. Anche dal punto di vista musicale c’era un po’ di tutto: dalla nascita del rap in italiano, ai rave, all’alternative rock all’italiana… Ogni tanto qua e là spunta qualche recupero nostalgico, però forse quello che manca è una riflessione sul contesto che ha prodotto quei fenomeni lì. Prima o poi qualcuno lo farà, immagino.

C’è una storia in particolare tra quelle che racconti in “Superonda” che ti sarebbe piaciuto approfondire ancora di più?
Forse la vicenda del jazz cosiddetto “creativo” (il “free jazz italiano”, insomma) meriterebbe un altro volume di 600 pagine. Fu un fenomeno diremmo “di massa” su cui sarebbe interessante ritornare, specie adesso che c’è questa grande ondata di “jazz all’italiana” in versione perlopiù edulcorata/sterilizzata.
Molto spesso il jazz di adesso, quello che ti danno in allegato con l’Espresso per capirci, è per forza di cose il recupero ben svolto ma un po’ banalotto (lo dico a bassa voce) di un linguaggio oramai cristallizzato oltre che idealizzato. Ma negli anni '70 il jazz era ancora un linguaggio vivo e in divenire, che in Italia radunava un pubblico di tutto rispetto. Lo stesso Umbria Jazz, che è un’istituzione nel panorama dei festival italiani, nacque in quegli anni per venire incontro alla richiesta di un pubblico molto vasto, molto trasversale, composto anche da giovani rockettari, hippie, fricchettoni e così via, tutta gente che per vari motivi individuò nel jazz una musica in cui identificarsi. Su questa vicenda è rimasto un po’ un cono d’ombra nella storiografia musicale italiana: considera solo che molti dischi dei protagonisti dell’epoca sono da tempo fuori catalogo. Poi vabè, c’è il fatto che non si è mai presa troppo sul serio l’idea che gli italiani potessero suonare jazz, se non in tempi recentissimi.

Una delle ragioni per le quali mi sento di consigliare il tuo libro è che non ha l’aspetto una delle tante “enciclopedie del rock” che si possono leggere anche saltando i capitoli. O meglio, con “Superonda” si può anche fare ma si perdono dei pezzi fondamentali. Oserei dire che si legge quasi come un romanzo, e immagino tu l’abbia scritto con questo intento.
Sì, l’intento più o meno era quello. Poi effettivamente mi sono anche posto un problema di “legittimità”, ovvero: con quale autorità io, che all’epoca non ero neanche nato, mi metto a raccontare una storia quando quasi tutti i suoi protagonisti sono ancora in vita e potrebbero farlo loro? Però sai, alla fine è un falso problema, sarebbe un po’ come dire che non puoi scrivere un libro sulla Prima Guerra Mondiale perché non c’eri. Il che non toglie che “Superonda” sia figlio di una prospettiva distanziata nel tempo, e che inevitabilmente rifletta una visione di quelle cose che è propria degli anni ’10 del duemila, più che della cronaca vera e cruda di quello che quegli anni furono.
Credo anche di non far mistero di alcune mie “idiosincrasie”; certo ho cercato di essere il più possibile obiettivo ed equidistante e mai sgradevole, però non ho scritto neanche un testo celebrativo. Insomma, non è un libro in cui per 600 pagine si dice che l’Italia dal ‘64 al ‘76 ha sfornato solo capolavori. C’era bella roba ma anche un sacco di monnezza, delle cose interessanti e altre meno.

Da lettrice, l’unica critica che mi sento di fare al libro è che manca di una playlist per accompagnarne la lettura. Ad ogni pagina avrei voluto interrompere, chiudere tutto e cercare su YouTube un particolare disco o pezzo. Un po’ scomodino...
Un po’ non ci ho pensato perché proprio non sono capace, ho difficoltà a stilare le playlist anche quando bisogna compilare le classifiche di fine anno, io cerco sempre di appuntarmi i titoli, ma poi butto 15 nomi a caso e la settimana dopo li vorrei già sostituire. E poi, se ci pensi, il fatto di voler ridurre tutto ad una playlist è un po’ contrario allo spirito del libro (lo dico per ridere, eh). Quello che spero è che il libro venga letto anche così, senza le famose “guide agli ascolti consigliati”. Lasciarsi andare alla lettura e poi dopo, passo passo, andare a sentire tutto quanto.

 

 

 

 

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L'articolo Superonda è il libro giusto per riscoprire la storia della musica italiana di Nur Al Habash è apparso su Rockit.it il 2016-09-07 13:00:00

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