Tra elettronica, ultras e femminielli: il nuovo video di Liberato

Una disamina sul nuovo brano e nuovo video di Liberato “Me staje appennenn’amò”.

Liberato (tutte le immagini sono tratte dal video "Me staje appennenn'amò")
Liberato (tutte le immagini sono tratte dal video "Me staje appennenn'amò")

Sapevamo che doveva succedere: dopo l’anticipazione al Club 2 Club, era solo questione di tempo prima che Liberato tornasse a cantare e ad aggirarsi davanti alla macchina da presa di Francesco Lettieri con giacca e cappuccio di ordinanza. Perché le indiscrezioni sul legame con “Gomorra-La serie” e addirittura su un possibile smascheramento si sono rivelate una manovra montata ad arte (da chi?) per soffiare sulle braci, un po’ spente, della caccia all’identità del cantante misterioso. Se il tema dell’identità segreta non tiene più banco come prima, è anche vero che rimane alto l’interesse dietro al progetto e alle sue uscite, e forse è meglio così.

Anche perché qui, di novità, ce ne sono: come era stato anticipato, il nuovo brano “Me staje appennenn’ amò” è molto diverso dai suoi predecessori. Di nuovo la fine di una storia d’amore, raccontata ancora con disarmante sincerità e un’urgenza fatta di un uso intelligente dello slang napoletano, i soliti inserti in inglese (“Stong tutt' I love you” si prepara ad essere il nuovo tormentone). Ma le parole non rimbalzano su un beat trap, viaggiano su un tappeto più elettronico, cassa dritta e charleston aperto, che in effetti si inserisce in quella che, Cosmo docet, potrebbe essere una delle prossime tendenze della musica italiana.

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La nuova, ottima prova di Lettieri&co rappresenta anch’essa una svolta rispetto ai precedenti videoclip del cantante incappucciato: al posto della romance in salsa napoletana o caraibica, tre storie diverse ma legate da un filo comune, al posto delle carrellate di scenari da cartolina un po’ patinati e della mitologia partenopea in primo piano, uno sguardo più obliquo su Napoli e i napoletani. Ci sono ovviamente luoghi simbolo come il Vesuvio, piazza Plebiscito o lo stadio San Paolo, i vicoli e le piazzette nascoste della zona dei Decumani, c’è la cultura ultras nelle scritte sui muri e nei riti a base di fumogeni. Sono però lo sfondo e il contesto di tre scene che vanno oltre le storie d’amore scugnizze di “Tu t’e scurdat’ ‘e me”“Gaiola portafortuna” e puntano l’obiettivo sulla comunità LGBTQ, raccontando l’avventura di due ragazzi in una villa abbandonata dalle parti del Vesuvio, una relazione lesbica in un gruppo di giovani ultras e la notte, fra taralli a Mergellina e discoteca, di un gruppo di transessuali. Un mondo ancora al centro di parecchie battaglie e rivendicazioni, fra le quali c’è sicuramente quella legata alla forte sotto rappresentazione di cui è oggetto nel mondo dei media e della cultura, in particolare in Paesi come il nostro.

Scegliere queste storie per il video di una canzone che ben si sarebbe sposata ad una storia d’amore probabilmente più vendibile, è già di per sé una scelta significativa ed originale che potrebbe dimostrare, come il concerto al Club 2 Club, una capacità di raccontare e raccontarsi anche oltre le premesse iniziali che non era scontato aspettarsi. Probabilmente, però, si sbaglierebbe a considerarla una scelta del tutto aliena all’operazione di rielaborazione in chiave contemporanea della mitologia napoletana che il progetto Liberato sta portando avanti. Infatti, quello che possiamo considerare il corrispettivo nell’universo tradizionale locale di una persona queer o transgender, il femminiello, è da secoli una figura importante e molto presente nel tessuto sociale napoletano. Rispettati e considerati portatori di buona fortuna, i femminielli partenopei non si sono mai dovuti nascondere, come notato con stupore da commentatori europei già nel 1500, ma anzi erano protagonisti di diversi momenti del folklore campano: la tombola vajassa, le tammurriate della Madonna dell’Arco, il rito della figliata dei femminielli e soprattutto la processione della Candelora al santuario di Montevergine. La Mamma Schiavona, come è soprannominata la Madonna nera di Montervegine, è considerata protettrice di omosessuali e transgender, a causa di un miracolo che l’avrebbe mostrata benevola verso una categoria per il resto vessata dalla Chiesa Cattolica. Il culto della Madonna nera, in realtà, si innesta su quello precedente della dea greca Cibele, i cui officianti erano sacerdoti eunuchi e vestiti e truccati secondo la moda femminile.

Potrebbe essere proprio la forte influenza della cultura greca, particolarmente aperta nei confronti dell’omosessualità e della sessualità fluida, ad aver fatto dell’Italia meridionale e in particolare di Napoli un posto in cui certe identità sessuali hanno sempre trovato un ambiente più favorevole che altrove. Perché, al di là degli aspetti superstiziosi che oggi possono suonare anacronistici o anche irrispettosi e di cui rimane solo qualche retaggio, quello che è interessante notare è che nei vicoli dei quartieri popolari di Napoli i femminielli siano sempre stati accettati e rispettati, presi in giro affettuosamente e sempre mettendo in conto una risposta anche più pungente dello sfottò iniziale. Senza indulgere in mitizzazioni eccessive e senza minimizzare le problematiche che la comunità LGBTQ ha incontrato e incontra a tutte le latitudini, questo retaggio forse è una cosa di cui si potrebbe essere orgogliosi, soprattutto in tempi di meridionalismo carburato (anche) a sparate sull’invenzione del bidet, e che è giusto venga presa in considerazione e attualizzata da chi ambisce a raccontare la Napoli di oggi. Al di là delle critiche che accusano Liberato e chiunque ci sia dietro di banalizzare l’immaginario napoletano in una versione edulcorata e poco autentica buona solo per l’esportazione, è innegabile che con questa manciata di canzoni e di video si stia provando a mettere in scena un’interpretazione del variegato cosmo della città, e con questa ultima uscita si è colto nel segno con stile e originalità. Continuando, coscientemente o meno, a stendere un filo rosso che parte dalle tammurriate rituali passando per la “Gatta Cenerentola” di De Simone, che proprio alla figura del femminiello deve alcuni dei suoi momenti migliori, per il Pino Daniele di “Chillo è nu buono guaglione”, per Curzio Malaparte che ne “La pelle” descriveva il rito della ‘figliata dei femminielli’, messa in scena anche da Ozpetek nel recente “Napoli velata”, o anche per Andy Warhol, che fra le cose che più lo hanno colpito del suo soggiorno a Napoli ricorda proprio la presenza dei transgender che gli ricordava l’ambiente newyorkese.

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L'articolo Tra elettronica, ultras e femminielli: il nuovo video di Liberato di Sergio Sciambra è apparso su Rockit.it il 2018-01-23 10:15:00

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