L’ego gigantesco di Ghemon: ascolta il nuovo album e leggi l'intervista

Un amore finito, la depressione, il rap italiano. Una lunga chiacchierata con Ghemon per l’uscita del nuovo album “Mezzanotte”.

Oggi esce “Mezzanotte”, il nuovo disco di Ghemon. È un album difficile e complesso, sia dal punto di vista tecnico - le linee melodiche, i registri canori scelti, il numero di musicisti coinvolti - sia da quello emotivo. Racconta di una storia d’amore finita e lo fa mettendosi a nudo nella maniera più intima - è inevitabile, dice - e con una sensibilità rara. All’inizio lo trovi pesante, ma poi capisci che dischi capaci di scavare così a fondo nei sentimenti umani ce ne sono pochi. Lui ci parla di depressione, di quel momento dove usciva ogni sera con una donna diversa ma non andava mai oltre la prima birra, di Nino D’Angelo, di Liberato, dell’Avellino Calcio, della scena rap italiana e di quella foto scattata in gita alle superiori che, poi, avrebbe definito tutta la sua carriera. La nostra intervista.

“Mezzanotte” è molto più complesso rispetto a “Orchidee”, sei d’accordo?
“Mezzanotte” è più sofisticato di “Orchidee”, ci siamo concentrati di più sui dettagli. Non si trattava solo una scelta “di maniera” ma una vera esigenza perché in questi anni la mia forma canzone è andata avanti. In più è capitato in un momento di vita piuttosto tosto, se uno ascolta il disco con attenzione lo capisce.

Diciamo che se in “Orchidee” si intravedeva una relazione appena nata, da “Mezzanotte” si intuisce che poi non è andata a finire bene.
Sì, è finita. Non credo ci sia un’alternativa al mettere la mia vita nelle canzoni che scrivo, lo trovo inevitabile. Difficilmente riascolto la mia musica ma, scavando tra le mie prime canzoni, mi sono reso conto che già in passato avevo affrontato determinati problemi in maniera altrettanto intima, ho davvero capito che alcune cose le devo proprio processare scrivendo. 

Quanto ci hai messo?
Sostanzialmente un anno e mezzo. Tolto i primi mesi dove ero bloccato per i vari problemi che ti accennavo, poi ho ingranato la marcia e si è instaurato un rapporto molto stimolante con i miei musicisti, gli stessi che mi avevano già seguito nel tour di “Orchidee”. Alla fine sono usciti 30 pezzi di cui, poi, abbiamo scelto i 14 definitivi. È stato un lavoro molto complesso, volevo arrivare ad una forma di scrittura davvero solida.

L’indipendenza è una cosa, l’autonomia è ben altro” è una bella frase, ne vogliamo parlare?
Proviene da una chiacchierata molto bella con una persona che all’epoca era la mia terapeuta. Avevamo fatto una differenziazione delle fasi della vita, in particolare nel rapporto con i genitori o con coloro che consideri delle autorità. Vedi? Che tempismo… (suona il telefono, è suo padre, NdA)

Rispondi pure se vuoi.
Lo richiamo dopo, non preoccuparti. Quando sei piccolo dipendi inevitabilmente dalla tua famiglia, nell’adolescenza c’è la fase di contro-dipendenza dove tu cerchi di rompere questo schema, poi arriva l’indipendenza dove trovi la tua vita ma, in qualche modo, la radice è sempre collegata; il vero e proprio distacco arriva quando diventi uomo e questo, in genere, manda in sofferenza i genitori perché capiscono che ormai sono davvero soli. In gergo questo sentimento si chiama feelings of emptiness, mi pareva più che coerente con il senso di quella canzone.

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Nelle canzoni citi gli attacchi di panico e la depressione, tutte cose vere immagino.
Sì, assolutamente. Sono cose che ho dovuto prima conoscere a livello medico per poi capirle e accettarle. Dopo un primo momento dove ho tenuto tutto per me, poi ho iniziato a parlarne con chiunque. Non è per bullarmi, ma sono uscito con tantissime donne diverse, spesso anche solo per una birra, di solito nessuno superava mai lo scoglio dei due appuntamenti con me.

Sei così difficile?
Ero bello difficile, sì. Non mi sentivo pronto. Tutti questi appuntamenti però mi hanno restituito un senso di realtà importante. Ho capito che è un problema comune: c’era chi aveva avuto un caso in famiglia, chi soffriva di attacchi di panico a scuola, ecc. Sono cose che ai tempi dei nostri genitori venivano nascoste dentro le pareti di casa, oggi invece è diverso, la depressione è considerata una malattia come le altre. Ho anche scoperto che ci sono molti artisti, soprattutto all’estero, che si impegnano per sensibilizzare l’opinione pubblica a riguardo. Sentivo che potevo fare la mia parte anche io.

Che intendi dire?
Sono tanti i ragazzi che vengono da me e mi dicono, probabilmente esagerando, che le mie canzoni gli hanno salvato la vita. Non voglio dire che io li possa davvero aiutare, ma se condivido determinate cose nei miei pezzi magari chi mi ascolta e ha il mio stesso problema può sentirsi meno strano e capire che in ognuno di noi c’è una parte debole, ma anche quella che cerca la rivalsa.

Nelle tue canzoni queste due componenti sono sempre presenti, nello stesso brano ci può essere un’anima più rabbiosa e un’altra dove mostri il fianco. Non tutti riescono a raccontare così bene entrambe le cose, sai?
Ti ringrazio. Sono due anime che in qualche modo convivono quando bisogna affrontare una relazione che finisce. Per me è stato molto spontaneo, non ho mai pensato a che cosa dovessi dire o a che stile usare, dovevo dirlo e basta.

Non hai una scrittura semplice, usi termini ricercati e uno stile sempre molto elegante. Ti è venuto così nauturale?
Ti assicuro che è stato davvero spontaneo, anche negli altri dischi era andata così. Di solito, poco prima di registrare, faccio una sorta di revisione - vedo se ci sono parole che si ripetono o termini un po’ banali - ma non sono il tipo che lavora di lima per mesi sullo stesso pezzo.


Qual è stato il ruolo di Tommaso Colliva in questo disco?
Tommy mi ha dato molti consigli e ho sempre tenuto il suo parere in grande considerazione. Dopo “Orchidee” non mi ha mollato un attimo: ogni volta che usciva un disco nuovo importante - “Black Messiah” di D’Angelo, i due album di Kendrick Lamar, “Blonde” di Frank Ocean, “Awaken, My Love!” di Childish Gambino, ecc. - ci telefonavamo per dirci le nostre impressioni. Mi ricordo che un giorno gli ho detto “non ho più il completo di Missoni, ho molti più tatuaggi, sono più sudato e vorrei che si sentisse un po’ di punta di cazzo”, che in italiano non sembrerà una frase così poetica ma per me rappresenta bene quel testosterone buono che ti arriva come un ceffone anche se il pezzo è elegante.

Infatti ci sono alcuni pezzi molto sensuali che potrebbero essere chiamati il momento “chiodo schiaccia chiodo” del disco. È difficile scrivere canzoni così?
Madonna se è difficile. Nella cultura afroamericana, o più in generale in quella anglosassone, parlare di sesso in maniera esplicita è molto più facile, mentre in Italia bisogna sempre ricorrere ad immagine più poetiche.

In Italia chi è il migliore?
Oddio, di nomi ce ne sono sicuramente ma, al momento, non saprei sceglierne uno in particolare. Va detto, però, che in Italia anche la canzone più “sudata” ha comunque una velatura romantica e va verso quest’immagine di “donna Madonna” che bisogna sempre rincorre.

“Mezzanotte” è a mio avviso la canzone più cattiva dell’album perché ti sbatte in faccia uno dei momenti più difficili da superare quando finisce una relazione, il ricordo del sesso con la propria ex. È per questo che l’hai scelta come titolo del disco?
In realtà l’ho scelta perché quella parola può essere una bella fotografia di molte cose. C’è un modo di dire campano che dice “più buio di mezzanotte non può fare”, non può andare peggio di così. Rappresenta bene l’anima bianca e l’anima nera dell’album. Penso che  sia una delle più cattive che abbia mai scritto, se la meritava una canzone così, forse anche peggio di così. È una persona che fa parte del mondo dello spettacolo - di cui ovviamente non farò mai il nome - spero che l’ascolti.

Quante volte ti sei innamorato nella vita?
(lunga pausa) Non lo so, contando adesso che sono innamorato, direi tre.

La nuova relazione non ha avuto spazio nell'album, vero?
No, è arrivata dopo. I pochi momenti di luce, “Quassu” ad esempio, rappresentano più una speranza che un vero momento di felicità.

Siamo d’accordo sul dire che è un disco decisamente pesante e che qualche canzone pop in più avrebbe aiutato?
Qui trovi tutto quello che mi è passato per la testa in quei mesi. Non sono così avanti nella scrittura da poter calcolare che un determinato ritornello possa essere pop o meno, non sono così diabolico.

Ti interesserebbe riuscirci?
Non me ne frega niente. Non è per fare il duro è puro, non lo sono mai stato. Non dico mai che determinate cose - magari più semplicistiche e banali - siano la merda mentre la mia è la musica di qualità che dovrebbe finire in classifica. Nutro un’invidia sana verso chi ha successo, magari sarebbe bello che nel nostro mercato ci fosse il posto per più cose diverse, quello sì, ma non mi lamento. Al momento il mio primo interesse è ottenere un ibrido musicale vicino a tutto quello che ho sempre ascoltato ma cantato nella nostra lingua in modo credibile. Problemi personali a parte, l’italiano è stato davvero lo scoglio più difficile da superare in questo disco.




La tua voce sembra spesso tirata e spinta oltre il tuo normale registro canoro, è così?
Devi sapere che la passione per il soul ce l’ho sempre avuta. Ho una foto di una gita all’ultimo anno di scuola dove ho in mano “Vodoo" di D’Angelo, quello dei Basley Click e un altro di JDilla. È un’immagine perfetta di tutto quello che sarebbe venuto dopo. Con i soldi dei regali dei diciott’anni avevo comprato un piano Rhodes, nella mia testa la direzione era proprio quella di D’Angelo. Insomma, il mio ritorno al soul è stato fin troppo rimandato. Ho scritto “Orchidee” senza aver la minima conoscenza delle mie capacità e dei miei registri, poi ho conosciuto Beatrice Sinigaglia, la vocal coach della mia corista Alessia, è mi ha sbloccato su moltissime cose.

Tipo?
Prima che sulla voce ha lavorato tantissimo dal punto di vista psicologico e mi ha aiutato a sbloccarmi quando credevo che determinate cose non le sapessi fare. Ha alzato sempre di più l’asticella, ad un certo punto mi ha chiesto di prepare delle canzoni di Pino Daniele e così ho capito che potevo arrivare anche a quel livello. Non dico di essere bravo come lui, è chiaro, ma ho capito che ho una voce molto più simile alla sua rispetto a quanto credessi.

Rancore diceva “fai il tuo mestiere bene, ma non scadere nella follia” descrivendo l’ossessione di chi sente il bisogno di superarsi continuamente. A te è capitato?

C’è il rischio di diventare pazzi, è vero. C’è una parte di me che mi ha sempre spinto ad andare oltre i limiti prefissati, ma sono fatto così e sono convinto che, alla lunga, paghi. Chiunque metta il cuore il nelle cose vuole sempre migliorare. Io a volte sono esagerato e sono fin troppo duro con me stesso, dovrei imparare a darmi più respiro.

Domande scontata ma che va fatta, ritornerai mai al rap?
“Mezzanotte” è disseminato da tanti piccoli elementi che rimandano al rap e l’ultima “Kintsugi” e una canzone rap a tutti gli effetti. Se invece intendi mescolare la musica suonata ad elementi più elettronici tipici del rap, non lo escludo, ma al momento sono più concentrato su altre cose.

Tra i nuovi artisti rap/trap c’è qualcuno che ti piace?
No.

Risposta un po’ troppo categorica, no?

A parte provare simpatia per Ghali, come tre quarti delle persone che conosco, del resto non mi frega quasi niente. Non mi interessa fare polemiche inutili, non è hating, semplicemente non riesco a trovare nulla di così emozionante nel rap italiano di oggi. Difficilmente mi parte il cosiddetto brivido sulla schiena, oppure ci sono progetti che sembrano anche interessanti ma, una volta capito gli elementi con cui giocano, mi annoio subito.


E se invece parlassimo di D’Angelo, quello vero, Nino?
(ride) Non l’ho mai ascoltato così tanto, sai? In casa si sentiva di più Murolo, Carosone e un tipo di canzone napoletana più classica. Nino andava già verso una musica più moderna che sarebbe poi diventata la base dei neomelodici.

Di Liberato che ne pensi?
Mi è piaciuto. L’immagine, i video, come hanno comunicato il tutto, è davvero un progetto figo, ma non l’ho trovato così rivoluzionario come l’hanno descritto in molti. Sono contento che chiunque, dai miei amici di Avellino fino alle persone che incontro in fila alla posta, lo conoscano e cantino i singoli ma, sarà perché sono campano o perché sono abituato da tempo e sentire certe sonorità nella musica americana, non mi è sembrato così innovativo.

Hai festeggiato per la promozione del Benevento?
No, sono contento che una società del sud vada in serie A ma, da avellinese, io gioisco solo per la mia squadra (ride).

Com’è il rapporto con i tuoi fan?
Buono.

Sbaglio se dico che ti fai vedere solo per lo stretto necessario e, una volta finito il periodo promozionale, sparisci?
Succede nei momenti in cui mi sento più vulnerabile. Magari mi sono mollato con la tipa, sto affrontando un cambiamento, oppure ho preso 10 chili perché è tornata la depressione. Non sono molto bravo a mentire, anzi, non sono proprio capace. Se mi fai una domanda te ne accorgi se ti sto dicendo una bugia.

Sei uno di quelli che se gli si domanda come sta, risponde che è una domanda difficile?
(ride) No, magarti dico “tutto bene” poi scopri invece che sono preoccupati per me perché mi hanno trovato tremendamente triste. Sono un libro aperto.

Tenendo presente che le tue emozioni del momento entrano sempre a gamba tesa negli album che stai scrivendo, è difficile per te fare piani a lungo termine?
No, anzi, il problema è che io penso sempre avanti. Adesso sto già pensando a quando potrò ritornare in studio per lavorare alle idee nuove. Quest’intervista potresti intitolarla “L’ego gigantesco di Ghemon”: fin da piccolo ho sempre provato una grande fascinazione per gli entertainer a tutto tondo, ora direi che è abbastanza concreta l’idea che possa scrivere un libro, mi piacerebbe fare l’attore ed è da tempo che raccolgo appunti per un possibile spettacolo di stand up comedy. Sono stato invitato ad alcuni festival letterari e devo dire che raccontare me stesso davanti a un pubblico, che magari non mi conosceva nemmeno, mi è piaciuto molto.

Da perfezionista quale sei, non ti spaventa l'idea di uscire così tanto dalla tua comfort zone?
Al contrario, ho scoperto che mi rassicura. Non diventerò mai Gassman o Louie C.K., è chiaro, ma ho capito che possono esserci vie mezzo altrettanto interessanti. All'inzio era così anche per il canto: prima credi che se non sei Stevie Wonder allora sei uno zero, poi scopri che ci sono degli step intermedi che non solo vanno bene, ma sono anche molto più belli e stimolanti. Ora la mia preoccupazione è scrivere canzoni nuove. Voglio che la mia voce sia sempre più riconoscibile, non per forza deve seguire le mode del momento ma deve essere attuale. Voglio proprio stupire tutti. Sono un sognatore, farò le cose per bene.

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L'articolo L’ego gigantesco di Ghemon: ascolta il nuovo album e leggi l'intervista di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2017-09-22 08:10:00

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