Mai Mai Mai - Alle radici del concetto di rovina

Toni Cutrone si racconta: l'infanzia passata nel non-luogo del porto di Crotone, la passione per i fields recordings e l'Italian Occult Psychedelia

MAI MAI MAI
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Ascoltando Mai Mai Mai e immaginando la sua infanzia tra l'Egeo e il sud Italia, ho fatto un salto indietro di circa dieci anni, quando comprai un libro a Parigi che si intitolava "Territoire Méditerranée". Si trattava di una raccolta di saggi che abbracciava una prospettiva alquanto inedita, non quella della storia istituzionale, degli stati, delle frontiere, quindi di un'identità che si definisce in rapporto all'alterità, bensì quella del territorio continuo del mare. L'aspetto interessante era: se guardiamo alla storia dei popoli dal punto di vista del Mediterraneo e non solo da quello della territorializzazione, cambiano molte cose. L'identità diventa un concetto fluido e di ricerca tra presente, passato e futuro, più che qualcosa di acquisito. Nasce da questa suggestione questa intervista a Toni Cutrone, uno dei protagonisti più febbrili ed enigmatici dell'Italian Occult Psychedelia, pensata come una lunga chiacchierata al tramonto, sospesa tra le ombre lunghe delle navi, prima di lasciare il porto e partire l'indomani. Mai Mai Mai suonerà a Milano allo Spazio Ligera, il 7 aprile, nella serata organizzata da Plunge

Trovo che la tua musica sia particolarmente densa, e non lo dico esclusivamente da un punto di vista sonoro, bensì da un prospettiva “culturalista”, dando a questa parola un significato sia di commistione di riferimenti culturali sia richiamando quel filone dell'antropologia che, incontrando la psicanalisi, rappresenta spesso un'incursione nel privato. Voglio dire, nella tua musica ci sono viaggi: nel passato, forse nei ricordi, sicuramente fisici e mentali. È così?
Sì, Mai Mai Mai nasce come un viaggio: una sorta di colonna sonora di alcuni momenti della mia vita, che rievoco attraverso la dimensione emozionale della musica. Da un lato è un viaggio personale, nella mia infanzia, dall'altro rappresenta l'incontro con altre culture, in termini di suoni, lingue, colori che ai tempi non comprendevo pienamente. Si tratta di una storia che sul piano immaginifico cerco di restituire anche attraverso la perfomance. Tutto però avviene in maniera oscura e sfocata, perché da un lato si parla di ricordi, guardati attraverso la lente distorta del tempo, quindi tra il vero e il romanzato, dall'altro, di percorsi interiori, che sono sempre piuttosto opachi. La verità è che sono cresciuto in una famiglia di marinai, soprattutto dalla parte di mio padre, immerso in un mondo di armatori, di gente che lavorava al porto, dove io trascorrevo gran parte delle mie giornate, i sabati dopo la scuola, quando saltavo sui rimorchiatori per andare a recuperare le navi chissà dove. Mi trovavo lì, in mezzo a questo rumore assordante di motori giganteschi e onde del mare. Ne ho tratto molte ispirazioni.


(Il porto di Crotone)

Questa dimensione erratica viene dall'aver vissuto intensamente il non-luogo del porto?
Effettivamente sì. Essendo bambino, più che spostamenti miei erano viaggi che arrivavano a me, dai navigatori del Mediterraneo attraverso francobolli, monete, souvenir, che raccoglievo e conservavo per andare sulle cartine a cercare i paesi da cui provenivano. Per via di queste esperienze ho sempre immaginato, forse un po' romanticamente, che il Mediterraneo fosse una sorta di sistema sovrastatale, un'Europa prima dell'Europa, in cui Calabria, Sicilia, Turchia, Grecia, Nord Africa erano culturalmente molto più simili tra loro, rispetto a Francia, Scandinavia e Germania. Il porto però non era solo un luogo di incontro, ma anche di scontro, dove il mare e la bellezza di un tramonto vicino a un faro, confliggevano con l'industria, il lavoro, l'economia, il rumore, lo sporco.

Potremmo dire che con Mai Mai Mai fai esplodere le geografie del rumore? Non si tratta solo di noise, ma di drone, ambient, atmosfere scure, culture lontane o arcaiche. Fascinazioni per l'Estremo Oriente tanto quanto l'idea di un passato polveroso. Volevi accompagnarci nel tuo mondo senza confini, romantico e meccanico?
L'idea iniziale era quella di costruire un percorso attraverso le registrazioni di sonorità legate alle culture del Mediterraneo. Grecia, Turchia, Libano, Nord Africa, Sud Italia, sono entrate a far parte di questa struttura armonica e disarmonica che avevo in mente. Non si trattava di Power Electronics o del muro di suoni che arriva dritto allo stomaco, volevo creare qualcosa che alternasse momenti riflessivi, potenti e sognanti, utilizzando i synth, le macchine elettroniche e i ritmi, facendoli scontrare con field recordings e registrazioni d'archivio di (etno)musicologi e antropologi che hanno lavorato in Sud Italia, come Diego Carpitella e Alan Lomax, e sul folclore del Mediterraneo. Ci sono poi registrazioni che spaziano dai canti, ai rumori del mercato a quelli dei motori delle barche. Mi interessava delineare questo immaginario tradizionale e disseminarlo in un contesto più contemporaneo, lasciando prevalere alcune volte le voci, altre i motori. Capaci di schiacciare i suoni esattamente come l'intervento umano sulla natura.

Quindi esiste un dialogo, anche se conflittuale, tra Uomo e Natura?
Certamente. Per quanto mi piaccia immergermi nella natura, so benissimo che la presenza umana non si può eludere. Anzi mi affascina questa compresenza di naturale e artificiale. Alla radice di Mai Mai Mai del resto c'è il concetto di rovina. Lavoro molto sull'archeologia industriale e sulle rovine classiche, sulla decadenza che scaturisce dall'abbandono, quando la natura riprende il sopravvento.

Esiste una correlazione tra questa visione e l'idea di affogare nel noise tutti i riferimenti culturali che aggreghi?
Riprendendo il discorso della memoria sfocata, ricorre sempre questo sentimento del tempo sia come mancanza di chiarezza e pulizia sia come erosione.

Mi pare tu abbia un approccio molto visivo alla musica. Ne parli sempre partendo dalle immagini. 
Per me l'aspetto visivo è molto importante. Da un lato, è ricordo dall'altro, immaginazione. Lo si può capire soprattutto dalla perfomance, dove combino un live mascherato scandito da una candela che si consuma, con video e vecchi documentari che scorrono alle mie spalle, come quelli Vittorio De Seta sulle tonnare siciliane, sui pescatori in Calabria o quelli di Luigi Di Gianni sulla Puglia e il Sud Italia. Mi piace evocare atmosfere riconducibili al paganesimo o che si rifanno all'incontro tra cattolicesimo e magia. È una dimensione occulta legata al folclore, che fino a venti o trent'anni fa era fortissima in Meridione.

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È un modo interessante per mettersi alla ricerca dell'identità. Ha qualche relazione anche con l'occultare il volto? Col significato performativo e plurale della maschera?
Con Mai Mai Mai ho ricominciato da zero, interrogandomi su chi ero e ho indossato una maschera che simboleggia la ricerca di una nuova identità artistica e di un volto, che per riconoscersi si mette in cammino nel passato.

La maschera si ritrova frequentemente anche nell'estetica dell'orrore, no?
Creare un personaggio significa essere confrontarsi con le proiezioni degli altri. Le mie prime maschere venivano spesso associate al Ku Klux Klan, pur provenendo da tutt'altro immaginario. I film dell'orrore sono una grande radice per Mai Mai Mai, ma non per il travestimento. Le maschere derivano da un mondo religioso pagano, quello delle processioni.

Continuando la riflessione sul Mediterraneo e addentrandoci più nella tua produzione musicale, con "Petra" si conclude la Trilogia dedicata a questo mare. Mi racconteresti qualcosa di più sul percorso sviluppato attraverso questi tre album: "Theta", "Delta", "Petra"?
In realtà la Trilogia non è ancora conclusa, perché "Petra" è solo un'appendice al viaggio. L'ultimo album sarà "Phi", che uscirà a settembre. L'idea di impostare questa produzione in capitoli nasce dall'esigenza di concludere un ciclo, iniziato con "Theta", lettera che sta Thanatos. Da un punto di vista metaforico Theta è l'unione di morte e mare e simboleggia per me un nuovo inizio.
"Delta" è il triangolo. Rappresenta l'idea della perfezione. All'interno dell'album c'è anche un pezzo che si intitola "Tetractys" che richiama il numero dieci, fondamentale per i Pitagorici per comprendere la realtà. E lo è anche per me, che sono cresciuto a Crotone, dove Pitagora aveva fondato la sua scuola, dopo il lungo viaggio che dalla Grecia l'aveva condotto prima in Oriente e poi in Egitto.
"Petra" invece è un'appendice. Perchè le pietre tra i souvenir di viaggio che preferisco. L'idea era quella di raccontare i luoghi a partire dalle rocce, dal loro essere fossili e memoria, riflettendo anche sulla lenta erosione nel tempo.

Da un punto di vista sonoro, che cosa li distingue?
Seguono la mia crescita personale. "Theta" è il primo album ed è strutturato in canzoni, per così dire. Mentre gli altri due sono più un amalgama unico. In "Petra" ho cercato di restituire un aspetto minerale anche nel suono. C'è questa rocciosità di fondo che dialoga col mare. Sia nelle parti più “idriche” e asciutte che rappresentano il moto ondoso sulle rocce, sia in quelle più impetuose. Quindi si parte da un allontanamento - "Theta" che inizia con le barche che si avvicinano e finisce in mare aperto, - attraversando in "Delta", il mare inteso come paesaggio interiore. Con "Phi" continuerà il lavoro sul sacro, per approdare alle profondità del mare.



L'attinenza col mare è ancora una volta intrigante perché il detrito nei periodi di bassa marea rappresenta un inno all'immaginazione ma anche un oggetto abbandonato da cui può partire un percorso di risignificazione. Che cosa rappresenta per te, soprattutto alla luce del field recording?
In Sud Italia o in Grecia, i detriti sono le rovine buttate nel quotidiano, da ascoltare e conoscere. E su questa linea, il field recordings, sono registrazioni rubate ai luoghi e riportate in vita archeologicamente in modo arbitrario in un contesto presente. Rappresentano ciò che è stato abbandonato, ricostruito, riutilizzato. Un tempio diventato prima fortino, poi granaio e museo. Registrazioni sbiadite e deteriorate. Questo aspetto mi piace molto sia a livello concettuale sia di suono. Nei live lavoro con le cassette, perchè mi piace questo impastarsi e deteriorarsi del suono, andare a velocità diverse. Rappresenta una distorsione del ricordo che è fondamentale. E poi ci puoi improvvisare insieme.

Possiamo dire che tu abbia una visione archeologica della musica?
Non saprei, certamente mi interessa pensare al suono come cultura e mantenerlo vivo esattamente come le culture. Se penso ad Alan Lomax e ai suoi archivi di registrazioni in tutto il mondo, li trovo più evocativi di qualsiasi film o documentario. Il suono inteso come memoria di un popolo, mi affascina molto, perché registrarlo significa immortalarlo.


(La processione dei Crociferi a Noicattaro, Bari)

Parlando della tua etichetta, in una precedente intervista su The New Noise hai affermato: “NO FI non è un’assenza di fedeltà alla qualità del suono, è un’assenza di fedeltà ai generi e alle etichette”. Mi piace questa idea di infedeltà, perché è una caratteristica del viaggiatore. C'è un bellissimo libro di Eric J. Leed che si intitola "La mente del viaggiatore. Dall'Odissea al turismo globale", che delinea questa figura a partire da tre interpretazioni: il viaggiatore classico, alla Ulisse, scaraventato nel viaggio dal destino; il cavaliere, che lo sceglie per affermare il suo valore e il turista, evoluzione massificata del cavaliere, che si muove nei luoghi di consumo e nei resort, facendo esperienza delle altre culture come in un museo. Abbiamo a lungo parlato delle prime due tipologie di viaggio: quello non scelto dell'infanzia, quello scelto del percorso musicale. Che cosa mi dici invece di quello più “turistico”, riguardante i suoni del presente e del futuro? L'accelerazionismo intendo, sul quale di recente ti sei brevemente pronunciato.
Quando ho fatto il clash tra hauntology e accelerazionismo ho voluto mettere a confronto due opposti, da un lato un passato distorto, dall'altro un presente digitale, fatto di pulizia, suoni di WhatsApp, notifiche di Facebook. L'idea che nel mondo in cui viviamo queste due direzioni possano convivere, non necessariamente pacificamente, mi ha spinto a raccontarlo. 

Passiamo ora da Mai Mai Mai al Thalassa e all'Italian Occult Psychedelia. La stampa straniera ha parlato a più riprese di una scena che pochi conoscono nel nostro paese e che tu hai cercato di rendere più visibile aggregandola in un Festival. Dagli Hiroshima Rocks Around fino a Mai Mai Mai hai militato nel noise e nella psychedelia da molto tempo. Che cosa rappresenta quindi l'I.O.P.?
Il primo a parlare di I.O.P. fu Antonio Ciarletta nel 2011, in un articolo in cui descriveva una scena molto radicata in Italia e composta più o meno dagli stessi personaggi da quindici anni. Io per esempio ho cominciato nei primi duemila con gli Hiroshima Rocks Around, nel 2005-2006 andavamo in giro con i Movie Star Junkies, nel 2007-2008 con i Father Murphy. I Movie Star Junkies hanno poi formato La Piramide di Sangue, poi c'erano i G.I.Joe che sono diventati gli In Zaire, quindi si tratta di persone sono accomunate dallo stesso background, non da etichette di genere. Anzi, da questo punto di vista l'I.O.P. è assolutamente eterogenea, perché è prima di tutto un'appertanenza fisica e un'attitudine. Riunirla nel Thalassa è stato un percorso naturale, anche perchè gran parte dei gruppi che hanno suonato al festival, già nella prima edizione, erano passati da DalVerme. Quindi ha rappresentato una vetrina per una scena realmente esistente.

Che naufragio o visione d'insieme vuole restituire?
L'aspetto interessante di questa scena è che cancella gli ultimi vent'anni di musica italiana che ha guardato altrove dimenticando le sue radici. Di recente si sta verificando un movimento opposto, da parte di una generazione interessata a riprendere in mano il passato italiano musicale, che va dagli anni '70, alla grande library musique, alle sperimentazioni di un primo Battiato fino all'avanguardia di Luciano Berio o Luigi Nono. Questo percorso viene colto in maniera molto chiara all'estero, perché non ci si aspetta dagli italiani che facciano il grunge di Seattle o l'hauntology inglese. Con la compilation di Nostra Signora delle Tenebre siamo andati in questa direzione, abbiamo coinvolto gruppi che lavorano sugli anni '70 italiani e gli abbiamo chiesto di confrontarsi con le colonne sonore di quel periodo, cercando di ripristinare una connessione perduta, quarant'anni dopo, con maestri come Morricone o gli Heroin in Tahiti. 

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Parliamo ora di musica e immaginari gotici provenienti dal cinema. Emblematico è il tuo rework di "Sette Note in Nero" di Fulci, film a metà tra il giallo e l'horror. Però credo che tu non sia indifferente neanche all'eredità barocca dei Goblin in "Suspiria" di Dario Argento. Che cosa mi racconti di questo transito tra l'occulto e la paura?
Dire horror italiano per me significa ricordare i film che guardavo con mio fratello da bambino. Da un punto di vista registico e musicale ho sempre avuto una predilezione per Fulci, perchè riusciva a provocarmi incubi e sensazioni molto scure. L'autore di gran parte delle sue colonne sonore poi è Fabio Frizzi, che di recente sta portando in tour un progetto chiamato "Frizzi to Fulci", molto apprezzato all'estero. Nel mio immaginario c'è anche Dario Argento, come ci sono gli spaghetti western. Ma a livello di suono la mia attitudine va a Lucio Fulci e Mario Bava.

Oltre all'horror, c'è qualche eco della fantascienza e dei suoi landscape sonori nel tuo lavoro? In "Petra" per esempio sembra di ascoltare delle trasmissioni radio provenienti dall'esplorazione di luoghi remoti, stracolme di interferenze...
La fantascienza per me è importante per i suoi viaggi nel tempo e per la coesistenza di diverse culture. Penso a Tarkovsky, a "2001: Odissea nello Spazio" tanto quanto a "Star Wars". 2001 apre con la meravigliosa scena delle scimmie a cui segue quella del lancio dell'osso nello spazio accompagnato da suoni siderali. Trovo che sia molto vicino al conflitto che cerco di generare tra natura e cultura. L'idea di far scontrare drammaticamente tempi lontani tra loro: canti sacri bizantini, folclore Mediterraneo con synth, noise, drone, ambient, registrazioni di motori e ritmi più techno.

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L'articolo Mai Mai Mai - Alle radici del concetto di rovina di carlotta.petracci è apparso su Rockit.it il 2016-04-06 14:46:00

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