Il pensiero che fa fatica a rivelarsi: intervista agli XHU

Gli XHU non hanno scelto né l'italiano né l'inglese per esprimersi, ma una lingua inventata da zero dal loro frontman: ce la racconta

Gli XHU sono "un progetto modulare di ricerca sonora" (di origine campana) con la particolarità di cantare in una lingua inventata, nata prima come grafica e poi negli anni sviluppatasi come fonetica; ad idearla da zero, compresa la parte grammaticale, è stato Alessandro, il frontman. L'abbiamo intervistato per farci raccontare cosa vuole comunicarci.

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"Ci sono dei sentimenti così intraducibili che ci vuole la musica per esprimerli" (André Esparcieux). Nella tua lingua qual è la parola che esprime il sentimento?
Non c’è una parola che esprime il sentimento nella lingua Xhu. Tutto il flusso sonoro esprime ciò che mi attraversa. Cantare in fonemi è un po' come scavare nell’anima, è la ricerca del sentimento elementare, della sensazione profonda, è un intuizione che si fa suono.
Cantare in fonemi è riconoscere che ci sono sentimenti intraducibili appunto, l’illusione (nel significato psicologico del termine e cioè la distorsione di una percezione sensoriale), di poterli esprimere. Nel flusso sonoro della mia voce, così connesso al sentimento stesso, e nelle mie canzoni, c’è questa dichiarazione.
Quando cerco di spiegare questo concetto mi piace citare Igor Stravinsky che nella sua sutobiografia diceva “Se, come quasi sempre accade, la musica sembra esprimere qualcosa, questa è soltanto un'illusione”.

"Ciò che non si può dire e ciò che non si può tacere, la musica lo esprime" (Victor Hugo). È passato molto tempo da questa massima. Pensi che la musica non sia più sufficiente a dire tutto?
La musica a me non ha mai raccontato nulla e io infondo non l’ho mai usata per raccontare qualcosa. Come dicevo prima, la musica per me è stata sempre un modo di organizzare e interpretare le informazioni che mi attraversano in maniera diversa. Una distorsione sensoriale della realtà che mi circonda. La musica esplode, lascia traccia e ogni volta costringe a chi ascolta a porsi una domanda. La musica al massimo suggerisce sempre la domanda giusta, ma non racconta, non da risposte. Ci sono culture, in cui la musica non è neanche concepita come “cosa in sé” ma viene identificata nelle sue manifestazioni concrete come la voce che canta, gli strumenti che producono suoni diversi e in rapporto alle sue funzioni nella vita della comunità. La musica non smetterà mai di essere auto-sufficiente, di essere moto continuo e di rivelarsi.



Possiamo definirti un musicista o c'è una dicitura ben precisa da usare?
“Musicista” è una parola che di solito non uso per spiegare quello che faccio. La mia è una ricerca, un'intima frequentazione. “Musicista” è appunto una parola e io con le parole ho un rapporto molto particolare, credo si sia intuito. Il mio è un percorso e io sono un viaggiatore del suono. C’è un suono in ogni cosa, ne trovo tanti in giro, spesso quando neanche li cerco si rivelano. Faccio musica rubando la musica che mi gira intorno, nient’altro. Il mio rapporto con la musica cambia continuamente e negli ultimi anni ho dovuto ridefinire io stesso quello che faccio, sono anni ormai che soffro di acufenia bilaterale in seguito ad un incidente e sto perdendo gradualmente l’udito. Sono costretto quotidianamente a rimodulare il mio rapporto con la musica, che nella mia testa cambia e muta e non c’è giorno che non mi chieda cosa accadrà quando sentirò davvero troppo poco per poter pensare soltanto di essere ancora un “musicista”.

Quali sono le tue influenze artistiche, come e quando componi e soprattutto perché il rifiuto della parola tradizionale per esprimerti?
Io confesso che ascolto poco negli ultimi anni, un po' per scelta un po' per pigrizia, ma ho passato una vita a studiare sui dischi di Miles Davis, Herbie Hancock, Weather Report, Joe Zawinul, ho divorato la discografia di Peter Gabriel, Kronos Quartet, Clint Mansell, Trent Reznor e tanti altri. Quando compongo ciò che mi suggestiona è la musica di quelle parti di mondo che ho avuto la fortuna di visitare e conoscere; la suggestione che conservo di ogni luogo in cui ho viaggiato. Quando sono al piano o dietro i miei sintetizzatori ci sono io. Io e basta. Non lo so se c’è qualcosa che mi influenza, so per certo che non mi serve nulla, nulla che non sia nel mio strumento o già nella mia testa.
Ci sono giorni in cui non tocco un tasto perché non mi sento pronto, altri che sento forte la smania di entrare nel mio mondo e poi ci sono quegli istanti in cui non fai nient’altro che sederti al piano e tutto funziona, ogni pensiero prende forma.
Ho sempre pensato che il tragitto che compie un pensiero per divenir parola fosse troppo lungo. La parola non esprime sempre al meglio ciò che ci attraversa. Nel momento in cui pronunciamo una parola, ce ne sono altre che si affollano e ingombrano il flusso del pensiero. Sono tante le associazioni analogiche che lavorano nella pronuncia della parola stessa. In letteratura Virginia Woolf, Arthur Schnitzler, James Joyce hanno portato alle estreme conseguenze, oltre il confine della comprensibilità, questo meccanismo psicologico. La tecnica del monologo interiore o del flusso di coscienza è al confine tra un procedimento letterario storicamente definito e il tentativo di riprodurre ciò che avviene sulla linea di confine tra pensiero e linguaggio. Il mio non è affatto un rifiuto. Quello che propongo a chi mi ascolta è una sfida ai miei stessi pensieri. Un gioco alla comprensione di quello che sto pensando e che si traduce in quello stesso istante in suono. La parola troppo spesso costringe all’ordine e piega il pensiero, lo riduce al particolare, al minuscolo dettaglio. L’espressione che spesso si usa “non ho parole…”, cerco di non usarla quando non riesco a buttar fuori ciò che mi attraversa. Quando posso e ci riesco, cerco e propongo delle “immagini acustiche” (la definizione di significante per De Saussure) ma non rinuncio al pensiero che fa fatica a rivelarsi.



Hai canonizzato questa lingua con dovizia di particolari: non si tratta di pura fonìa ma c'è una vera grammatica alle spalle, come l'hai creata?
Ero un ragazzino piuttosto introverso, non credo di aver dato mai un calcio ad un pallone negli anni in cui potevo farlo. Giocavo spesso solo. Mio nonno era un falegname e passavo le mie giornate nel suo laboratorio a cercare piccoli pezzi di legno di scarto che poi usavo per creare puzzle che nella mia testa diventavano forme, sagome, città, universi, tutto quello che volevo come sarà capitato a tutti di fare con le nuvole in quelle giornate in cui non riesci a distogliere lo sguardo dalla maestosità del cielo. Ho sempre avuto la necessità di “tradurre”, di trasformare le cose che mi erano intorno. È stato cosi anche con le parole e sono partito dalla scrittura. Ho raccolto simboli, segni, li ho catalogati, li ho studiati, li ho trasformati, li ho fatti miei e alla fine gli ho dato un suono. Insomma non è niente di più che un gioco che negli anni pero mi ha appassionato e coinvolto profondamente.

Hai qualche consiglio per le persone che volessero cimentarsi in un'impresa simile?
In realtà non mi è mai capitato di sentire di qualcuno che volesse cimentarsi nella costruzione di una grammatica, gli avrei chiesto di sicuro di darmi una mano in questi anni!!!
Piuttosto sento di consigliare a tutti di cimentarsi prima o poi in qualcosa, di mettersi alla “ricerca-azione”, come spesso dico, di qualcosa che lo entusiasmi e lo sconvolga profondamente.

Spesso, parlando con le band che sono passata dall'inglese all'italiano, ci rispondono che a un certo punto hanno realizzato che farsi capire subito è molto importante. Tu come ti poni invece nei confronti di chi ti ascolta?
Io di solito dopo un concerto, quando posso, chiedo alle persone cosa gli è “arrivato” dai miei fonemi. Io mi pongo all’ascoltatore da ascoltatore e semplicemente chiedo. È proprio questo il piacere. Chiedere cosa la gente ha percepito, cosa ha capito, cosa gli è arrivato. È un progetto controcorrente, me ne rendo conto; in un mondo veloce come questo, se non raggiungi subito qualcuno è probabile che neanche si accorgano di te. Ma questo non è mai stato un problema per me. Non ci ho mai voluto pensare forse, e spero di non doverlo fare sul serio prima o poi.

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L'articolo Il pensiero che fa fatica a rivelarsi: intervista agli XHU di Francesca Ceccarelli è apparso su Rockit.it il 2018-01-04 11:11:00

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