Il rap italiano racconta la realtà: intervista a Paola Zukar

Ha pubblicato il suo primo libro "RAP - Una storia italiana" ed è dietro tutti i maggiori obiettivi raggiunti dal rap italiano degli ultimi 20 anni: ecco chi è Paola Zukar, la signora del rap italiano

Tutte le foto sono di Cosimo Nesca per Rockit.it
Tutte le foto sono di Cosimo Nesca per Rockit.it
13/12/2017 - 11:52 Scritto da Carlotta Fiandaca

Paola Zukar è la signora del rap italiano. Presente sulla scena dagli anni '90, inizia con progetti indipendenti, collabora con le più grandi case discografiche e fonda la Big Picture Management, agenzia che produce artisti come Fabri Fibra, Marracash e Clementino. All'inizio del 2017 pubblica RAP – Una storia italiana”, il suo primo libro. L'abbiamo incontrata nella sede di Big Picture per farci raccontare tutto.

Nel tuo libro prendi in considerazione la storia del rap italiano dal 2006 al 2016. Partiamo da quando finalmente il rap arriva, anche grazie a te. Con un “effetto palla di neve”, come lo definisci tu, travolge tutto e tutti (anche Rockit.it e il MI AMI Festival dove nel 2011, un po' in ritardo, abbiamo voluto e dovuto aggiungere un palco per il rap). Eppure, nonostante questo, avete avuto enormi difficoltà con le radio che non capiscono e i giornali che non osano. 

Questo è un bell'argomento. È tutta la tesi del libro: l'Italia è un paese tradizionalista che non accetta facilmente i cambiamenti, che è spaventato dai cambiamenti. Purtroppo siamo finiti in un'era in cui ci sono solo cambiamenti. Perché se pensi agli ultimi anni, dalla fine della guerra mondiale, dal 1945 e cioè da quando è iniziata questa lunghissima era di pace, ci sono stati milioni di cambiamenti, pacifici, ma estremi. Uno su tutti direi la tecnologia. Ecco, anche in questo l'Italia è un po' il fanalino di coda, perché abbiamo paura dei cambiamenti, perché siamo molto chiusi, viaggiamo poco, non sappiamo le lingue, al contrario degli altri paesi europei; e meno male che appunto c'è la Grecia che ci copre sempre. Siamo noi e la Grecia; una volta erano la Grecia e la Spagna, invece poi la Spagna è partita e noi siamo rimasti un po' col cerino corto.

Il rap, come tutte le cose che vengono da fuori e che hanno delle enormi componenti innovative, ha fatto molta fatica a imporsi perché stravolge il concetto di musica tradizionale italiana. È proprio l'opposto se ci pensi, per tutto. Per canoni, per forma, per contenuti, artisti/personaggi; tutto è una cosa nuova nel rap rispetto a quello a cui eravamo abituati. Questo cambiamento non è stato facile, quindi. A me sembrava impossibile che questa musica non avesse un riscontro in Italia perché è davvero la cosa più giusta per descrivere il momento storico che stiamo vivendo, già da vent'anni. È iniziata timidamente perché è stato molto difficile tradurla, e non siamo nemmeno stati aiutati sotto il profilo linguistico puro e semplice. Mentre il francese si presta di più per stare sui quattro quarti, sui beat, l'italiano no. Quindi ci sono voluti tanti tentativi di alfabetizzazione del rap in italiano.
Ci sono voluti più anni che all'estero, però oggi finalmente il rap è una parte molto importante del mercato musicale. Ci sono voluti diversi passaggi, diverse fasi contrastate proprio per questo essere italiani. Ma poi alla fine la barriera ha ceduto.

Visto che stiamo parlando dell'Italia e della storia del rap, una cosa che mi ha fatto sorridere è che il primo a investire soldi veri sul rap in Italia sia stato un francese.

È andata proprio così. Quando è uscito “Mr. Simpatia(2004, Fabri Fibra, ndr) è stato deflagrante tra la gente, senza nessun supporto e nessun timbro o certificazione di alcun tipo; si è espanso come un virus, un blob, ha travolto tutto e tutti con il passaparola e basta. E internet. Ma non internet nel senso di blog o siti; la gente se lo passava lì sopra. Me lo ricordo, ero già in questo ambiente e mi pareva impossibile che un album così forte non venisse certificato. Quindi da lì, per mille casi strani di allineamenti di pianeti sono finita proprio nella casa discografica più giusta nel momento più giusto per proporlo ai vari discografici italiani. Ti dico la verità, i primi discografici italiani a cui l'ho proposto l'hanno rimbalzato. Più di uno. “Troppo violento, troppe parolacce, non si capisce, ma perché? Non c'è una canzone, non c'è una melodia, non c'è, non c'è...”

Quello che non c'era era chiaro, però quello che c'era...

Di quello che c'era non riuscivano, come dire, ad afferrarne il significato. Fino a che la fortuna, veramente non da poco, è stata che nel 2006 arriva questo presidente di Universal Music France (Pascal Nègre, ndr) che era molto abituato a trattare con il rap perché la Francia è stato il primo paese europeo ad abbracciare il rap, quasi più dell'Inghilterra se vogliamo; è maturato molto ed è senz'altro la punta del rap europeo, anche se anche noi stiamo andando benino. Però fu proprio lui a dire “Non esiste che Universal, che è una multinazionale mondiale, non abbia dei rapper italiani, quindi: chi c'è?”. Io ero lì con il demo di “Tradimento” di Fabri Fibra e fui lui a dire: “Adesso investiamo su questa cosa. E andiamo avanti su questo”. È stato un enorme aiuto, proprio la sliding door che ci voleva.



Il rap si sta di nuovo trasformando, in maniera naturale, segue l'andamento della società: sono emersi i rapper di origine straniera e la trap sta conquistando molti. Sembra tutto più morbido, più modaiolo, più cool; complici i social, i nuovi rapper sono più attenti all'estetica in tutti i sensi. Sono completamente diversi da chi c'era già.

Sì, sono completamente diversi ma hanno comunque dei canoni che rispecchiano il rap 2017.
Anche io sono nata con un tipo di rap che era completamente diverso. Pensa all'immaginario di EPMD, di questi grandi rapper americani degli anni '80-'90 che erano veramente molto diversi. Ma credo che questi ragazzi mantengano quel fattore controverso, fastidioso, che attira l'attenzione. Guè usa il termine abrasivo per la trap e io mi ritrovo molto in questo aggettivo. Non è roba strettamente per me, la trap, anche se ti dico la verità ci sono alcune cose veramente pregevoli. Anche a livello di testo, come alcune assonanze. Per esempio Migos a me piace molto, “Culture” è veramente un bell'album, al di là di tutto. Tra quelli che fanno trap in italiano tante cose non mi piacciono, le trovo troppo banali, troppo leggere. Però ti garantisco che ci sono delle cose di Rkomi ad esempio, che credo sia proprio trap al 100%, che mi piacciono molto. 

Anche a noi piace molto Rkomi (infatti suonerà al nostro MI AMI Ora, a febbraio). “Io in terra” è stato disco della settimana su Rockit.it. Ricorda molto Marracash, e non solo perché è il produttore del disco.

Sì, decisamente sì, anche se la somiglianza la notiamo più noi che siamo grandi; i ragazzi non se la fanno questa domanda. Io immagino che loro prendano acriticamente, come facevamo noi a 15 anni, il settore trap. A me piace molto Sferami piace molto Ghali, Tommy  Kuti; per esempio tu citavi i ragazzi di seconda generazione, tra cui Ghali e Tommy appunto, e trovo che abbiano veramente qualcosa in più. Mi piace Laioung per quello che ha portato di nuovo nella musica italiana. Secondo me siamo di nuovo di fronte a un bel momento. A dire il vero non c'è mai stato un brutto momento. Ogni momento dell'evoluzione del rap è stato propedeutico a qualcosa. Quindi anche gli errori sono stati decisamente utili, è inconfutabile, perché stiamo andando sempre meglio.

È chiaro che adesso viviamo in un'era abbastanza frivola dove tutto è già stato fatto, non hai bisogno di creare apparentemente nulla. Ci sono molti ragazzi che stanno lì e parlano della loro semplice quotidianità, mentre noi forse avevamo dei problemi oggettivi diversi. Ma non per questo credo che loro non ne abbiano, mi sembra troppo riduttivo dire che è una generazione senza problemi. Ogni generazione ha le sue difficoltà e credo che molti le dipingano bene, alcuni hanno anche un certo tipo di tatto.

L'altro giorno pensavo a questo concerto a cui ero andata nell'84 a vedere i Police a Roma. Era un girone infernale, ti posso garantire che era un marasma. Siamo entrati sfondando le barriere, c'erano i carabinieri che volevano perquisirci ma non ce l'hanno fatta, io che sono entrata con il biglietto falso; al Palaeur, sotto, ogni tre minuti chi era davanti finiva dietro e chi era dietro finiva davanti. Era una situazione veramente violenta, gente che stava male, ne han portati via a centinaia, uno a un certo punto mi ha portato su negli spalti e mi ha detto di non muovermi più da lì che ero troppo piccola, io avevo 15/16 anni. Vedi invece ora come sono anche educati? È difficile che ci siano delle risse... anche Salmo, che è bello teso, che forse fa concerti più intensi, fa il pogo, eccetera, fa un pogo educato; adesso è un po' così. Sono diversi, è una generazione più ammorbidita quindi anche la musica riflette il loro modo di essere. 

Nel libro scrivi che gli italiani preferiscono spensierare che pensare.

Sì, ed è vero, però questo è anche una cosa di facciata. Il problema più grande per me è l'ipocrisia, perché nel momento in cui continui a dire “mi piacciono le canzoni d'amore, mi piace ascoltare quella che canta d'amore, mi piace sognare”, non ci crede più nessuno, guarda fuori che casino che c'è! Nelle famiglie, nella politica. È tutto un muro di finzione che tiene il malessere che c'è dentro, no? Trovo che il rap invece lo racconti bene, anche se in modo sottile, magari di sponda, ma se tu senti anche le canzoni di Ghali, c'è un bel malessere lì eh? Tutto pulito, educatino, elegante, però le dice le cose, lo senti il malesssere. Secondo me è il modo migliore oggi, in questa fase, per veicolare quel tipo di messaggio, quindi ammorbiditi ma fino a un certo punto.

È vero, però noi di qualche generazione più vecchia, cresciuti con il primo rap e che non siamo più adolescenti da tempo, vogliamo continuare ad ascoltare del buon classico rap, dove classico non vuol dire non trasformato. Per fortuna nei dischi dei rapper più “anziani” ci sono ancora delle belle tracce di rap adulto.

Interessante questa cosa, mi piace molto questo binomio rap-adulto, perché in Italia non è considerata musica da adulti. A un certo punto a trent'anni ti sposi, fai figli, vai a lavorare e inizi a impazzire e la musica non la ascolti più. E per me è una cosa incomprensibile. Non succede così all'estero. Gli inglesi, i francesi, i tedeschi continuano a seguire i loro artisti preferiti. Lo vedi il commercialista di 40 anni che va a vedere i Metallica. In Italia questa roba finisce e devo dirti che con questo 2016-2017 fra “Santeria”, “Fenomeno”, “Gentleman”, vedo che sono i ragazzi più grandi a continuare a seguire la musica che gli piace. E per me è un segnale fortissimo.

Tu hai detto rap adulto che ad alcuni suonerà come dire “il buio luminoso” però è così e possi dirti questo. Fibra e Marra, chiaramente parlo dei miei artisti che sono la cosa che conosco meglio, continuano a fare quella roba con una coerenza che fa crescere insieme anche i loro ascoltatori. Per cui il rap non è per forza teen. Certo quando hanno cominciato loro, i Club Dogo eccetera, era una cosa veramente per noi govani (ride, ndr). Però fortunatamente adesso continuano a darci roba per noi adulti e tu contini ad avere lo stesso gioco di specchi che ti serviva per depressurizzare la tua vita. 

Parliamo di festival. Scrivi che ti piace molto l'Home di Treviso, ma che anche in questo in Italia siamo un poco indietro e con pochi festival realmente importanti. Come si fa a fare un Coachella qui e far esibire questi grandi rapper, italiani e stranieri?

Ci vuole il pubblico. È veramente un argomento topico perché con i festival, come le radio, abbiamo avuto enormi problemi a piazzarci. Mi ricordo ancora quando abbiamo fatto l'Heineken Jammin' Festival con Fibra; è stato un buon successo, anche se erano già gli ultimi anni dell'Heineken, però pensarlo prima di un Vasco era impossibile. Questo è sempre stato un problema uguale a quello delle radio, uguale a quello delle case discografiche, uguale a quello dei giornali. Anche i festival italiani riflettevano la mentalità italiana.
Il MI AMI era veramente il festival alternativo. Punto. Il rap non è alternativo. Siamo sempre stati troppo legati a questa cosa quando invece all'estero i Public Enemy con gli Anthrax facevano i festival che volevano. Quando lavoravo in discografia, a un certo punto abbiamo fatto una conference call per aggiornarci, e ci hanno detto che 50 Cent andava in tour con quel gruppo che aveva rifatto poi una cover di Kanye West con un fumetto... Insomma, un gruppo che non c'entrava niente. Ho chiesto come mai. Mi hanno risposto che tanto il ragazzo andava tenuto impegnato, che era uno che doveva lavorare altrimenti si cacciava nei guai. Per me è stato proprio un clash mentale e mi sono detta: “guarda là che zero problemi si pongono”. Noi qua invece... guarda il concerto del Primo Maggio con Fibra! Renditi conto dove siamo rimasti. “Eh, ma lui dice le parolacce”. Il MI AMI ci è arrivato fra i primi, ma comunque come hai detto tu stessa prima, un po' tardi; perché secondo me i Club Dogo al MI AMI...

Ce li potevamo infilare?

Sì, e per noi sarebbe stato molto, molto, molto importante. Noi lo cercavamo: guarda “In Italia” di Fibra e Nannini. La Nannini non è pop, ok? È pop finché vuole lei, ma quando non vuole lei non è pop. Noi avremmo voluto eccome avere uno spazio al MI AMI come in altri festival, però è anche una questione di pubblico. Non so se il pubblico avrebbe accettato i Dogo. Se il pubblico si aspetta i Marlene Kuntz e arrivano i Dogo, be', c'è una bella differenza. Quanto erano pronti i ragazzi e le ragazze che frequentavano il MI AMI ad accettare i Dogo e il loro rap?

Ora sono tutti pronti.

Ora sì, la palla di neve ci ha travolti. Infatti abbiamo dovuto andare avanti a colpi di numeri per riuscire a dire “ragazzi guardate che non è che potete fare a meno di questa roba, ora è una cosa grossa”, che poi è diventata sempre più grossa, sempre più grossa, sempre più grossa. Il che è un aspetto anche un po' fastidioso, siamo sempre qui a sventolare “disco d'oro! disco di platino! doppio disco di platino!”. Ma è servito per dire “mò mi chiami! Adesso mi chiami. Sono triplo disco di platino, MI CHIAMI”. Però è fastidioso.



È una rivincita, una vendetta (tutte canzoni di Marracash, tra l'altro).

Il concetto principe è quello lì: per anni abbiamo sentito cose come “andate sul palco e non c'avete neanche batterista e bassista”. Ci sono ancora giornalisti che dicono sta cazzata: non c'è la band. Non c'è la band? Vallo a dire a Skrillex!

La band è un elemento in più, nel rap se ce lo vuoi mettere ce lo metti, altrimenti non serve. Se c'è il rapper e il rap, ovviamente. C'è ancora chi ha questo schema mentale per cui concerto = band. Ma chi lo ha detto?

Infatti il concerto dei Club Dogo del tour "Dogocrazia" del 2009 all'Alcatraz è stato potentissimo. Non c'era la band, ma c'era tutta la Dogo Gang al completo. Nel libro descrivi la forza della due facce della Dogo Gang e la loro importanza per l'affermarsi del rap: Marracash da un lato, che ti arriva al cuore, e dall'altro i Club Dogo e gli altri componenti.

La Dogo Gang è stata fondamentale. Sono stati tutti fondamentali. Avrebbero dovuto avere molti più riscontri. Infatti Fibra si è dovuto molto più poppizzare, tutti si sono dovuti molto più poppizzare per arrivare dove in realtà avrebbero dovuto arrivare senza farlo, anche perché poi hanno creato queste modificazioni genetiche non piacevolissime di pop/rap che sinceramente sono la cosa che a me piace meno in assoluto. Però ti garantisco che il rischio era quello di tornare a fare quattro numeri per quattro appassionati. Che non fa per me, ma non per una questione economica, te lo dico proprio sinceramente. Per una questione di quota: è importante essere presenti nel mainstream per il rap. Molto spesso è facile fraintendere questa cosa: tu vuoi fare i soldi, ti dicono.

Non è tutto riferibile ai soldi; è il peso che tu hai all'interno di una cultura che è quella musicale. Io ho sempre cercato di confrontarmi con tutta la musica, non con il mio stretto orticello del rap. Così come Gué Pequeno, come Fibra, noi ci confrontiamo con la musica. Come io l'ho già fatto con Aelle, loro l'hanno già fatto con “Mi Fist”, “Turbe Giovanili”, “Penna Capitale”, “Marracash”. L'hanno già fatta quella cosa di “costruirsi”. Dopo un po' ti annoi, perché se tu hai sempre la tua setta, parli sempre alla tua setta e non ti metti in gioco, fai degli errori... è lunga la vita, non basta fare un disco. E poi che fai?

È incredibile come alcune delle loro prime canzoni siano ancora attuali. Certi testi di 15 anni fa sembrano scritti ieri. O vedono avanti, o l'Italia non si muove.

Sì, è vero, ed è molto bella questa cosa che dici.

Nel libro c'è una pagina e mezza dedicata alle ragazze e a svariati consigli per loro. Ma come si fa a diventare Paola Zukar?

Guarda tra l'altro mi è arrivato stamattina questo articolo, vedi? (gira il monitor, ndr)
È un articolo sulle sette donne che hanno rivoluzionato il mondo. Mi hanno messo nell'elenco! Hanno un po' sfrizionato! Le altre sono grossissime: c'è la Cristoforetti, un consulente scientifico della Nasa, Rita Levi Montalcini, Margherita Hack... Forse è un po' troppino...

Allora ti rifaccio la domanda. Come si fa a rientrare nell'elenco delle sette donne che hanno rivoluzionato il mondo? Io ho 42 anni sono ancora in tempo?

(ride, ndr) Io ne ho 49 quindi per me era molto importante arrivare da qualche parte a 49 anni perché alla mia età o hai realizzato qualcosa che ti piace oppure impazzisci. Tornando alle ragazze, credo che non ci sia un momento migliore nella storia del mondo per essere ragazze, perché fino all'altro ieri non potevamo neanche votare. Credo sia questo il momento migliore per essere ragazze e lavorare. Se non siamo pari ma siamo indietro è solo perché vogliamo essere dietro, in qualche modo ci è conveniente stare indietro. Però chi vuole mettersi in gioco, oggi può. Certo, stare davanti insieme agli uomini è un po' più scomodo perché ti esponi.

Mi dicono “hai i capelli corti, sembri un ragazzo!”. Pensatela come volete, non è un mio problema, io sono sempre stata così, mi sono sempre vestita così. Ho sempre avuto attrazione per questo genere di musica che è particolarmente aggressivo, perché mi ha aiutata effettivamente a essere una persona migliore, non semplicemente una donna migliore; come donna ti garantisco che mi ha dato tantissimo. Quando sono andata negli Stati Uniti nell'87 ho visto ragazze molto più avanti di me, perché avevano avuto un'educazione ed erano cresciute in un ambiente socialmente differente dal mio.

Io ho avuto la fortuna di avere una mamma che quando mi mettevo le scarpe da ginnastica e uscivo con il mio fidanzatino vestita come lui, non mi diceva “Paola che peccato, una ragazzina carina come te”. Mia nonna sì! “Ma che peccato, ma quelle scarpacce! Ma perché non metti le ballerine?” “Nonna - le dicevo - non è la mia cosa, il tempo sta cambiando”. E mi ha dato ragione! Quante ragazzze mettono le sneakers oggi? Tutte! Ma a Genova negli anni '70-'80 era un'enorme anomalia e tanti ti giudicavano male. Tutte queste cose hanno contribuito a farmi diventare quella che sono e io mi auguro veramente che la ragazze vogliano osare un po' di più e non essere solo le fan, ma ad esempio essere a capo di un festival a decidere chi la gente guarda e ascolta.



Nel libro dici che non c'è nessuno che “guidi” all'ascolto del rap, che ci sono poche figure professionali preprate in merito che ne parlano, che lo trattano nel modo giusto.

Non solo ci sono pochi che ne sanno, ci sono anche quelli che ti danno addosso. È sempre stato così. Ho visto un'intervista a Gino Paoli, è vecchissima. “Ma lei con questi occhiali? Lei parla ai giovani in questa maniera!” Sai che lui veramente era in difficoltà? “Ma io veramente porto gli occhiali perchè sono miope...”, ha risposto Gino. Questo giornalista che non capiva la sua roba non è che per lo meno cercava di capire, anzi, era aggressivo nei suoi confronti, “è maleducazione mettere questi occhiali da sole” gli diceva.

Cioè da noi magari adesso è un po' diverso, ma ti garantisco che molte interviste sembravano delle interrogazioni del professore. “Allora, Marracash mi dica, qua non ci siamo, qua non siamo preparati.” Te lo giuro! Avevamo quella sensazione di esame che sinceramente è troppo; non ho ancora capito se fosse solo una questione di non essere praparati e quindi di avere quel tipo di aggressività per colmare le proprie lacune. Ma molto spesso alla fine era “dai va beh, è un po' una cazzata la tua musica, diciamo le cose come stanno; la band non ce l'hai, uno strumento? lo suoni? Poi non canti, cos'è sta cosa della voce, sai cantare, hai fatto scuole?”.

Questo è sempre stato veramente brutto. Ci sono state invece delle eccezioni, parlo per esempio di Andrea Laffranchi, un giornalista del Corriere della Sera, che non è mai stato giudicante; quindi non è che sto parlando dell'intera categoria, assolutamente. Anzi, uno dei più giovani giornalisti della redazione del Corriere, 12 anni fa ha intervistato Fibra senza giudicarlo ma semplicemente riconoscendo che stava avendo un grande successo con i giovani, bisognava cercare di capire perché. Non mi sembra uno sforzo così enorme da fare. E invece buona parte dei suoi colleghi facevano fatica. 

Commentaci come fai nel libro questa frase di Jay-Z: “I'm like Che Guevara with bling on, I'm complex”. I rapper sono un po' dei guerriglieri che ce l'hanno fatta.

Quello è un bel clash di immagini. Io mi ritrovo moltissimo, e anche molti rapper, nella frase di Jon Connor e che apre il libro: “I came here to raise hell, I can't lie”. Cioè: siamo tutti qua per fare un po' di casino e cercare di provocare una reazione, qualunque essa sia. Lì, negli Stati Uniti c'è anche il fattore razziale. Noi siamo tutti bianchi fra bianchi, non avevamo quella ulteriore barriera da abbattere; loro avevano anche e soprattutto quella ed è ancora quella che li tiene ancora più concentrati. Tant'è vero che vedi tutto il movimento Black Lives Matter e anche tanti rapper che sono veramente d'assalto con i testi più duri dei nostri, ma anche perché effettivamente hanno ancora un problema oggettivo che avranno i ragazzi afroitaliani qua da noi, che sono ancora giudicati. Però da noi, Guè, Marra, Fibra, sono ragazzi bianchi che molto spesso si sono sentiti dire “mica ti hanno sparato addosso, mica sei del ghetto!”.

Ma raga, non è che per avere un disagio bisogna essere in una gang che si spara. Il disagio in Italia è palpabile, estremamente reale e credo che loro lo incarnino molto bene. Pur avendo dei modi di raccontare le cose molto diretti, sono anche molto coinvolgenti. Il rap non è il punk che ti sputa addosso, il rap cerca di raccontarti qual è il punto, ecco perché a me dispiace quando un giornalista fa il gradasso. Loro stanno cercando di raccontarti questa cosa, da sempre, dai Sangue Misto, che erano belli contro, Frankie hi-nrg che cercava di raccontare una realtà. Il rap tendeva una mano verso chi ascoltava. Mettersi la maglia di Che Guevara con la catena di diamanti. Ti sta provocando una reazione.

Invece che reazione ti provocano gli ennesimi cantanti con l'ennesima canzone d'amore? Sì, quando esci con la ragazza o col ragazzo la metti su, ti baci...

Non mi provocano nessuna reazione, e comunque ci sono canzoni bellissime nel rap che parlano d'amore, oneste e dirette. E proprio per questo modo diretto e crudo che i rapper hanno dovuto affrontare anche il problema di essere etichettati come sessisti.

A parte il fatto che quanti di quelli che scrivono sempre e solo “sei la mia musa, sei il mio amore” poi in realtà non hanno niente a che spartire con quello che cantano? Io capisco anche la ragazzina che vive immersa in un certo tipo di contesto e a cui piace avere il cuscino con la faccia del cantante pop, ci sta; ma non è sempre così, ci sono i casi in cui ci si sposa, rimani incinta, lui se ne va con un'altra. Chi le racconta queste storie?Non sto dicendo no alle canzoni d'amore, è chiaro che c'è il momento in cui puoi credere un po' nella favola, però quando la favola ti si sbriciola davanti agli occhi, chi ti sostiene, chi ti racconta, chi ti dice guarda che è successo anche a me e quindi c'è un'alternativa? Il rap. Quello secondo me è importante che ci sia. Un po' per uno.

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L'articolo Il rap italiano racconta la realtà: intervista a Paola Zukar di Carlotta Fiandaca è apparso su Rockit.it il 2017-12-13 11:52:00

COMMENTI (2)

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  • verde99 6 anni fa Rispondi

    Negli anni 70 la realtà (musicalmente) non era raccontata solo da un genere.
    Per quanto riguarda la faccenda del disco d'oro... chi è che l'ha inculcata?
    Ricordo che settimane fa a Che tempo che fa Orietta Berti apostrofò qualcuno: "Ai miei tempi con 50.000 copie non ti facevano neanche entrare dalla porta".
    Sappiamole le cose!

  • mario.miano.39 7 anni fa Rispondi

    Sempre sul pezzo Rockit che focalizza su un personaggio e un libro che dai media specializzati in Italia non ha avuto grande copertura. Tuttavia la battuta sui dischi d'oro mi soprende perchè i ragazzi giovani ci tengono a certe cose e in tutta onestà se si riferiva a Charlie Charles mi spiace ma è lui il numero uno e non nel rap-trap ma in Italia in generale. Come pure penso che sia utile spingere talenti incontenibili come Rkomi ma forse, per farli migliorare è meglio che Rockit non esageri e si inventi cose come che il disco di Rkomi sia riuscito o addirittura un capolavoro. Non è brutto ma ha deluso per come prometteva il personaggio e i suoi pezzi migliori sono con altri, da apnea all'ultimo Night Skinny oltre all'intervento stupendo in bimbi.