Il rap partenopeo è Core e Lengua

Un libro fotografico per raccontare la storia di un movimento, quello dell'hip hop campano, e dei suoi protagonisti

- Pino Miraglia

 «Il rap campano chiede riscossa, opportunità, amore per le radici, e diventa anche trasmettitore di idee politiche, crudo realismo e vecchi valori; custode di proverbi, modi di dire e storie legati alla nostra cultura popolare che inevitabilmente si sta disgregando».  

Da qui partono i due fotografi, Pino Miraglia e Gaetano Massa, a raccontare la storia di un movimento, quello dell'hip hop campano, e dei suoi protagonisti: da chi è nato in Italia a chi è invece figlio di una terra lontana, da chi lavora in una ditta di pulizie a chi ha fatto della musica un mestiere, da chi è di Caivano a chi è del Vomero, nessuno è stato omesso dall'indagine e dalla narrazione dei due. "Core e lengua" è un libro del quale colpisce la capacità di raccontare con schiettezza, tra interviste e ritratti efficaci, una storia sotto gli occhi di tutti in un modo che è personale, spigliato le sfumature locali di un movimento che ha trasformato per sempre la pop culture.

Com'è nata l'idea e la collaborazione tra voi?
Gaetano Massa: Dopo esser tornato da Bologna volevo raccontare la scena hip hop in Campania. Ho fatto dei primi progetti con dei rapper di Casoria, li ho seguiti durante le loro giornate tra lavoro e vita privata, era circa il 2009. Ho poi iniziato a lavorare a "Close Up: i lottatori del rap", lavoro che si concentra un po' sugli oggetti più cari ai rapper di tutta la scena campana. Dopo questi lavori mi ha contattato Pino Miraglia, aveva bisogno di un po' di materiale sulla scena hip hop campana. Ci siamo poi visti e abbiamo deciso di partorire questo libro insieme, nell'arco di tre anni è venuto fuori il prodotto finale. La casa di Pino è diventato un po' il nostro quartier generale: ci vedevamo spesso per discutere degli scatti, per decidere dove andare a fotografare e fare il punto sul nostro lavoro.
Pino Miraglia: Io sono uno che fotografa musica da un po' di anni, circa trenta. Gaetano mi ha chiamato e l'ho sentito per una serie di cose tra cui un libro sulla musica a Napoli. Lui espresse il desiderio di fare qualcosa con me, come una mostra. Parlammo della cultura hip hop, visto che lui aveva fatto un piccolissimo lavoro con dei suoi amici di Casoria. Gli dissi che ero disponibile per una pubblicazione in cui raccontare questo mondo da un punto di vista strettamente sociale. L'idea era parlare dei giovani attraverso la cultura hip hop. È stato un percorso lungo, perché siamo di due generazioni diverse e abbiamo approcci all'immagine e ai contenuti dell'immagine piuttosto diversi. L'intento era poi unificare le due visioni in un contenuto unico: nel libro non ci sono le foto di chi ha fotografo questo o quello se non alla fine.

Il libro ha richiesto ben tre anni di lavorazione. Quali sono state le fasi che hanno scandito questa lavorazione?
GM: C'è stata una prima fase in cui abbiamo stilato una specie di mappa, in ogni posto di Napoli cercavamo un rapper che rappresentasse ogni quartiere. Il capitolo dei ritratti segue proprio questo principio: ogni rapper è fotografato nella sua periferia. Il primo capitolo sulle jam, invece, è stato fatto tenendo un occhio al territorio. Nell'arco di tre anni non abbiamo fatto altro che ritrovarci, decidere chi e cosa fotografare, scegliere le location.
PM: C'è stato un incontro forte in un bar alla stazione e abbiamo dato un canovaccio, impostato una struttura. Per noi era importante raccontare i momenti in cui giovani si sfogano o creano aggregazione all'interno di questa cultura. Abbiamo avuto una particolare cura nell'individuare i posti, i giovanissimi, le donne e gli immigrati di seconda generazione. Abbiamo poi strutturato una mappa dei luoghi napoletani e campani e fotografato queste persone dove vivono e lavorano, oltre il rap. Fondamentale era fotografarli dove vivono, nei loro quartieri, sulle loro panche e sui loro muretti, nei momenti di aggregazione. Abbiamo cercato di coinvolgere tutta la cultura hip hop: writer, breaker e così via. Sono abituato a lavorare in questo modo: mi chiedo sempre prima cosa voglia fotografare, come e soprattutto perché.

Ecco Pino, a proposito di questo "perché": per Gaetano è già più evidente, alla luce di quanto ci siamo detti. Ma per te?
PM: Be', per Gaetano è più evidente perché ha 33 anni mentre io ne ho 50. Io però ho visto nascere tutti. La foto che si vede nel libro del Clan Vesuvio, primo crew napoletana, è mia ed è del 1996. E all'epoca avevo già fotografato Speaker Cenzou e i 99 posse, per esempio. Questo libro è stato per noi un punto d'incontro. Gaetano è bravo in questo, è un ragazzo adorabile che scrive e ama collaborare. Io sto con i giovani da sempre, faccio tutta una serie di laboratori, e per me è stato naturale e bello confrontarmi, arricchire un giovane e fare sì che mi arricchisse con la sua visione del mondo.

Quali sono stati i criteri che vi hanno guidato durante la selezione?
GM: Soprattutto per il primo capitolo, volevamo dare una sequenza logica a quello che stavamo fotografando. Volevamo si creasse una sorta di racconto fotografico.
PM: La scelta è andata prima sulle persone, su chi stava nell'ambiente. Magari abbiam fotografato gente che non ha fatto mai niente o che ha già smesso.

2)fuorigrotta above the clouds-ph®GaetanoMassa
2)fuorigrotta above the clouds-ph®GaetanoMassa

I tuoi ultimi lavori, Gaetano, penso anche a Close Up; i lottatori del rap, ruotano attorno all'hip hop. Com'è nata questa tua curiosità?
GM: Questa curiosità nasce da lontano. Prima di iscrivermi all'università, tra i 19 e i 22 anni ho fatto il dj. Ho avuto un gruppo, mi chiamavo Bacco aka Kaiser Soze e ci chiamavamo "Estri violenti". Il nostro intento era creare qualcosa di molto simile ai The Roots, nel nostro gruppo c'era anche un sassofonista. Ho vissuto pienamente la scena anni '90, la mia jam fu ad Agnano nel 1995, dove ho visto ballare Shaone. Furono invitati anche gli Invisibl Skratch Piklz e il tutto era organizzato da Polo. Mi ricordo che chi faceva hip hop veniva visto come un alieno.

C'è stato qualcuno che all'inizio era più restio a farsi fotografare? Quali sono state le reazioni di chi nel libro poi ci si è trovato?
GM: Non abbiamo avuto alcuna difficoltà nel fotografare i ragazzi. Molte volte dopo aver fotografato i ragazzi andavamo a mangiarci la pizza insieme. Oltre la foto, comunque, c'è sempre un rapporto umano.
PM: Guarda, nessuno è stato mai restio. Tutti sono contenti di farsi fotografare, soprattutto rispetto a quanto avveniva fino a qualche mese fa. Non ho mai avuto problemi perché mi conoscevano, in Campania e non solo le mie foto di musica appaiono continuamente. E poi fa parte della loro indole apparire; i rapper hanno una specie di avatar, una sorta di personalità. Lo trovo molto peculiare. Io conduco questa specie di ricerca sulla crescita dell'essere umano grazie alla musica da ormai trent'anni e devo proprio ringraziare la musica perché ho un mio pensiero. Per me è importantissimo il percorso che ti fa fare la musica, il modo in cui la musica diventa aggregante e ti fa conoscere nuove persone. La musica è quel linguaggio che se anche sei uno scugnizziello di undici anni, se ce l'hai ti fa scattare qualcosa, ti fa dire: "aspetta, c'è altro".

Credi che il rap abbia una qualche peculiarità di questo tipo?
PM: Non lo so, io ho iniziato con i Pink Floyd, per dire. Sicuramente io credo nel rap e nell'hip hop quando c'è l'underground ed è uno stile di vita. È più intimo, più introspettivo ma non teme di comunicare col mondo. Il rapper ha bisogno di dire: "io mi chiamo così, mio fratello è questo e facciamo questa cosa qua". È immediato ed è un aspetto che mi ha sempre affascinato. Il rap italiano però non mi è sempre piaciuto, non lo trovavo maturo. Adesso credo che questi giovani abbiano un DNA più ricco da questo punto di vista. Maneggiano molto bene i linguaggi del rock e del rap, nascono e ascoltano musica sin da quando sono piccolissimi, sono avvantaggiati. Questo mi interessa molto: come avviene? Perché? Ebbi un sussulto quando fotografai i Co' Sang e i Fuossera. Dissi: "Cazzo!"

Dalla vostra esperienza diretta, cosa credete che distingua la scena rap napoletana dalle altre? Quale credi sia la sua peculiarità?
GM: Sì, diciamo che la scena rap napoletana fa comunque un uso particolare del dialetto. Ho sempre incontrato sia a Bologna che a Napoli, qualsiasi fosse la scena d'appartenenza insomma, ottimi ragazzi capaci d'impegnarsi a fondo.
PM: C'è sempre la mia convinzione che il dialetto napoletano abbia una marcia in più. Non è campanilismo né altro eh!

Come si fa notare nell'introduzione, il rap a Napoli è visto anche come uno strumento politico. Pensi che il rap si sia rivelato uno strumento politico efficace?
GM: Il rap è visto come uno strumento di riscatto: dai Fuossera alla Terra Dei Fuochi Crew c'è un certo movimento che racconta queste cose.
PM: Io non penso che i Co' Sang, per esempio, abbiano fatto politica. Io penso che i movimenti posse sia napoletani che romani abbiano fatto politica, però i Co' Sang raccontano. Non sai mai quale sia la loro posizione. Certo, si fa sempre politica e in questo anche i Co' Sang fanno politica, però loro in primis raccontano. Lo apprezzo molto perché raccontano quello che succede con lo slang. Li trovo quasi poetici: il poeta ti dice una cosa e poi sei tu che decifri. Certo mi piacciono anche i campioni, quella rabbia malinconica che emerge dalla produzione, questo parlare degli ultimi.

Credi allora che il rap si sia rivelata un'opportunità?
PM: Sì, ma non solo nei termini di un successo come quello che ha avuto Rocco Hunt. Credo che il rap stesso sia l'opportunità. Poter veicolare i propri pensieri attraverso un proprio linguaggio musicale, sfogarsi è importante. A Napoli c'è chi lo fa per moda, chi lo fa perché lo fa da sempre, ci sono giovani che stanno riscoprendo la old school napoletana, non penso comunque che ci sia una vera rinascita. La cultura e la musica sono mestieri che devono portare economia e non so quanto lo facciano. C'è una certa energia, ma c'è il rischio di scivolare nel populismo. Io vorrei una Napoli internazionale, invece questo esaltare dei brand folkloristici non aiuta la sperimentazione vera. In questo momento Napoli non parla al mondo, ecco. Napoli negli anni '90 era musicalmente ricca: gli Almamegretta collaboravano con i Massive Attack e vendevano in Inghilterra, per dire. Adesso mi sembra che Napoli parli a sé stessa e questo non mi piace.

Sono i cambiati i luoghi di raccolta per gli amanti del rap e dell'hip hop a Napoli?
GM: Negli anni '90 ci si beccava in piazza. Adesso il confronto avviene durante le jam o le serate. Con i social network si punta più a fare un video e a caricarlo su YouTube, invece che a un confronto diretto.

Quali sono i luoghi che più vi siete divertiti a fotografare?
GM: La periferia. C'è un quartiere del Vomero che non conoscevo proprio e che si chiama Cavone. È pieno di vicoletti e lo trovo molto suggestivo.
PM: Tutti i luoghi della periferia: Marianella, Piscinola, Secondigliano, i posti di lavoro dei ragazzi.

Quali sono i tuoi rapper partenopei preferiti?
GM: Speaker Cenzou, la Famiglia, i Co' Sang. Mi piacciono poi molto i Kimicon Twinz, Vale Lambo e Lele Blade, Oyoshe, Emcee O' zì e Fabio Farti.
Tra gli emergenti giovanissimi, ci sono Vinz Turner e The Essence: due giovanissimi produttori che hanno un ottimo sound e una conoscenza musicale molto vasta per la loro età.
PM: Al momento mi piacciono molto Oyoshe, Dope One, Pepp-Oh, La Pankina Krew. L'ultimo album di Luché mi è piaciuto molto. I giovani lavorano con la testa, sono attenti alla melodia, a fare musica.

Siete a lavoro su altro?
GM: Io vorrei fare un reportage dell'Hip Hop Kemp a Praga.
PM: Vorrei strutturare un format: una piccola mostra che racconta il rap in Campania con foto sicuramente mie e di Gaetano, ma anche di altri. Il tutto accompagnati da rapper sempre diversi.

 

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L'articolo Il rap partenopeo è Core e Lengua di Raffaele Lauretti è apparso su Rockit.it il 2017-05-05 11:37:00

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