"Ho scelto di essere felice": ascolta "Vivere o morire" e leggi l'intervista a Francesco Motta

A due anni da "La fine dei vent'anni" Motta racconta il suo nuovo album, sulla ricerca delle felicità e il bisogno di trovare un posto in cui fermarsi e, finalmente, restare.

Tutte le foto sono di Claudia Pajewski
Tutte le foto sono di Claudia Pajewski

Quando è uscito "La fine dei vent'anni" per molti e sotto molti aspetti Francesco Motta è diventato il simbolo di un vento nuovo della musica italiana, un Garibaldi pronto a condurre mille e più nuovi artisti. Motta però non è un Garibaldi, ed è forse in questo che stava la forza de "La fine dei vent'anni". In quel primo album c'era tutta la scala di grigi di chi cerca il suo posto nel mondo, guardandosi dentro e continuando a correre, con la polvere negli occhi.

"Vivere o morire" esce oggi a due anni di distanza da quel primo importante lavoro solista, e questa volta Motta ha deciso di lasciarsi, almeno per un momento, la corsa alle spalle e finalmente restare. Quando lo incontriamo ci aspetta sul pianerottolo di un appartamento di quella Milano che forse non c'è più, o che semplicemente ha imparato a stare ferma, lontano dalla luce. Davanti a un Refosco e una grappa barricata ci ha raccontato il suo nuovo album. 

Ne "La fine dei vent'anni" parli di cercare parcheggio, sbaglio o in questo disco racconti come, in qualche modo, sei riuscito a trovarlo alla fine?
Non mi piace autocitarmi ma dato che lo hai fatto tu sì, è vero che stavo cercando parcheggio. In quel momento stavo descrivendo un momento particolare, davanti a un bivio e due strade diverse. Parlavo di come non fossi pronto ad affrontare una scelta, per tutta una serie di ragioni. Ora invece, negli ultimi due anni, ho scelto tante cose.

Cos'hai scelto?
Ho fatto molte scelte diverse negli ultimi due anni, che sono stati completamente diversi da quella che era stata la mia vita fino a quel momento, e sono riuscito a fermarmi e decidere. Ho scelto di essere felice e soprattutto ho scelto di vivere. 

La felicità e la sua ricerca è un tema che avevi toccato anche nel primo disco. Ora cosa è cambiato? 
Sono andato avanti e in questo sono cambiato io, mi sento di essere più risolto. Ho accettato degli errori, sono riuscito a riconoscere i momenti in cui ho sbagliato e li ho metabolizzati, certi errori li ho assorbiti e ho sicuramente meno cose in sospeso di quante ne avessi prima. La convivenza con delle cose che non posso cambiare della mia vita e la loro accettazione mi sta portando ad essere molto più felice di quando avevo vent’anni, ma anche di com’ero due anni fa. Sono fiero di essere cambiato, perché ora sto meglio.

Questa condizione risulta molto chiara nell'album, anche e soprattutto da un punto di vista compositivo. Anche musicalmente è un album più nitido del precedente. Anche in questo senti di aver trovato un maggiore equilibrio?
Ho tantissima voglia di cambiare idea, anche se è molto difficile farmi cambiare idea. Un equilibrio penso di averlo trovato in una certa misura, soprattutto musicalmente. Con il primo disco mi sono tenuto aperte tantissime strade e nessuno avrebbe storto la bocca se avessi fatto un disco di canti gregoriani e clap, mi avrebbero internato in un manicomio probabilmente, ma avrei potuto farlo. Questa libertà mi ha portato a trovare una sintesi di quello che avevo già cominciato, in "Vivere o morire" non c’è niente di più né di meno di quello che volevo metterci. Allo stesso modo sta a me capire che strada prendere dopo questo disco, perché seppur ho trovato una precisione maggiore nel capire cosa volevo fare ho ancora molte strade che posso scegliere di percorrere o meno. 

Uno degli elementi comuni a entrambi è una parte ritmica che riporta alla musica africana, ci sono frasi che a volte ripeti fino a farle diventare quasi un mantra. 
L’influenza della musica africana c’è sempre stata in me e ritorna anche in questo disco, anche perché è un mondo che mi ha sempre affascinato. Volevo tenere quella componente metabolizzandola però in qualcosa che fosse mio. Il ripetersi di certe frasi, di certi ritmi, va a creare una sorta di struttura circolare nelle canzoni, anche se la frase non cambia ci sono delle sfumature che si aggiungono. 

Ricordo che più o meno un anno fa tu, Appino e il Maestro Pellegrini degli Zen Circus insieme ad altri amici siete partiti per il Marocco, e la missione del viaggio è stata trovare strumenti per il tuo nuovo album. Com'è andata finire?
Volevamo fare una vacanza insieme comunque, ma nel mio caso il fine era trovare questo negozio di strumenti leggendario chiamato Bob Music e comprare un po’ di strumenti che effettivamente poi ho usato nel disco. Quindi sì, in effetti in quel viaggio sono tornato con alcuni degli strumenti che si sentono nell'album.

Parlando di viaggi, per registrare questo album sei stato anche a New York, come si vede anche nel video di "È quasi come essere felice". Viaggiare per te è diventato una parte importante del processo creativo?
Dovevamo registrare alcuni strumenti con Mauro Refosco, che penso sia il miglior percussionista del mondo. È stato un onore non solo essere lì, in quegli studi, ma lavorare con lui. Il motivo è stato quello, ma viaggiare è diventato qualcosa di fondamentale. In quest’anno ho viaggiato molto più di quanto non abbia fatto nel resto della mia vita e questo mi è servito per ritornare e capire da che parte stare, anche musicalmente, che è il discorso che facevamo all'inizio. 

Riesci a scrivere quando sei lontano o solo una volta tornato a casa?
No, scrivo soprattutto quando torno, mi serve una sorta di stabilità. Devo andare a pisciare per almeno tre giorni nello stesso bagno, mi porta ad essere tranquillo e in quel momento scrivo. Avere equilibrio e lucidità mi porta a guardarmi indietro e descrivere quello che ho visto, che sia un viaggio o una persona, e a capire cose che in quel momento nemmeno mi ero accorto di capire perché ero troppo immerso in quello che stavo facendo, o troppo emozionato facendolo. Ho bisogno di decantare prima di riuscire a sintetizzare quello che penso, che vedo o che provo in una canzone.

Nella produzione di "La fine dei vent'anni" hai detto spesso quanto Riccardo Sinigallia sia stato fondamentale, in questo disco però la produzione non è la sua. Qual è stata la gestazione di "Vivere o morire" come produzione?
Nelle altre interviste, riferendomi anche a quelle fatte per "La fine dei vent’anni", ho nominato tantissime volte Riccardo Sinigallia perché è stato davvero fondamentale. Prima di questo disco mi ha detto “la produzione di questo disco è che non ti produrrò il secondo disco", che già di per sé è stato illuminante in qualche modo. 

Produzione che è passata quindi nelle mani di Taketo Gohara.
Amo e necessito di riconoscere e riconoscermi nel lavoro delle altre persone, e con Riccardo è stato davvero importante lavorare insieme. Ma se ho nominato diverse volte Sinigallia, di certo non posso non parlare anche di Taketo Gohara, con cui ho fatto un lavoro enorme. Stavolta però devo nominare anche me, e qui mi do una pacca sulla spalla, perché mi ci sono messo tanto davvero anche io. In questo album so benissimo quanto ho fatto ed è la prima volta che ci metto veramente la faccia anche in questo senso.

Parlando di metterci la faccia, è la seconda volta che un tuo primo piano è l'artwork del disco. La terza se contiamo anche "Bestie" dei Criminal Jokers. Qui però c'è qualcosa di diverso, sei meno a fuoco, e in movimento.
In "Bestie" ci avevo messo la faccia ma con le mani, poi piano piano ho trovato il modo di levarle. In qualche modo è importantissimo per me che un artista, chi scrive canzoni o chi fa qualsiasi altro mestiere invecchi o cresca con quello che fa, sempre. Non mi piace la gente che rimane ferma, io non voglio ringiovanirmi. Sono contento di crescere insieme alle mie canzoni. Trovare quindi un parallelismo anche a livello estetico, per vedere quanto sono cresciuto e invecchiato, era importante. La foto è sempre di Claudia Pajewski, ma è diversa. Sono sempre io ma è un po’ mossa, non è in bianco e nero, rispetto alla descrizione di questo bivio sento di essermi mosso. Il fatto che le canzoni cambino col tempo e chi scrive trovi altri modi dovuti ad una consapevolezza maggiore secondo me è una cosa importantissima. 

L'artwork, come dicevamo prima per la tua ricerca della felicità, è l'ultimo di una serie di ridondanze rispetto al primo album. La luce però cambia, sei solo tu a cambiare o anche le cose di cui parli?
Sono delle ridondanze ma con punti di vista diversi, e principalmente a cambiare sono io. Ma dire babbo è stato molto più difficile che dire padre, nella lucidità e nel distaccamento di vedere i miei genitori da un punto di vista nuovo come avevo fatto nell'ultimo album, ho trovato un modo di avvicinarmi, vedere le stesse cose con una luce diversa porta a canzoni con una luce diversa. Certe cose forse sono sempre state così, ma sono in grado di vederlo meglio e da più punti. È stato difficile.

Per come ne parli, sembra un disco che seppur parlando di un equilibrio sembra nascondere un processo abbastanza doloroso. Qual è il tuo rapporto con lo scrivere canzoni?
È difficilissimo per me scrivere canzoni, che sia musica o testo ho bisogno di uno scatto strano per trovare un racconto che mi emozioni. Penso che i cantautori si debbano sempre sentire meglio dopo aver scritto una canzone, non peggio. Per me scrivere canzoni è mettere il cuore sul tavolo, che vuol dire accettare di essere in qualche modo scomodo. Quando parlo di fatti personali parlo anche della mia vita e ci possono finire dentro anche persone che non vogliono essere messe in mezzo, ma l’unico modo che ho per emozionarmi con le canzoni è parlare della mia vita, della mia verità, anche quando questa è immaginata. 

---
L'articolo "Ho scelto di essere felice": ascolta "Vivere o morire" e leggi l'intervista a Francesco Motta di Vittorio Farachi è apparso su Rockit.it il 2018-04-06 12:43:00

COMMENTI

Aggiungi un commento Cita l'autore avvisami se ci sono nuovi messaggi in questa discussione Invia