Questa è roba mia: 30 anni di Afterhours raccontati da Manuel Agnelli

Una lunga chiacchierata con Manuel Agnelli che parte dalla storia degli Afterhours, cominciata 30 anni fa nella palestra di una scuola, e arriva ai giorni nostri, col nuovo tour degli Afterhours e X Factor

1987-2017: da "My Bit Boy", il primo 45 giri degli Afterhours pubblicato da Toast Records, sono passati 30 anni, e la band di Manuel Agnelli festeggerà con un tour e un ospite speciale. L'occasione è buona per una lunga chiacchierata aperta con il frontman della band, che ripercorre 30 anni di attività e ci dà qualche anticipazione sulla nuova edizione di X Factor, che quest'anno lo vede a capo della categoria delle band.

Vorrei partire dalle celebrazioni per i trent’anni degli Afterhours. Ti chiedo, un po’ come quando si torna indietro con la memoria ai tempi dell'infanzia, qual è il tuo primissimo ricordo legato alla band.
Il primissimo ricordo degli Afterhours è la proto-formazione che addirittura è dell’ottobre dell’85, ancora non avevamo registrato nulla. Il primo concerto in assoluto fu in una palestra a Corbetta e fu una cosa stranissima, era una rassegna particolare: suonavano gruppi "rock", se vogliamo, ma noi eravamo talmente fuori rispetto al rock come era inteso allora in Italia che mi ricordo che il pubblico non sapeva se applaudire o fischiare. Fu una sensazione bella, inebriante, mi piacque subito il fatto di poter disorientare qualcuno. Ricordo anche che faceva un freddo cane, suonai col cappotto.

Se dovessi tracciare una linea del tempo immaginaria tra quel momento e oggi, quale sarebbe il momento più luminoso e quale il più buio della carriera degli Afterhours?
Ce ne sono stati tanti in entrambi i sensi. Il più luminoso, e lo dico un po’ da provinciale, è stato il concerto del 2006 a New York, all'Irving Plaza, perché avevamo fatto già qualche data sulla costa est ed erano uscite delle recensioni entusiastiche su di noi, per cui il locale, che teneva più di 2000 persone, era già sold out alle sette di sera: il pubblico era venuto presto per vedere noi. Questa sicuramente fu una delle più grandi soddisfazioni della nostra carriera, perché lì non c’erano la nostra storia e tutte queste palle a giustificare la presenza di tanta gente. C’eravamo noi che stavamo spaccando davanti ad un pubblico, quello degli Stati Uniti, che queste cose le ha viste spesso e volentieri, un pubblico abitutato a questo modo di fare musica. Mi ricordo ancora che sono tornato in albergo a piedi dopo il concerto, pioveva, 5 km sotto la pioggia perché ero entusiasta e pieno di adrenalina; fu un momento davvero magico per noi.
Il momento più buio invece è stato quando io e Giorgio Prette abbiamo deciso che non avremmo più suonato insieme. Anche se è stato giusto così, Giorgio è stato un compagno di viaggio per 25 anni. Sì, è stato un momento molto buio, molto triste.

Quindi i brani sono stati riarrangiati per il live?
Sì, ma non in maniera pesante. Li suoniamo come li suonerebbe questa formazione con i suoni di oggi, per cui è una cosa molto naturale. Però facciamo un sacco di pezzi che in tanti anni non abbiamo mai fatto e probabilmente i ragazzi più giovani che vengono adesso ai nostri concerti non hanno mai visto dal vivo. Ci piace anche questa idea di farli ascoltare a chi non ci ha mai visto prima.

Visto che il trentennale prende le mosse dall'uscita di "My Bit Boy", farete qualche brano in inglese?
Sì, qualcosa sì, ma il giusto, non vogliamo che sia una roba masturbatoria, vogliamo che piaccia a noi e anche al pubblico. Alcuni pezzi li abbiamo scelti perché il pubblico li vuole, lo dico senza problemi. Al contrario del tour di "Folfiri o Folfox", in cui abbiamo fatto in maniera quasi integralista tutti i pezzi dell’album, questa volta proprio con la stessa libertà vogliamo fare qualcosa per il pubblico, tipo "Strategie", "Dentro Marilyn", ma anche pezzi che secondo noi non possono mancare e che ci piace suonare. 

Compilare questa scaletta sarà stato come aprire un cassetto di ricordi e vi avrà portati a fare una cernita dei brani immagino, ma se tu dovessi scegliere una canzone e una soltanto da far sentire a chi non ha mai ascoltato gli Afterhours in trent’anni, quale sarebbe?
“Quello che non c’è”. Te lo dico senza esitazione, perché anche se musicalmente non è la canzone più interessante, visto che è una ballata molto classica, a livello di visione, di testo e di scrittura è uno dei pezzi più riusciti ancora oggi: non mi passa, ho sempre voglia di suonarlo e di cantarlo, questo qualcosa vorrà dire. Sono passati molti anni, è uscita nel 2002, l’abbiamo registrata nel 2001, probabilmente l’ho scritta alla fine del 2000. Ora che ci penso è un pezzo che ha un sacco di anni.

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Secondo te dopo X Factor il pubblico dei concerti degli Afterhours è cambiato?
In minima parte. Forse addirittura solo un 10% di curiosi arrivano da X Factor. In effetti è meno delle aspettative ma così ti rendi conto davvero che quello che facciamo noi Afterhours è molto ostico e nonostante la fama e la visibilità resta molto difficile da ascoltare. Il risultato che abbiamo fatto negli ultimi tour, compreso quello europeo, con parecchi sold out con dei biglietti veri, è un gran risultato per un gruppo che è in giro da trent’anni. Alla fine probabilmente questa cosa ha comunque risvegliato l’interesse di chi ci seguiva una volta ed era un po’ che non veniva ai concerti. C’è stata una sorta di senso di appartenenza, un po’ pungolato dal vedermi in televisione o dal vedermi tanto in giro, come se qualcuno dicesse “questi sono miei”.

È interessante questa cosa, come quando il tuo artista preferito va in copertina e invece di essere contento ti incazzi.
Da un lato c’è appunto la parte negativa dell’incazzatura, che secondo me è tremenda e anche un po’ provinciale, diciamocelo, e dall’altra c’è quella positiva che è quella dell’appartenenza, di quando uno vuole ribadire “questa è roba mia, è il mio mondo”. Io me lo ricordo con i Nirvana, per esempio quando uscì "Nevermind" erano un gruppo relativamente giovane e arrivavano dopo decine di altri gruppi che già facevano delle cose, però sono loro che hanno cambiato la storia della musica e il mondo della musica in quegli anni e mi ricordo perfettamente la sensazione di dire “ok, questo è il nostro mondo, è il nostro linguaggio, siamo noi che suoniamo così e ascoltiamo questi dischi e ci sentiamo così”. Ecco, per me questa è la parte più positiva e che sono felice di rappresentare.

E per quanto riguarda te a livello personale, di come ti fa sentire, qual è la più grande differenza tra il salire sul palco oggi e non dico trenta, ma almeno vent'anni fa?
Sono tante, veramente tante. La più grande differenza, che infatti mi porta a fare certe scelte, è che una volta salivo sul palco quasi esclusivamente per rappresentare la parte negativa di noi. Era una grande libertà: quello che non potevi essere tra la gente, perché era troppo negativo, troppo violento, troppo oscuro, troppo nichilista, sul palco potevi esserlo. Era liberatorio, era magico, mi è servito molto a sentirmi me stesso, a non sentirmi prigioniero di niente, né delle convenzioni, né delle cose che ci schiacciano. A crescere libero di testa se vogliamo. Questa cosa è sempre più difficile da fare perché può diventare un cliché: anche essere disturbanti e provocatori diventa uno stereotipo. Allora c’è stato un periodo della nostra storia, tra il 2002 e il 2005, in cui abbiamo tentato di distruggere anche quell’immagine di noi stessi, presentandoci sul palco con abbigliamenti davvero sciatti per combattere l’archetipo che volevamo da sempre combattere della rockstar e del gruppo alternative, però era una forzatura anche quella. Diciamo che oggi mi vivo con molta più naturalezza il fatto di stare sul palco, di fare quello che voglio. È molto più naturale il linguaggio che ho adesso, faccio quello che ho veramente necessità di fare finalmente, senza avere secondi fini, neanche quello di essere per forza originale o strano; vado sul palco a parlare di quello che sento in maniera molto molto libera.

Quindi possiamo dire che questo è il tuo momento più autentico?
Sicuramente sì. Ed è un obiettivo raggiunto. Direi che all’età che ho sarebbe stato davvero un fallimento recitare me stesso o rifare ciò che ero a vent’anni. Sarebbe stato veramente essere dei falliti.



Per dovere di cronaca devo provare a chiedertelo: chi sarà l'ospite misterioso del tour?
Non te lo posso dire (ride).

(l'ospite è stato svelato qualche giorno dopo la nostra intervista, leggi qui, ndr)

Lo immaginavo ma dovevo provarci. Almeno dimmi se è giusta questa intuizione: mi sembra che l'ospite sia nelle location più belle. Farete un documentario?
Quello che posso dirti è che l’anno prossimo organizzeremo un evento, due forse, e sarà più facile forse riuscire a produrre una cosa del genere. Fare un documentario fatto bene è una cosa che ti distrae tantissimo dal tour, invece noi vogliamo viverci questa cosa con leggerezza, fare i concerti senza pensare ad altro. Con l'ospite le date sono state scelte per comodità logistica: sono vicine tra loro perché vogliamo vivere questa esperienza con una certa continuità oltre che con una certa intensità. Fare una data ogni dieci giorni non ti fa prendere il ritmo, invece riuscire a fare delle date consecutive ti permette di viverti il momento e a livello personale è un po’ più intenso.

Insomma questo dei trent'anni è un bel traguardo, secondo te c’è un’altra band in Italia che può aspirare a raggiungerlo? Chi è secondo te che potrebbe avere una carriera così duratura?
Credo che Vasco Brondi, non so se facendo musica o altro, sia una persona che probabilmente rimarrà nel tempo. Credo che Vasco sia uno che ha il coraggio di essere totale, intenso, anche quando sfiora il grottesco, ha il coraggio però di provarci, ha il coraggio di essere. Questa cosa qui nella sua generazione e in quella dopo la vedo rara come dote e quindi se devo fare un nome faccio il suo. Penso che la musica c’entri tanto ma c’entri tanto anche l’attitudine con la quale ti poni rispetto ai cambiamenti, rispetto ai tempi che stai vivendo, e poi c’entra anche tanto la forza e la potenza del messaggio che lasci.

Quest'anno c'è un altro anniversario importante per gli Afterhours, il ventennale di "Hai paura del buio?". È un disco considerato fondamentale da pubblico e critica, un vero spartiacque per la musica italiana. È una bella eredità con cui confrontarsi.
È un’eredità che è meglio avere piuttosto che non avere. Io mi ritengo privilegiato e fortunato ad avere questo tipo di considerazione, sono molto sincero su questo. Sono molto orgoglioso anche se è vero che è un disco pesante, anche perché i confronti sono sempre con quel disco. Sono però talmente contento delle cose che stiamo facendo adesso, della libertà generale della quale sto godendo adesso, dell’interesse che ho e del fatto che sono riuscito ancora una volta a cambiare vita a cinquant’anni, che per me è solo un orgoglio avere questo tipo di considerazione. In ogni caso quello che mi interessa è celebrare proprio il percorso, l'idea di festeggiare il compleanno di un disco non mi interessa molto.


Però in questo momento lo stanno facendo molti tuoi colleghi come i Diaframma, Niccolò Fabi, Cristina Donà, i Marlene Kuntz, anche Mauro Ermanno Giovanardi sta per pubblicare un album tutto dedicato alla musica degli anni '90. Quando me l'ha raccontato non ero molto convinta, mi sembrava una cosa da nostalgici. Invece poi ho ascoltato le tracce e credo che sia un disco meraviglioso.
Io sono contento che tu mi dica questa cosa perché in realtà la differenza, e non voglio adesso parlare come farebbero i baroni della musica (ride), è vero che la fa la musica. Possiamo fare tutti i discorsi che vogliamo però poi è sempre quella la cosa importante, per fortuna. Comunque penso che non ci sia niente di male, e anzi mi rendo conto che i tempi sono definitivamente cambiati. Andando in televisione, parlando con un po’ di gente, ho realizzato che c’è stata una frattura tra ciò che noi davamo per scontato e ciò che ora invece viene percepito: i gruppi di riferimento, il tipo di musica. Ci sono degli artisti che lo fanno per risottolineare la centralità di un certo tipo di musica e magari del loro album, mi sembra un bel modo per fare comunicazione, non la trovo una cosa né autoreferenziale, né pesante.

Tornando ancora indietro, "Germi", a parte l’ovvietà del passaggio all’italiano, è il disco che se uno pensa alla carriera degli Afterhours, inizia a pensarla proprio partendo da lì, come se fosse il vostro primo album.
Sì, è vero. Però è una percezione che vivo in maniera positiva perché è vero che è stato un disco per noi fondamentale. “Hai paura del buio?” è esistito solo perché prima c’era stato "Germi". Credo davvero che sia stato una svolta, anche se poi la svolta vera e professionale è arrivata con “Hai paura del buio?”, quando la gente ha iniziato a seguirci. I dischi prima erano seguiti da poche centinaia di persone, e anche i concerti di conseguenza erano davanti a cento, duecento persone al massimo. Non saprei perché, probabilmente davvero l’italiano ha contato tanto nel riuscire a trasferire un certo tipo di modo di vedere la musica. Il pubblico forse semplicemente capiva le parole che stavo cantando. Credo che sia una cosa meno scontata di quanto si possa pensare. Capirsi vuol dire tanto, soprattutto se parli di pubblico e musicisti. Per me è cambiata la vita da quando ho iniziato a cantare in italiano, pensa che cantando in inglese neanche gli stessi membri della band capivano bene cosa stessi cantando io (ride).

Se ci pensi questa è una cosa che è rimasta, perché in fondo chi fa successo in Italia adesso è sempre e comunque chi canta in italiano. I progetti di musicisti italiani che cantano in inglese non riescono mai ad arrivare al grande pubblico.
Sì, al di fuori di alcuni circuiti, come quello della dance o forse di un certo tipo di elettronica, però sì, non stiamo parlando di successo di massa. Non ci deve essere un obbligo tra italiano e inglese, però è abbastanza naturale che quando parli la stessa lingua del tuo pubblico sei più potente, c’è più immediatezza, è più facile riconoscersi. Ci sono mercati come quello tedesco, francese e spagnolo che hanno successi interni fortissimi con gente che canta in tedesco, francese e spagnolo. Noi guardiamo sempre in maniera molto provinciale all’Inghilterra e agli Stati Uniti ed è vero che se vuoi uscire dall’Italia devi parlare una lingua internazionale e l’italiano non lo è, ma è questa voglia di uscire dall’Italia prima ancora di cambiare quello che c’è in Italia che un po’ mi stupisce. Anche noi eravamo tentati di andare negli Stati Uniti ad un certo punto, ma in Italia la scena cominciava a cambiare così velocemente che rimanere qua era nettamente più galvanizzante. Partecipare ad un cambiamento anche solo di costume qui in Italia era mille volte più interessante che essere un altro gruppo, per quanto distintivo, negli Stati Uniti. Avevi una funzione sociale, era meraviglioso. Questa cosa qua vorrei che fosse la spinta anche per molti gruppi che nascono oggi: non solo raccontarsi, non solo farsi conoscere nel mondo, che non c’è niente di male, ma prima di tutto parlare alla gente che ti circonda, magari cambiare la realtà nella quale vivi se non ti piace.

Sono d’accordo con te. Ci sono molte band che dal vivo sono meravigliose e ogni volta che le vedi ci resti secco, e a quel punto non conta più se siamo 200 o 2000.
Esattamente. Ed è la parte non dico sana, ma è la più potente che ti porta ad essere un musicista. Se arriva il successo tanto di guadagnato perché hai soltanto più mezzi per fare quello che vuoi, ma devi gestirlo: se non ci riesci il successo ti contamina, ti inquina, ti sporca, in qualche modo ti cambia. Però tanto cambiamo lo stesso, quindi se sia per un motivo o per un altro non è poi così grave. 

ll vostro primo 45 giri "My Bit Boy" uscì per la leggendaria Toast Records, che all’epoca era un bel punto di riferimento. Che ricordi hai di quel primo contratto?
Ricordi fantastici perché per noi andare a Torino era già un grandissimo risultato. Uscivamo dalla nostra città, che sembra una stupidaggine oggi, ma per noi allora era già un risultato raggiunto. A Torino inoltre c’erano delle realtà musicali non indifferenti e anche dal punto di vista geografico, per dei ragazzini, prendere la macchina e andare verso ovest per firmare un contratto discografico, il primo della loro vita, era una cosa abbastanza romantica. L’etichetta per quanto storica era una roba molto piccola e improvvisata. C’era molto romanticismo nell’intraprendere quel tipo di strada. Lo ricordo con una vena romantica, ma era un periodo molto difficile per chi volesse far musica: era durissimo farsi accettare e trovare dei posti dove suonare, quindi sinceramente non ho dei ricordi malinconici, non rimpiango quel periodo.   

Sono le stesse difficoltà che ti racconterebbe qualsiasi band contemporanea "normale", anche se il concetto di gavetta è molto cambiato da allora. A questo proposito quest'estate abbiamo visto Andrea e Eva, due dei tuoi concorrenti di X Factor, fare cose da band "normali": cartelloni pomeridiani dei festival, aperture dei concerti altrui...
Quello che io vorrei chiarire è che il talent non ha la responsabilità del dopo. Il talent è un super cannone che usato in un certo modo può contribuire a diffondere un’idea di musica piuttosto che un’altra, o spingere un talento piuttosto che un altro. E come al solito non è mai il mezzo ad avere la responsabilità, ma chi lo usa. Non solo dei giudici, ma anche gli autori e i giovani che si presentano. Alla fine noi abbiamo davanti, per usare una brutta espressione, del materiale umano che ogni anno cambia e potrebbe non corrispondere esattamente alle nostre aspettative, però spesso c’è del talento, e il nostro compito è quello di trattarlo questo talento. Usciti da lì, la responsabilità è dell’artista stesso prima di tutto, dell’etichetta discografica, del management, dell’agenzia, dei promoter: la responsabilità si sposta a tutto il resto del sistema. Fare questo distinguo mi serve per dirti che le persone che ho scelto io le ho scelte perché pensavo potessero fare un percorso anche al di fuori del talent e continuerò in questo senso. Il talent porta i concorrenti ad un livello tale che fanno fatica a mantenerlo fuori, ma è assurdo dire “mi hai dato una spinta troppo forte”, è il resto del sistema che deve continuare a spingere con la stessa forza. Io scelgo gli artisti che voglio seguire in base al fatto che possano portare a compimento un disco musicale legato alla necessità di esprimersi. Quest’anno con le band sono in dubbio su chi portare avanti: porto avanti quelle che mi permettono di fare un discorso identitario molto forte e di rappresentare quello che penso della musica esteticamente, o porto avanti i talenti più forti, anche se non c’entrano niente col mio discorso identitario e forse non c’entrano niente neanche col mio modo di pensare la musica?

C’è stato qualcuno che sai già che hai lasciato a casa nonostante fosse veramente forte?
Sì, ma non posso fare i nomi. In quel caso se mi piacciono veramente tanto ma non li trovo adatti a quel tipo di contesto (perché così sì che gli faresti veramente male, se non fossero adatti e li buttassi in quel tipo di contesto) spesso gli dico di contattarmi al di fuori della trasmissione. Io non è che possa fare chissà cosa, ma qualche consiglio posso darlo con trent’anni di esperienza.

Un giusto compromesso tra identità e numeri non l'hai ancora trovato?
Anche questo è un discorso delicato, perché prima di tutto non sono convinto che bisogna fare grandi numeri e su questo c’è già una discussione aperta a X Factor. Sicuramente mi importa spingere molto di più l’identità di un artista, il fatto di poter fare musica liberamente senza dover per forza sottostare al ricatto dei numeri o degli stadi: c’è questa distorsione che se non hai riempito uno stadio non puoi esprimere la tua opinione. Se ci pensi bene la realtà però vuole una cosa del tutto diversa. Noi andiamo a votare alle elezioni politiche e magari votiamo personaggi che sono molto più ricchi e colti di noi e la cosa incredibile è che non dobbiamo giustificarci quando li votiamo, è un semplice diritto esprimere la propria opinione. Succede la stessa cosa nella musica: non devo per forza aver riempito Wembley per dire che il tuo disco mi fa schifo. È una delle più grosse libertà che abbiamo.

Ultima domanda, una curiosità personale. Come ti stai trovando con Mara Maionchi?
Ero molto scettico perché Mara è una discografica, quindi pensavo avesse quella visione che ti dicevo prima, cioè che la musica deve vendere, altrimenti non ha senso farla. Conoscendola bene mi sono accorto che è una persona con una grande umanità, una grandissima intelligenza e una grandissima cultura musicale nel suo ambito, che è molto vasto. Magari non ne sa molto di underground però ne sa a pacchi sulla musica italiana, anche quella più colta: Ciampi, Tenco… Lei c’era, ci ha lavorato con alcuni di questi. Se ci deve essere una rappresentante della discografia, lei ha le carte per poterlo fare. C’è un grande rispetto reciproco e ci troviamo d’accordo su un sacco di cose.

Ti piace Levante? Hai ascoltato delle cose sue?
Io la conoscevo da molto prima, le avevo già commissionato dei pezzi per Eva. Levante per me è una delle più brave autrici della sua generazione e un’ottima cantante. Sono molto contento che ci sia lei perché questo è un altro segnale, molto forte, un altro rischio, un’altra sconosciuta per il grande pubblico. Senza essere estrema appartiene a un mondo che non è soltanto quello del mainstream. Io spero che queste cose vengano lette. Potevano chiamare Gianna Nannini o Ramazzotti o Tiziano Ferro. Il pubblico pensa che sia una questione economica, che questi giudici costerebbero troppo, ma non è così.

Io l'ho letta come una questione di posizionamento.
Sì, io credo che il talent si sia esaurito come formula e che gli autori lo abbiano capito perché sono più avanti degli altri. Stanno cercando di rinnovare il format per rinnovare il senso del programma in una direzione sempre più musicale. Penso che ci sia uno sforzo da parte di tutti per rinnovare la cosa e per far sì che possa essere utile a tutti.

 

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L'articolo Questa è roba mia: 30 anni di Afterhours raccontati da Manuel Agnelli di Chiara Longo è apparso su Rockit.it il 2017-07-24 12:00:00

COMMENTI (13)

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  • zapotec 7 anni fa Rispondi

    ACAB

  • fabio.morici.79 7 anni fa Rispondi

    oh finalmente qualcuno che fa delle belle domande e ricveve delle risposte complete ed intelligenti

  • virgola1972 7 anni fa Rispondi

    Bella intervista! Ma nn è ancora chiaro cosa faranno alla fine di questo tour estivo e se avremo l'onore di altri concerti il prossimo anno, certo posso solo sperare

  • vanabass 7 anni fa Rispondi

    @lamboscop non ho ben capito la domanda, ma diciamo che tendenzialmente, almeno finché lavorerò a Rockit, difficilmente mi troverò ad intervistare D'Alessio. Certo, mai dire mai nella vita.

  • lamboscop 7 anni fa Rispondi

    si vede che ti piace chi intervisti, ma cosa chiederesti a Gigi D'Alessio?

  • vanabass 7 anni fa Rispondi

    Grazie a tutti, quando il soggetto è interessante è tutto più facile :)

  • simonon85 7 anni fa Rispondi

    Complimenti Chiara per le domande, intervista molto interessante.

  • sushiside1 7 anni fa Rispondi

    Finalmente gli hai saputo tirar fuori qualcosa di interessante

  • yedduzzo1 7 anni fa Rispondi

    Notevole, grazie davvero

  • attlaz2179 7 anni fa Rispondi

    Gran bella intervista!! Complimenti!!