Pacifico - Telefonica, 27-01-2009

Capire prima di andare a fondo: idee chiare di una poetica in costante affinamento. Pacifico arriva al quarto disco e parla di oggi e ieri, di incursioni e fughe, di parole e parole. Con la precisa consapevolezza del proprio ruolo e di ciò che lo circonda. Di Marco Villa



Come è nato questo disco? Dopo gli esotici "Dolci frutti tropicali" la necessità di rifugiarsi "Dentro ogni casa"?
Il disco ha avuto una genesi molto diversa rispetto all'album precedente. Ho scritto tanto nei ritagli, di notte, sui metro, sui treni, sugli aerei. Era un continuo appuntarmi: ho sempre scritto parecchio, ma questa volta sentivo che le cose erano più a fuoco, più precise, riuscivo a tradurre rapidamente le emozioni che provavo. Nella composizione sono partito dalla chitarra acustica. Il mio amore per l'arrangiamento mi ha spesso portato ad avere schermate di suoni su cui cantare. Stavolta ho fatto in modo diverso. In più ho avuto anche alcuni mesi veramente difficili, dolorosi: non me la sentivo di ritirarmi a scrivere in solitaria, come avevo fatto per "Dolci frutti tropicali", quando ero stato via da casa per un anno, da solo. Avevo bisogno di stare in città, di rimbalzare su altre persone e ottenerne stimoli. "Dentro ogni casa" è un disco molto legato a una città, a Milano. L'ho scritto qui e si è rivelato una sorta di continuo investigare nella vita altrui. In questo senso la casa è da intendersi come un luogo di intimità, in cui si esce dai ruoli sociali. Se c'è stata la ricerca di un rifugio, era un tentativo di rifugiarsi nell'altro.

Il disco mi ha dato l'idea di un racconto che si snoda per salti ed ellissi, con continui richiami interni: le metafore di vento e bufera nei primi pezzi, concetti ripetuti come la caduta o lo strappo, l'estate sfiorata nel secondo pezzo e raggiunta nel penultimo. C'è un'architettura che regge tutto?
Senz'altro c'è un percorso che si snoda lungo le dieci tracce del disco e mi piace che ognuno possa costruirsi il proprio. Quello di cui parli è particolarmente complesso, ma avendo letto alcuni tuoi articoli mi aspettavo un'interpretazione di questo tipo. In un primo tempo avevo in mente l'idea di un condominio e pensavo di sfruttare questa immagine anche per la copertina: tante finestre per tante istantanee. Poi ho deciso di realizzare il tutto più sottotraccia, in modo emozionale, ma è rimasta la volontà di legare i dieci pezzi in un unico percorso armonioso. Pensavo anche a riferimenti cinematografici, ad esempio la scena finale dei "Vitelloni" di Fellini. Uno dei protagonisti decide di partire e mentre si allontana in treno da Rimini si intravedono veloci scorci dei suoi amici nelle proprie camere da letto. O come il video di "No distance left to run" dei Blur. È stata un po' questa la mia intenzione, una sorta di incursione immaginaria nelle vite degli altri, per coglierli nei loro momenti indifesi, per trovare la loro innocenza. Cercherò di ricreare questa intimità nel tour: andremo in giro con una formazione elettronico-cameristica, viola, elettronica e chitarra. Spero di riuscire a dare importanza alla mia voce, non tanto per fare virtuosismi che di fatto mi sono impediti dai miei stessi limiti, ma per provare a trasferire meglio le emozioni. È quello che mi rende utile.

Tornando al disco, "Un ragazzo" è un brano che pesa molto nel macro-racconto di cui parlavi.
È una canzone che considero molto importante, su cui ho dovuto riflettere parecchio a livello di equilibri di scaletta perché ha un forte impatto ed è molto diversa dagli altri pezzi. È un racconto duro, forte, segnato da un certa crudezza non solo per il tema che affronta – la morte di un ragazzo – ma anche per le parole e per la tecnica narrativa. Ho deciso di raccontare la storia come se stessi descrivendo nei dettagli una fotografia, come se da un'immagine ne volessi tirare fuori altre. La crudezza sta nel fatto di non aver voluto usare alcun tono da melodramma, ma di aver scelto uno stile asciutto, secco, concreto, che congelasse ogni cosa in un istante.

"Verrà l'estate" è una sorta di contraltare. È il seguito di "Gli occhi al cielo" (brano contenuto nel primo album, NdR)?
In un certo senso sì. Mi piace parlare delle stagioni perché mi offre la possibilità di toccare sensazioni che tutti proviamo. In questo pezzo si parla dell'esperienza di un sentimento liberatorio, che apre e cambia il modo di essere. Non è il primo pezzo sulle stagioni, non so se sarà l'ultimo. Ne ho scritti anche sull'inverno, è un modo di raccontare sensazioni condivise, di usare un linguaggio comprensibile a tutti.

Guardando ai lavori precedenti, il tuo primo disco rappresenta secondo me una perfetta sintesi tra pop e canzone d'autore. Con i due successivi trovo che hai un po' perso di vista questa strada, per poi recuperarla pienamente in "Dentro ogni casa".
Non dici una cosa sbagliata. Credo sia abbastanza tradizionale il fatto di realizzare un disco d'esordio strano, anomalo rispetto a quanto verrà dopo. Questo è ancora più vero nel mio caso, che mi sveglio a 37 anni e decido di fare un album solista raccogliendo spunti che avevo disseminato qua e là, insieme ai primi testi in assoluto. Spesso il primo disco è un momento irripetibile, perché c'è un'aderenza totale tra quello che sei in quel momento e quello che fai, senza avere condizionamenti esterni, come possono essere recensioni o reazioni del pubblico. In quella fase sei veramente molto vicino alla tua intenzione originaria e semplicemente la tiri fuori. Probabilmente anche per questo il mio primo disco è un po' strano, sperimentale: in quelli successivi ho cercato di addentrarmi di più in quello che stavo facendo. Il secondo è un disco ambizioso, che amo molto nonostante abbia qualche pezzo di troppo. Il terzo è arrivato in un momento complesso, in cui non sapevo bene come comportarmi a livello di carriera e di progetto discografico. Ripeto, credo sia un percorso normale: non perfetto, ma del tutto congeniale alla mia necessità di incanalare la creatività e acquisire una facilità di scrittura che prima non possedevo. Però capisco che chi ha amato la freschezza del primo disco abbia poi fatto fatica a trovarla nei successivi. Diciamo che in generale sto cercando il modo di rendere evidente quello che dico e come lo dico, senza prostrare la musica al testo. Anche perché la musica è il mio primo amore e le dedico la stessa cura dei testi, però voglio anche tenerla sotto controllo. In "Dolci frutti tropicali" ho usato l'orchestra: da musicista è splendido, un sogno che si realizza. Però all'ascolto può risultare troppo impegnativa, soprattutto se mescolata con elettronica o altri strumenti. Anche per questo è stata una delle cose che mi sono segnato tra i "non fare" per "Dentro ogni casa".

In questi anni hai scritto molto per altri cantanti, su tutto citerei "Sei nell'anima" per Gianna Nannini. Che sensazione si prova nel sentire le proprie parole diventare un successo in bocca a qualcun altro?
È una divisione che non vivo schizofrenicamente, anzi, mi consente di essere equilibrato, perché se dovessi dipendere dal mio prossimo singolo radiofonico mi ammazzerei. È un tipo di competizione che per carattere non riesco a sopportare, obbliga alla furbizia, qualità che personalmente non mi interessa. Se sei bravo e intelligente la furbizia va anche bene, ma nella scrittura dei pezzi ha il fiato corto. Scrivere per altri non è facile, perché implica la capacità di dosare gli sguardi, le occhiate impreviste, perché non puoi scrivere la stessa cosa, le stesse parole, per Celentano, Nannini o Bocelli. Ti costringe a fare emergere sempre di più le metafore, a renderle più dirette e trasparenti. Io vivo di musica da quattro anni, prima ho fatto la fame: scrivere per nomi come quelli che ho citato mi dà la tranquillità economica e mi consente di guardare con serenità alle scelte artistiche. Poi non posso negare che ci siano situazioni specifiche in cui posso avere dispiacere, interviste in cui magari non vengo citato, ma è più grande la soddisfazione di andare a una sagra di un paesino dell'Abruzzo e sentire la canzone a cui ho partecipato. Ed è una cosa che con le mie canzoni difficilmente succederebbe.

Andando a Sanremo nel 2004, però, sarebbe potuto succedere. A distanza di anni, cosa ne pensi di quella partecipazione?
Ho sempre la stessa opinione di Sanremo: è un palco su cui sono passate cose orripilanti, ma anche cose notevoli. È una prova professionale veramente difficile, o almeno lo è stata per me. Andare su quel palco, da solo, con un'orchestra e un contesto di gara. È una situazione strana: io ho compiuto quarant'anni mentre stavo da Vespa! Però è una delle poche occasioni per farsi vedere: non sono andato per cercare il successo e in questo sono stato accontentato. Sanremo mi ha aiutato a capire quello che non so fare, le cose in cui sono assolutamente acerbo. È stata un'esperienza negativa, ma non per il Festival in sé. Sono stato io a non essere all'altezza di una situazione in cui mi ero buttato e questo mi è dispiaciuto molto.

Sei uno di quegli artisti sospesi tra nicchia e grande popolarità, come vivi questa situazione?
Al grande successo non credo più. Non ho l'età, non c'è il mercato e quello che offro richiede sempre un approfondimento, elemento decisamente in controtendenza. Quando vedo una cosa che ha successo mi rendo sempre conto di quanto sono distante. In quello che sento, io voglio trovare del talento e per farlo cerco di seguire tutto: vado ai concerti, anche minuscoli e lontani, ma leggo poco le riviste, le trovo rivolte a un pubblico lontano da me anche anagraficamente, che ha bisogno di credere a un antagonismo finto, raccontato da vecchi vestiti da giovani. Personalmente non voglio mai mettermi in bocca un nome senza conoscerlo: qualche anno fa tutti parlavano dei Baustelle. Prima di dire qualcosa ho preso la macchina e sono andato a vederli. Credo che oggi facciano parte di una serie di realtà ormai consolidate: penso a Frankie Hi-NRG, Bersani, Consoli, per non parlare di Capossela. È da loro che ormai ci si deve aspettare il meglio, perché i cosiddetti grandi hanno avuto la loro parabola. Oltre al talento, hanno avuto la fortuna di mettersi ad un tavolo con un foglio davanti in un momento di rivolta, di rivoluzione sociale, sapendo di rivolgersi a una massa non frammentata di milioni di persone. Adesso ragioni invece per tanti piccoli circuiti, ma non è detto che non escano cose che possono parlare a tutti. Ad esempio gli Amari, che hanno un linguaggio proprio e italiano, o lo stesso Bianconi, che qualche anno fa con "A vita bassa" ha pescato dalla realtà, dalla cronaca, ed è riuscito a parlare del presente. Perché anche oggi esistono modi di parlare a tutti con intelligenza: i linguaggi ci sono, esistono, però ci vuole qualcuno che abbia il talento e le antenne sufficientemente ritte per andar a trovare la forma.

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L'articolo Pacifico - Telefonica, 27-01-2009 di Marco Villa è apparso su Rockit.it il 2009-02-03 00:00:00

COMMENTI (1)

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  • vidra 15 anni fa Rispondi

    Grande Pacifico!Il suo nuovo disco è semplicemente geniale!
    Dopo averlo ascoltato, ho fatto un salto alla Ricordi per ordinare i suoi primi due lavori, ancora vergognosamente assenti nella mia audioteca!:)

    Viva la musica d'Autore.

    Frencio




    (Messaggio editato da vidra il 03/02/2009 13:44:48)