La musica vista da dentro: Erio racconta il nuovo album "Inesse"

Erio racconta il nuovo album "Inesse", uscito lo scorso 20 aprile per Kowloon Records/La Tempesta Dischi

Erio
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A quasi tre anni dal suo debutto con "Für El", Erio è tornato lo scorso 20 aprile con "Inesse" (Kowloon Records/La Tempesta Dischi), disco che lo vede per la prima volta in veste di produttore, con la collaborazione in alcune tracce di Yakamoto Kotzuga, Ioshi e Will Rendle dei Will and the People. "Inesse" è un album dal sound contemporaneo e ricco di contaminazioni, ed Erio ce lo racconta in quest'intervista.

“Inesse” è il tuo nuovo disco: dichiari che in esso convivono le infinite interiorità di ognuno di noi, mentre il precedente album, al contrario, racconta quanto la realtà esterna lasci inappagati, perché incapace di realizzare compiutamente la nostra essenza. Cosa significa “Inesse”? Ha forse a che fare con questo continuo rimando tra dentro e fuori?
Il legame tra interiorità e mondo esterno si rintraccia in entrambi gli album. Eppure ci troviamo di fronte a due lavori differenti: mentre in "Für El" i pezzi sono coesi, legati dal filo rosso dell’amore impossibile, l’ultimo disco rimane aperto a tante possibilità interpretative perché si muove in molte direzioni. E forse il suo significato è proprio quello di non riuscire ad essere definito, circoscritto, decodificato interamente. Ognuno di noi è un gioco di scatole cinesi che si aprono, svelando sempre più quello che c’è dentro; siamo storie che nascondono altre storie, che a loro volta nascondono altre storie e così via. Il disco segue questo concetto per cui il primo pezzo si schiude al secondo, proseguendo, fino ad arrivare al fulcro. Da ciò il titolo “Inesse” che significa “essere dentro”.

La musica è più bella vista da dentro o da fuori?
La musica per me ha un incanto maggiore vista da dentro, immaginandola, creandola. Appena vedo un palco subito penso che vorrei essere lì sopra, per far conoscere la mia musica. È un concetto egocentrico, lo so benissimo. Passo intere nottate a inseguire la canzone perfetta, provando e riprovando; come in preda ad una compulsione che non mi abbandona, sono sempre maniacalmente dentro alla musica che creo. E quando sopraggiunge la soddisfazione di aver realizzato qualcosa di buono, sono già pronto ad affrontare una nuova sfida.

Il tema del viaggio sembra un contenuto importante di questo album: il disco nasce a Londra, cosa ti ha raccontato quel viaggio?
Ho vissuto a Londra per diversi anni e torno sempre a salutare amici e conoscenti. Mi capita spesso di trascorrerci qualche mese ancora adesso. È una città che conosco bene e a cui sono affezionato; quando ne sento la mancanza, prendo e parto. Il mio disco nasce lì, ma può essere letto come metafora di un viaggio alla ricerca del proprio posto nel mondo. I personaggi dell’album sono anime multiformi che si pongono domande sulle relazioni, sulla vita, su ciò che li circonda. Attraverso un occhio clinico e cinico ho indagato i loro dubbi: che cos’è una nazione? Chi è un immigrato? Che cosa significa “relazione”? Che cosa vuol dire “sentirsi a casa”? La loro multipersonalità è sempre in cammino e ha come dimora il corpo anche se, spesso, non ci sta comoda dentro. Il significato più profondo di “Inesse” consiste nel non riuscire a comprendere appieno il concetto di essere a casa, di sentirsi a casa: dentro al proprio corpo appunto, o in una relazione.

A proposito di relazioni, in “Limerence” le vite di due individui in viaggio si sfiorano e poi si perdono. I suoni rallentano, le note si fanno lunghe come la distanza che li separa.
Nel disco, l’indagine sulle relazioni umane è centrale per comprendere quale sia il nostro posto nel mondo: dovremmo metterci a cercarlo o semplicemente riconoscere che essere dove si è, va bene lo stesso. Il disco non dà nessuna risposta, non fornisce suggerimenti, in realtà. Racconta storie di individui che pensano di essere responsabili delle loro sofferenze relazionali quando, in realtà, le cose accadono e basta e non esistono colpe. Il pezzo finale dell’album arriva a questa riflessione serena che ci riconcilia con noi stessi, accettando l’impossibilità di controllare tutto e tutti, per sentirci finalmente liberi.

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“Brief history of se’ and fa’”: l’amore è uno spettro che ci confonde, rendendoci spettri a sua volta. Definisci il “ghosting” una malattia moderna, nel precedente lavoro parli di amore impossibile: che ruolo ha l’amore in questo disco?
Nella nostra cultura l’amore è spesso concepito come qualcosa di salvifico, che può guarire dal dolore dando un senso all’esistenza. La cultura romantica, la religione Cristiana, la cultura Greca, possiedono diversificate visioni dell’amore. Io penso che ci sia un senso di compassione e di comprensione reciproca a tenerci uniti; secondo me l’amore non è un concetto universale, ma profondamente legato alla vita di ognuno. Credo che un amore impersonale, basato sulla comprensione autentica dell’altro, possa fare la differenza. L’amore romantico dovrebbe essere vissuto più come un gioco, con la consapevolezza che non si diventa una persona migliore trovando l’anima gemella.

Veniamo al sound di “Inesse”, di cui, oltre che autore e arrangiatore, sei anche per la prima volta produttore. L’elettronica è sempre al centro, ma si contamina di R&B, hip hop, musica orientale. E la tua splendida voce sovrasta ogni cosa. Cosa è cambiato dal precedente album?
Il fatto che io lo abbia arrangiato e prodotto dà un’impronta più personale al disco. Nonostante ci siano alcune collaborazioni, la mia mano risulta evidente con i suoi difetti e i suoi pregi; questo ha fatto sì che mi censurassi un po' meno. Il mixaggio è opera mia e del mio fonico (Marco Gorini ndr); Paolo Baldini - arrangiatore e produttore del primo disco - ha contribuito alla supervisione e alla rifinitura del mixaggio. Con questo album ho consolidato la fiducia in me stesso che mi ha anche permesso di non sentirmi troppo vincolato ai tempi o alle opinioni di un altro. D’altronde “Inesse” è un disco poco dialettico e tutto ripiegato dentro, così il lavoro è stato molto personale. L’atmosfera è sempre pronta a rintracciare l’alienità dell’esistenza: in un paese lontano, in uno sconosciuto, in noi stessi, in ciò che c’è fuori da noi. È un album frutto di un processo creativo in cui le cose hanno preso forma senza una reale intenzione, finendo per unirsi solo alla fine del lavoro.

Tra i tanti artisti che ti hanno ispirato, e che reputi punti di riferimento importanti, menzioni Björk, Jeff Buckley, Antony, Tagaq, Stevie Wonder, Lauryn Hill. In lei, sostieni di aver trovato il giusto compromesso tra tecnica ed espressività. Tu vieni dal canto lirico. Come coniughi tecnica ed espressività?
Il canto lirico è arrivato quando avevo già sperimentato a livello artistico altre espressività musicali. Il suo studio mi ha convinto di avermi fornito uno strumento in più, una modalità espressiva ulteriore che, tuttavia, non è completa. Basandosi sulla ricerca della purezza del suono, su un’impostazione che tende a rendere perfetta l’esecuzione canora, manca di imprevedibilità. Per questo la mia voce vuole sperimentare, inseguendo la tecnica, ma anche direzioni nuove e inaspettate.

Il disco è bellissimo: sembri un matematico che gioca con i suoni, poi un pittore incantato e visionario; la sua componente è fisica, materica e poi improvvisamente evanescente. Quale ricerca musicale c’è stata?
In effetti il punto di partenza è spesso intellettuale, attraverso una curiosità e un’indagine da piccolo chimico. Così mi chiedo che effetto produrrebbe mettere insieme una batteria new-soul con un contrabbasso che imita un sitar, ad esempio. A volte accade che l’accostamento non funzioni, ma quando si verifica la combinazione interessante, la catturo e mi metto a costruire il pezzo. Di sicuro ho cercato anche di dare una continuità alla mia produzione, partendo da quello che avevo realizzato con "Für El". Ho individuato attentamente ciò che avevo compiuto, mi sono interrogato su ciò che avrei potuto creare: le chitarre acustiche le avevo già esplorate; ho introdotto, in maniera non invadente, chitarre elettriche qua e là. Sono stato attento a non ripetermi e, laddove ho individuato qualcosa di poco convincente nel primo disco, sono partito da quel punto per svilupparlo meglio. Alcuni suoni creati da Baldini in "Für El" mi sono sembrati sin da subito interessantissimi. Così ho pensato di riutilizzarli nel secondo disco, finendo per portarmi ancora più lontano rispetto al punto di partenza. Ti direi che “Inesse” rappresenta un punto di equilibrio tra continuità e sperimentazione.

Domanda di rito. Cosa ti aspetti da questo disco?
Onestamente non lo so. Non mi aspettavo nemmeno che uscisse così com’è: sono arrivato a produrlo creando i demo, poi erano talmente immaneggiabili… Settanta tracce di materiale! Mi sono interrogato molto, confrontandomi anche con amici e colleghi, e credo che possa mostrare, a chi avesse voglia di ascoltarlo, un livello di onestà ulteriore rispetto al primo lavoro. Chi ha trovato "Für El" interessante, potrà apprezzare il passo artistico che è stato fatto con “Inesse”. E poi più gente lo ascolta e più sono contento: in fondo non è un disco dall’impatto immediato, prevedibile.

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L'articolo La musica vista da dentro: Erio racconta il nuovo album "Inesse" di Libera Capozucca è apparso su Rockit.it il 2018-05-21 09:51:00

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