Pasta Queen: Loredana Bertè nella Factory di Andy Warhol

Eccentrica, anticonformista, a tratti scandalosa: Loredana Bertè, gli inizi, la moda, New York e la sua esperienza nella Factory di Andy Warhol

La copertina di Made in Italy, © Christopher Makos
La copertina di Made in Italy, © Christopher Makos

Party sfacciati nell’East Side, walkman e vagabondi, i glitter della 5th Avenue. Il Bronx che brucia. Arte da consumare ad ogni ora del giorno e della notte come a Coke and a Smile, da gettare tra i frantumi del Watergate, aspettando all'angolo della 59esima la Reaganomics che sta per cambiare il volto dell’America repubblicana. Le mille luci effervescenti di una Grande Mela fra “esagerato vitalismo e vertigine sul nulla”: è il 1981 quando Loredana Bertè raggiunge New York insieme al produttore e compagno Mario Lavezzi, per imparare l’inglese e lavorare al nuovo disco. Per la musicista, reduce dei riscontri più che buoni di “LoredanabertE’”, si tratta di una fase positiva, in cui presto le lezioni di lingua – frequentate in una scuola dove la cantante conosce anche Pelè - lasciano il posto all’immersione nella vita culturale della città e alla visita di teatri, gallerie e locali della Grande Mela.

Quando la Bertè si trova a New York è una figura che è già stata in grado di sollevare un grosso interesse (e un’importante censura) intorno a sé, prima come ballerina – dopo l’esordio al Piper Club di Roma, dove conosce anche il futuro amico Renato Fiacchini (Renato Zero), entra nel corpo di ballo di Rita Pavone “Collettoni e Collettini”-, attrice – nel 1969 è Jeanie nell’allestimento italiano del musical “Hair”, in cui interpreta una scena completamente nuda, avendo già recitato tre anni prima nella commedia musicale “Ciao Rudy” di Garinei e Giovannini, dedicata a Rodolfo Valentino - e naturalmente cantante, sia come corista (in “Per un pugno di Samba” di Chico Buarque, nel 45 giri prodotto da Pippo Baudo “Gingi” e nello straordinario “Oltre la collina” della sorella Mia Martini), che in forma solista a partire dal 1974.

Loredana Bertè e Renato Zero negli anni '70
Loredana Bertè e Renato Zero negli anni '70

Quello della Bertè è un esordio inconfondibile già dal titolo (“Streaking”, irrompere nudi tra la folla), che la distingue nel panorama italiano per un’istintiva attitudine provocatoria, sostenuta da un timbro graffiante e dalla scelta di occuparsi di tematiche oltraggiose per l’epoca, in un concept album interamente dedicato al sesso libero, cantato, spesso capricciosamente, da una donna del tutto emancipata. L’operazione va in un senso tanto contrario al buoncostume del tempo da danneggiare i riscontri commerciali del disco, che viene ritirato dal mercato per il linguaggio utilizzato (la Bertè inserisce la parola “cazzo” in un testo di musica leggera) e per le fotografie di nudo integrale della cantante inserite al suo interno, realizzate l’anno precedente dal fotografo Mauro Balletti per un servizio di Playboy. Nell’arco di pochi anni seguiranno il grande successo del singolo “Sei bellissima” (1975) e gli album “Normale o super” (1976), “T.I.R.” (1977, anno del premio Vota la voce come rivelazione dell’anno), “Bandabertè” (1979) – primo a valerle un riscontro significativo a livello di vendite - e la svolta funky di “LoredanabertE’” (1980).

Eccentrica, anticonformista, a tratti scandalosa, non è un caso che la Bertè sia anche vicina a una casa di moda milanese che in quegli stessi anni sta trasformando il concetto di stile in Italia e nel mondo: Fiorucci, che sta vivendo un apice dorato e una fase di forte crescita a livello globale, dopo aver del resto già sconvolto la capitale della moda nel 1967, quando in Galleria Passarella fa la sua comparsa un concept-store completamente trasparente, progettato dalla scultrice e artista Amalia Del Ponte (già al lavoro sul “negozio spaziale” per la moda beat Gulp!!) e provvisto – totale novità per il tempo - di un impianto sonoro di alta qualità ad opera di Cesare Fiorese, progettista di discoteche della costa spagnola. Maglie sahariane, skinny jeans, monikini, sacchi di iuta trasformati in borse, zeppe altissime, kilt, stampe con Topolino: quello di Elio Fiorucci è un negozio anticonvenzionale per l’epoca, sgargiante fantasia technicolor che inonda di musica a tutto volume un ambiente “bianco frigorifero” ridotto all’essenziale, dominato da una scala di metallo pervinca e dotato di un soppalco su cui si arrampicano giovani commesse in minigonna, mentre dietro le vetrine campeggiano neon, tinte fluo e accessori colorati. È la grande rivoluzione pop della moda, da cui lo stilista viene folgorato tra Carnaby Street e il Biba di Barbara Hulanicki a Londra e che per primo incrocia alla moda italiana cogliendone l'immenso potenziale commerciale, sublimato in un nuovo concetto di abbigliamento dove lo stile personale è eletto a protagonista assoluto e in cui i simboli della società dei consumi diventano vere e proprie icone sotto l’egida del doppio cherubino.

Le prove della band di Loredana Bertè, foto di Achille Oliva
Le prove della band di Loredana Bertè, foto di Achille Oliva

E l’avvicinamento tra la Bertè è il mondo Fiorucci segue un corso naturale e luccicante, che inizia già con gli spregiudicati abbigliamenti unisex condivisi sulle strade di Roma insieme all'amico Renatino per poi decollare verso gli Stati Uniti: a New York, la musicista abita – così a Maurizio Becker in “Musica leggera”, giugno 2009 - “al 49mo piano di una torre altissima, tonda, tutta nera e tutta vetrate” in un appartamento di proprietà di Fiorucci che divide con l’amico Leonardo Pastore. Sarà lui a introdurla al megastore Fiorucci della 59a strada aperto nel ’76, che, nel segno della modernità architettonica italiana di Ettore Sottass, Andrea Branzi e Franco Marabelli e dell’inconfondibile impronta dello stilista di Porta Venezia, susciterà l’immediata curiosità della New York intellettuale, “tribù in cerca di libertà” da cui sarà presto eletto a luogo di ritrovo: interni semplici riempiti di abiti stravaganti diventano la passerella di brillantini e plastica del jetset americano, vorticoso party pomeridiano (“daytime Studio 54”) che a ritmo di disco-music attrae icone nascenti – Marc Jacobs, una giovanissima Madonna, Elizabeth Taylor, Cher, Keith Haring, Truman CapoteDiane von Furstenberg, Klaus Nomi e Colette, che dorme un’intera settimana in vetrina -, insieme a curiosi, stilisti e una moltitudine di creativi e artisti a cui si propone come venue per il lancio dei loro progetti individuali, dal “Paper Magazine” di Kim Hastreiter alla rivista di gossip “Interview”  di Andy Warhol.

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Quella del creatore di arte seriale è una presenza costante nel negozio di Fiorucci, gotha della mondanità che esercita un’enorme attrazione sulla mente dietro la Factory più famosa al mondo (“It’s everything I’ve always wanted, all plastic”) e che sarà sede dell’ incontro con la cantante di Bagnara Calabra, inizialmente scambiata – così nelle parole della Bertè, maggiore fonte dei racconti sul rapporto con l’artista - per una barista della caffetteria presente nel negozio. È Leonardo Pastore a chiarire l’equivoco, presentando i due e dando così avvio a quella che si rivelerà una collaborazione fruttuosa per la musicista, presto invitata alla Factory e soprannominata dallo stesso Warhol “Pasta Queen” per le sue apprezzate doti culinarie.

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In quei mesi, la Bertè sta lavorando al nuovo album “Made In Italy” ed è alla ricerca di una band per registrare alcuni brani già pronti: è il compositore e produttore Eumir Deodato, incontrato per caso, ad accompagnarla agli Electric Lady Studios e a presentarle i Platinum Hook, gruppo funk con cui la cantante intraprenderà una collaborazione prima in studio, registrando i suoi pezzi nei momenti liberi dei musicisti che in quel periodo sono impegnati anche in altri progetti, e in seguito volendoli al proprio fianco in tour.

A colpire particolarmente Warhol durante una visita agli studi di registrazione (così nei racconti della cantante) è “Movie”, brano disco funk in apertura al disco. Per questo pezzo, la Factory realizza un videoclip diretto da Don Munroe, sovrapponendo in chroma key l’esibizione della Bertè realizzata alla Factory a riprese dei palazzi illuminati e delle insegne luminose della città. L’esperimento, un viaggio iridescente attraverso la notte newyorkese, costituisce un unicum per il mondo della musica italiana, in nessun altro caso onorato dalla produzione di materiale firmato dalla Factory, e viene inoltre accompagnato dalla progettazione del concept del disco, che vede sulla inner sleeve le stampe della mappa della metro di Milano e di alcune cartine topografiche e sul retro della copertina la bandiera italiana con apposta la firma di Warhol.

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Quello tra Warhol e le copertine di dischi è un rapporto che si inscrive in una più ampia relazione simbiotica (quando non vampirica) tra Drella e il seguito che lo circonda, in un reciproco meccanismo adamantino e sotteso, dove il forte riconoscimento che Warhol regala ad artisti e musicisti diffondendo un po’ della sua aura argentata sulle loro opere contribuisce a rafforzare il suo stesso valore di icona e ad impreziosire l’immaginario artificiale e appariscente che la circonda. Ideatore di oltre sessanta cover, quando nasce la collaborazione con l’artista italiana Warhol ha già alle spalle precedenti irriverenti ed emblematici, a partire dal 1949 –all’opera, appena ventunenne, per una copertina di Carlos Chávez- e passando nel corso degli anni per Thelonius Monk, Beatles (sono estratti dagli Screen Tests realizzati alla Factory i fotogrammi della copertina di “A Hard Day’s Night”), il celeberrimo banana album dei Velvet Underground, la “most infamous zip” per Sticky Fingers dei Rolling Stones (1971), Liza Minnelli, John Lennon (il postumo "Menlove Ave" del 1986, rilasciato sotto la supervisione di Yoko Ono) e Aretha Franklin.

A realizzare lo scatto di copertina del disco, uno scontroso primo piano della cantante, un artista che orbitava intorno alla Factory di Warhol e che proprio quest’ultimo introdusse all’uso della fotocamera, di lì a poco dichiarandolo “the most modern photographer in America”: Christopher Makos, diretto apprendista di Man Rey a Parigi, che sarà responsabile della rappresentazione in fotografia di alcune fra le maggiori icone del Novecento e i cui lavori saranno pubblicati dai maggiori quotidiani del tempo (tra essi Paris Match, Rolling Stone e Wall Street Journal), trovando posto nelle maggiori gallerie e musei del mondo (Guggenheim a Bilbao, Tate Moden a Londra, Reina Sofia a Madrid fra questi). Un secondo scatto dello stesso servizio sarà utilizzato due anni dopo per la copertina di “Jazz”.

(La copertina di "Made In Italy" con lo scatto di Christopher Makos, 1981)

Attraverso otto tracce che abbracciano il funky, flirtando occasionalmente con il rock (lo straordinario capriccio de “La goccia”) e avendo in mente il ritmo in levare scoperto qualche anno prima ad un concerto di Bob Marley in Giamaica, il disco dà spazio al racconto americano della cantante, che fa però una comparsa equilibrata nella narrazione di cui la Bertè è interprete. Da un punto di vista tematico, sarebbe sbagliato pensare che “Made In Italy” parli di America per il solo fatto di menzionarla: più che un racconto fra luci e ombre della naked city, quello della Bertè è un saluto inconfondibilmente italiano dal retro di una cartolina, in cui l’esperienza newyorkese è un contorno di cowboy e cavalli rubati, slot-machine e ponti sopra l’Atlantico, che arricchiscono il bagaglio di storie della musicista senza però mai sottrargli centralità e tendendo a non imprimergli coordinate geografiche concrete e precise. È così che trovano posto la quanto mai universale “Ninna nanna”, il canto apolide di “Amica notte” o il manifesto di “Canterò”, che non sembrano subire particolari influenze dal soggiorno americano, mantenendosi maggiormente legati alla precedente discografia.

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Per la Bertè, un paio di tracce di “Made In Italy” sono anche l’occasione per cimentarsi per la prima volta in assoluto con i testi a fianco del fedele paroliere Oscar Avogadro: nasce così la bellissima “Lontano da dove”, inizialmente destinata al film omonimo della regista Stefania Casini, insieme a “Canterò” e alla celebrativa “Number one”, canto di fiera gioia posto a conclusione dell’intero lavoro, composta da alcuni membri dei Platinum Hook e in cui la musicista inserisce diversi passaggi in inglese. Menzione a parte per il riuscito singolo "Ninna Nanna", brano reggae di sesso marino e cielo azzurro musicato da Alberto Radius e per il cui video la cantante sceglierà un look da pirata, e per i bizzosi giochi linguistici dell’aggressiva “La goccia”. “Amica Notte”, quarta traccia del disco nel cui testo è menzionato anche il controverso padre della cantante, è invece l’unico brano firmato da Gianni Bella nell’intera carriera della musicista. 

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La presenza della Factory di Warhol in “Made In Italy” si limita comunque ad un piano strettamente estetico: a livello musicale, il disco procede infatti nel solco della continuità con il precedente "LoredanaBertE’" (1980) e in particolare con quella matrice funky che già nel disco dell’anno prima aveva segnato un punto di svolta nella discografia della cantante, arricchendone la commistione tra pop e reggae e costituendo un naturale viatico per l’imminente “Traslocando” del 1982.

E del resto, per quanto certamente permeato delle atmosfere continuamente cercate dal suo fondatore, quello al 860 della Brodway, già terzo tempio di Warhol e del suo entourage, è un ambiente irreversibilmente differente rispetto alle due precedenti versioni della Factory: dopo il tentato omicidio a Warhol del 1968 per mano di Valeria Solanas, femminista e autrice del Manifesto SCUM (Society for Cutting Up Men, in italiano tradotto come Manifesto per l’eliminazione del maschio), la Factory si trasforma infatti da olimpo anfetaminico popolato di modelle, drag queen, gay e artisti dal fascino decadente in un luogo creativo ma blindato, scelto in virtù della presenza di una scala antincendio sul retro, protetto da una porta antiproiettile e sorvegliato da un sistema di telecamere a circuito chiuso, con un cardboard Andy paranoico che teme lanci di bombe dalle finestre e fa assumere receptionist straniere per confondere eventuali aggressori– così nelle parole del collezionista Bob Colacello.

Sesto disco in studio della Bertè, “Made In Italy” può essere ritenuto a tutti gli effetti un disco di passaggio nella carriera della musicista, con alcune tracce di particolare interesse ma non in grado di riscuotere un gran successo di pubblico: a livello di vendite, il disco non raggiunge le 100 000 copie del suo predecessore (si attesta intorno alle 70 000), né riesce ad anticipare l’enorme successo del seguente disco di platino “Traslocando” prodotto da Ivano Fossati, al punto che la commercializzazione del 45 giri “Movie/ La goccia” viene bloccata per evitare di incidere negativamente sulle vendite del 33 giri.

A distanza di quasi quarant’anni, Made In Italy rimane però una testimonianza unica della sola collaborazione tra un’artista italiana e lo studio di una delle menti creative più importanti al mondo. La osserviamo come un quadro dalla cornice lampeggiante, come un fuoco d’artificio evanescente, come un racconto che si immerge nel suo tempo. E ne esce ricoperto di vernice colorata.

 

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L'articolo Pasta Queen: Loredana Bertè nella Factory di Andy Warhol di Giulia Callino è apparso su Rockit.it il 2017-12-01 10:00:00

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