Margherita Vicario - Tutte dicono I love you, io no

In attesa di vederla sul palco del MI AMI, ci presenta il suo nuovo video e ci racconta in anteprima l’album che uscirà il prossimo autunno. E molto altro ancora…

Fino a 12 anni viveva nella campagna fuori Roma dove, già da piccola, poteva stare in giro da sola (l’importante era tornare prima del tramonto). Ha imparato ad essere creativa con poco e, grazie a sua nonna, ha capito che le storie d’amore contano più dei grandi registi o delle pellicce. Nel frattempo è diventata attrice anche lei - dai "Cesaroni" fino a “To Rome with love” di Woody Allen - ha inciso un disco tre anni fa e il prossimo autunno ne pubblicherà un altro. In attesa di vederla al MI AMI, vi raccontiamo la storia di Margherita Vicario.

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Partirei da “La matrona”, di cui presentiamo il video in anteprima in vista della tua partecipazione al MI AMI, ce lo racconti?
È il monologo di una persona che dice una serie di cose, tutte piuttosto sbagliate, ad una bambina di 9 anni. Non sono veramente io, qui uso la mia parte di attrice anche se in tutto questo marciume una cosa buona c’è: “Non farti fregare dall’invidia, è importante trovati un’amica”.

Vista la tua carriera d’attrice, ma chi te lo fa fare di intraprendere anche quella di musicista dove ci sono ancora meno soldi e meno soddisfazioni?
Sbagli, con la musica di soddisfazioni ce ne sono eccome. Come attrice non mi posso lamentare, sia chiaro, ho un discreto curriculum e ogni anno riesco a lavorare sia su film super indipendenti che nelle fiction, ma ti assicuro che quella dell’attore è una vita desolante. O sei l’attrice del momento e, come accade Italia, lavori solo tu, altrimenti devi per forza fare anche qualcos’altro. Per questo la musica è così importante per me.

In più di un’occasione hai detto che il tuo nuovo disco che uscirà in autunno è davvero importante per te. Mi spieghi perché?
Tieni presente che le canzoni del primo album, “Minimal Musical”, le avevo scritte molto prima che uscisse il disco. È passato così tanto tempo, sono cresciuta, sia dal punto di vista sonoro che nei testi, ma soprattutto come persona. “Minimal Musical” era il disco scritto da una studentessa di 22 anni, questo rappresenterà più chi sono io oggi.

In “Minimal Musical” tutte le canzoni avevano almeno due personaggi, in queste nuove invece sei quasi sempre da sola, come mai?
Facendo tante date dal vivo mi sono resa conto che non puoi sempre costringere le persone a seguire ogni dettaglio che racconti. Magari può funzionare nei teatri, dove il pubblico è seduto e può anche essere interessato a immaginarsi la storia che stai cantando ma, più in generale, non volevo più prendere l’ascoltatore per mano e dirgli passo passo cosa stava succedendo nel brano.

In realtà mi interessava più l’aspetto emotivo, qui sembra che tu scavi molti più a fondo nelle tue paure, è così?
Scegliere di non avere più brani dove protagonisti sono figure come il merlo, il pettirosso, il sirenetto, ti costringe a fare a meno delle maschere. Tolto l’eccezione de “La matrona” e di un altro paio di canzoni, in tutte le altre sono davvero io la protagonista.

Quanto ci metti scrivere un pezzo?
Dipende, alcune restano in cantiere anche per un anno, altre nascono in molto meno. Una canzone di questo nuovo album, ad esempio, è nata in 10 minuti netti, ho fatto una telefonata lunghissima e subito dopo l’ho scritta.

E con chi l’hai fatta questa telefonata?
Eh, con un ragazzo (ride). Ho messo giù il telefono e mi è uscito tutto, riga dopo riga, ho aggiunto quattro accordi ed era pronta.

Gli uomini delle tue canzoni sembrano quasi tutti stronzi, è così?
Ma no, poracci, ma che dici? (ride). Ci sono personaggi che sarebbe meglio non frequentare, è vero, ma ci sono anche donne che sono talmente innamorate da diventare psicopatiche. Mi interessava raccontare i tanti punti di vista di quando si sta male per amore.

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In "Per un bacio" dici “Si può amare solo ciò che si conosce ma desiderare il resto”, ne vogliamo parlare?
Per quella canzone avevo saccheggiato “La melodia del giovane divino” un libro di Carlo Michelstaedter, un poeta italiano che è morto suicida agli inizi del ‘900. Ho usato alcuni suoi pensieri per raccontare di una volta che avevo passato un’intera serata a chiacchierare con un ragazzo. Avevo parlato tantissimo: sai quando scoperchi i tuoi “massimi sitemi interiori”, vuoi raccontare a qualcuno chi sei veramente o cosa sia l’universo umano, ecc. In realtà lui voleva solo pomiciare ma, poraccio, si è dovuto sentire tutti questi discorsi per ore e poi non è successo niente. Su quella frase che hai citato, in realtà, negli anni ho anche cambiato parere: all’inizio credi di desiderare solo quello che non puoi avere, ma quando ti innamori davvero di una persona capisci che il vero desiderio è conoscerla sempre di più.

E adesso con l’amore come va?
Eh, va abbastanza male (ride). Grandi passioni ma poi… Al momento voglio concentrarmi su un altro tipo di realizzazione, la potresti chiamare “professionale” ma, in realtà, è una forma d’amore anche quella.

È difficile scrivere una canzone d’amore?
Nel primo disco non ce ne era quasi nessuna, in questo nuovo ce ne saranno di più e ti direi che non è stato poi così difficile scriverle. Si può parlare d’amore anche quando i protagonisti non sono un uomo e una donna, l’importante per me è rappresentare il punto di vista di chi vive una certa cosa. Un po’ come “La matrona”, anche se lì, ripeto, non sono io la protagonista.

Ti sei sempre presentata un po’ come la ragazza della porta accanto e prima d’ora non avevi mai giocato con un immaginario più sensuale, non ti interessava?
Di mio sono così, non sono una panterona alla Beyoncé - che comunque non andrebbe nominata invano - ma ora che sono più grande posso prendermi anche qualche responsabilità in più. Non mi interessa che il mio personaggio sia sexy, voglio spingere su quell’aspetto solo se è coerente con cosa sto raccontando. Nel nuovo album ci sarà una canzone che si chiama “Vieni qui” - il titolo va inteso pensando a due persone che fanno l’amore - e lì sarebbe sensato fare un video più erotico perché sarebbe davvero a servizio della canzone.

(foto di Cosimo Nesca)

Se ti chiedessi la donna che rappresenta bene la tua idea di sensualità chi sceglieresti?
È difficile rispondere, per me la parola “sensualità” rappresenta un concetto tridimensionale. Ti direi che mi piacciono le donne complesse, ma suonerebbe banale. Tutte le donne sono sexy a modo loro, adoro i film di Valerie Donzelli, mi piace Beyoncé per il suo essere così borderline tra la donna-oggetto e la donna che comanda. Se parliamo poi di musica pop, la donna sexy in Italia non c’è proprio. Chi abbiamo, la Tatangelo, Levante

Ci sono state ragazze che hanno spinto su questo tipo di immaginario - tra le ultime ti potrei citarti Roshelle, Francesca Monte, prima c’era stata Ada Reina, ovviamente Baby K e altre ancora - ma certamente è un modello che non fa ancora parte della nostra cultura.
È un immaginario più oltreoceano, noi siamo lontani anni luce da tutto questo. Poi l’Italia è davvero il fanalino di coda d’Europa.

Giusto per fare un po’ gli indignati?
(ride) Intendevo dire che non ci sono soldi nella musica, nel cinema e nella cultura in generale. È chiaro che se non si investe poi le cose cambiano più lentamente. E poi, ripeto, per me è importante un certo tipo di coerenza. Io c’ho i complessi, ho un pessimo rapporto col mio corpo, non potrei mai fare la parte della donna sensuale a meno che non c’entri davvero con la canzone.

Sei una persona insicura?
Totalmente.

Ti piace la tua voce?
Mi piace, il microfono ti dà quel piccolo senso di potere, è una sensazione stupenda, però con la mia voce ho un rapporto di ansia totale, ho sempre il terrore che mi succeda qualcosa. Non ho mai studiato canto e spesso mi ostino a cantare in tonalità non adatte a me. In questo nuovo album sono contenta del risultato: nel primo ero più bambina, in questo riesco ad essere dolce, incazzata o anche incazzatissima.

Perché secondo te ci sono poche donne nella musica italiana?
È un discorso lungo e complesso. Abbiamo nel nostro DNA un bagaglio culturale tale per cui anche l’uomo italiano più liberale, colto, progressista e sensibile ascolterà sempre la donna con un orecchio diverso ed è normale che in noi donne ci sia più inibizione ad esibirci. Sembro una che si sente perseguitata dai maschi?

No, chiaro. Mi domando però se la musica sia un mondo in cui si possano cambiare le cose più facilmente, ci sono donne come Taylor Swift o Nicky Minaj che hanno davvero acquisito un potere economico forte.

Non bisogna confondere l’estero con l’Italia ma, per certi versi, hai ragione, a volte i musicisti tendono a piangersi addosso troppo facilmente, soprattutto le donne. Sarebbe importante saper valorizzare quello che c’è già, magari contornarsi di altre donne e far capire che non esiste solo il fonico o luciaio, ma anche tecnici donna altrettanto bravi.

Qui qualcuna si offenderebbe perché è come se volessi le quote rosa nella musica, no?
Non intendevo quello, ti faccio un esempio: l’altro giorno sono stata al concerto di Levante e ne sono uscita fomentatissima. Da quanto tempo non vedevamo una cantautrice su un palco così grosso, con quel tipo di produzione e uno show così? Si capiva che avevamo davanti proprio una donna, con tutta una serie di sfumature che un uomo non avrebbe mai. Levante non vuole fare la figa e basta, capisci che le interessa mettere sé stessa in quello che scrive. Credo sia importante saperlo riconoscere, no?

Sono d’accordo.
Come ti dicevo è una questione complessa, c’è una parte di me che crede davvero che questi discorsi andrebbero presi con molta più leggerezza. È difficile essere convinti di determinate posizioni perché, in primis, è difficile esplorare in profondità certe zone della propria personalità, ma bisogna anche attenersi ai fatti: la legge sul divorzio è passata nel ’74 e fino a cinquant’anni fa c’era il reato d’adulterio, giusto per fare due esempi.

Fare l’attrice ti porterà ad un lavoro introspettivo piuttosto importante, è utile per scrivere canzoni?
Mi auguro che tutti scavino nelle proprie emozioni. È l’unica cosa che ci rende umani: piangiamo quando ci manca qualcuno oppure ci fomentiamo quando siamo felici. Fare l’attrice è molto diverso da fare la cantautrice. Ci tengo al mio lavoro, mi preparo a lungo: se in una scena devo piangere non voglio usare il collirio o altri escamotage e mi concentro molto fino a quando non ci riesco. Recitare vuol dire spremere determinati aspetti del tuo carattere ed è più faticoso spremerli per finta rispetto a farli scorrere più liberamente. Quando scrivo una melodia, invece, diventa tutto più spontaneo, anche se la canzone è allegra un bel piantarello me lo faccio sempre lo stesso.

Anche nelle tue canzoni più pesanti c'è sempre un velo di leggerezza, sei d’accordo?
Mi piace portare a galla i lati ironici, o tragicomici, di alcune situazioni. In più mi piace vedere le cose sempre con un occhio distaccato. Il mio autore preferito in assoluto è Brecht, che è uno che ogni scena ti dice “io ti sto racconto questa cosa, ma ricordati che sono pur sempre un attore, non ci credo davvero fino in fondo a tutto quello che dico”. Mi piace questa doppia lettura delle cose.

Un po’ alla Spike Jonze, insomma.
Chiaro, adoro Spike Jonze, ma anche Gondry e altri registi che hanno affrontato questo tipo di discorsi.

Cosa si impara lavorando con Woody Allen?
Si impara ad aspettare. Per cambiare una luce tra un campo e un contro-campo ci mettevano ore, non scherzo. In più ti rendi conto che anche questi grandi personaggi, considerati da tutto il mondo come dei geni, alla fine sono persone normali. È pur sempre un signore di ottant’anni.

Eri una secchiona da piccola?
No, ma ho fatto la primina perché ero indignata per il fatto che non sapessi ancora leggere e scrivere a quattro anni e mezzo. Pur non essendo una secchiona il mood “prima della classe” ce l’ho dentro.

È faticoso essere una figlia d’arte?
In realtà sono figlia di professionisti del settore, è diverso. Mia madre è una sceneggiatrice, ha fatto la “TV dei ragazzi”. Eravamo una famiglia numerosa e ha sempre inventato modi per tenerci attivi nonostante vivessimo in campagna isolati da tutti. Mio padre è un regista di fiction, fa il capo-operaio, non fa il cinema, non è Bellocchio o Virzì, per intenderci. Sicuramente mi hanno dato la visione disillusa di questo lavoro, la mia famiglia mi ha insegnato che la creatività spesso non ha niente a che fare con il cinema, è più vicina invece a inventarsi giochi che non esistono, appassionarsi alle cose, vivere una bella storia d’amore…

I tuoi nonni erano le vere star della famiglia.
Mi nonno era un regista, mentre mia nonna l’ho conosciuta quando viveva in giro per il mondo. Ha fatto l’attrice fino a quarant’anni lavorando con tutti i più grandi - Risi, Monicelli, Bertolucci, ecc - e poi ha deciso di smettere. Il cinema le faceva schifo, ha conosciuto Walter Bonatti, un esploratore che scriveva per Epoca, e per altri quarant’anni ha viaggiato con lui. In quello è stata una vera artista, prima si considerava solo un’interprete. È questa sua seconda vita ad avermi ispirato davvero, non certo il periodo con i soldi e le pellicce. Sono cresciuta nel brodo primordiale di donne che hanno sempre fatto un po’ come cazzo volevano. 

 

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L'articolo Margherita Vicario - Tutte dicono I love you, io no di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2017-05-22 11:59:00

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