Xabier Iriondo - Milano, 19-11-2005

“Arte è giocare, arte è sperimentare, arte è evolversi”. Xabier Iriondo è tornato, anche se in realtà non se n’era mai andato. Ha aperto un negozio tutto nuovo, inedito per l’Italia e Milano in particolare. Si chiama Soundmetak (sound = suono + metak = covone di paglia in basco), è pieno di oggetti rari e costosi, interresanti e di culto. L’occasione era dunque ottima per andare a sentire ciò che l’indimenticato chitarrista degli Afterhours aveva voglia di raccontare. E – vedrete, leggerete – le cose da dire sono state tante: la sua visione romantica della musica sperimentale, la noia del pop-rock anglosassone, l’amore per la canzone italiana post-guerra, la scena d’avanguardia italiana, il Tora! Tora! e il Torchiera, Milano e la VoxPop, Bugo e la Wallace, le major e le indipendenti, i suoi sogni più inaspettabili. Ma non solo. Xabier si racconta dopo tanto tempo in cui ha preferito solo e soltanto suonare. Parlata lenta e forbita, “r” un po’ moscia, inevitabile aplomb da avanguardista. Un’ora e mezza di dialoghi per 20 000 battute per le quali prendersi un po’ di tempo. O almeno questo è il nostro consiglio

Il sito di Soundmetak



E’ strano vederti in questa nuova veste di negoziante/imprenditore, dopo averti conosciuto come musicista pop-rock e avanguardista. Che cos’è Soundmetak?
Innanzitutto, per partire da capo, prima di suonare con gli Afterhours ho sempre fatto musica sperimentale. Sin dal 1992, quando iniziai a suonare con loro, già facevo parte dei Six Minute War Madness. E durante quella esperienza ho sempre mantenuto attivi altri progetti, che nascevano dal bisogno di scoprire nuovi territori e nuovi nidi vicini al rock e a forme apparentemente lontane da questo, come il jazz-rock deviato. Era il mio reale bisogno di far musica. Questa cosa nuova del negozio, l’allontanarsi dal mainstream, dal far dischi, è qualcosa che ho sempre avuto dentro. Io sono sempre stato un ricercatore di sonorità; anche negli After, dove, oltre ad arrangiare i brani assieme a Manuel Agnelli e agli altri, portavo un contributo esterno al pop-rock in senso stretto. L’idea del negozio è ormai molto che la porto con me. Come in qualsiasi attività commerciale dovrò cercare di camparci, pagare un commercialista ecc. Ma io lo intendo quasi come un laboratorio. Dove musicisti e appassionati potranno trovare strumenti particolari, difficilmente rintracciabili in Italia, e oggetti musicali autocostruiti o con una fattura artigianale.

Qualcosa di lontano da un negozio tradizionale.
Si. Chi vuole iniziare a suonare va comprarsi uno strumento in un negozio come fosse un supermercato dove si acquistano prosciutto e formaggio, e non ha un gran rapporto con chi vende. Cerca solo l’oggetto che offre la garanzia minima di qualità ad un prezzo favoloso. Da me questo non succederà: le cose costeranno abbastanza e saranno solo strumenti artigianali, semi-industriali e/o rari. Chitarre hawaiane, lapsteel degli anni ‘20-‘30-‘40, strumenti costruiti da Leo Fender prima ancora che aprisse la Fender, quando aveva il suo laboratorio dove elaborò prototipi che portarono alla chitarra elettrica. Ma non solo: ci saranno poi anche riproduttori: radio, grammofoni di inizio secolo e supporti (vinili, cd di musica indipendente e d’avanguardia). E soprattutto non sarà un luogo dove venire solo a comprare, ma ci si potrà passare del tempo. Ci sarà un juke-box dove si potrà ascoltare la musica che selezionerò io, oltre a leggere riviste... un luogo insomma dove vivere la musica con un piglio differente rispetto ai normali negozi.

Sei ambizioso.
La sfida sta nel creare una cerchia non di utenti, ma di persone che possano entrare in gioco. Per sviluppare progetti, ad esempio. Voglio fare installazioni e presentazioni, eventi audiovisivi, ecc. L’idea è quella di costruire una piccola rete, non voglio rimanere un’isola felice in un deserto. Voglio costruire rapporti con attività commerciali, associazioni, centri sociali, o chiunque abbia voglia di sviluppare un discorso culturale che sta venendo sempre meno. La gente ormai vive in un individualismo sfrenato: compra le proprie cose e si chiude in casa a sviluppare il suo trip. E finisce tutto lì.

Quando si aprono attività commerciali è perchè si presuppone la presenza di una possibile utenza, dunque la necessità di soddisfare una richiesta. Non credo che la tua voglia di aprire un negozio sia un capriccio, ci deve essere un motore che ti abbia stimolato l’idea.
Non cerco una utenza specifica, ma differenti. Nel mio negozio, per esempio, collezionisti di 78 giri di early-jazz ed early-blues di inizio secolo troveranno materiale che in Italia non si può trovare, perchè in quegli anni in Italia c’era il fascismo, che non permetteva l’importazione di quel materiale musicale.

C’è un libro di Enzo Gentile – “Legata Ad Un Granello di Sabbia” (Melampo Editore, 2005) – nel quale l’autore attribuisce al fascismo e alla sua politica autarchica e culturalmente repressiva l’arretratezza della musica in Italia. Vent’anni di canzonette di regime pesano ancora oggi e non ce ne si libera.
Vero. Infatti è opportuno differenziare. Nel mio negozio terrò inoltre pedali per chitarra elettrica, essenzialmente booster con amplificatori e distorsori (inglesi, americani, anche italiani) fatti quasi interamente a mano. Prodotti che costeranno tre o quattro volte quanto costa un prodotto giapponese industriale, ma che offrono garanzie di qualità e di personalità che oggi nell’entertainment è raro trovare. La sfida è dunque fondere utenze differenti per creare un nuovo meta-linguaggio musicale. Per musicisti e per fruitori: se sei appassionato di blues primordiale potrai trovare anche i grammofoni dell’epoca, così da poter ascoltare la musica come si ascoltava ai tempi, con il fascino della storia.

Ti senti un Don Chisciotte?
Ogni volta che fai qualcosa di nuovo sei un po’ Don Chisciotte. Secondo me rompere il ghiaccio non porta ad una nuova consapevolezza, ma è un modo di scoprire altre possibilità per vivere le cose, al di fuori di uno standard generalizzato. La sfida sta nel trovare un pubblico aperto a questa esigenza, e io sono convinto – un po’ per la mia esperienza di vita in Italia e in Europa – che ce ne sia bisogno. Anche perchè, in realtà, di locali come quello che aprirò io ce ne sono già, all’estero. Da noi invece c’è sempre paura, e ci si adagia: se vuoi aprire un negozio di strumenti musicali, fai un nuovo Lucky Music (negozio di Milano, sui Navigli, Ndr), e sbagli completamente range. Perchè un negozio tradizionale è un fallimento: il mercato è appannaggio di coloro che anni fa aprirono alla logica del supermercato.

Credo che tu quando hai deciso di dare il via a questo progetto ti sia posto la domanda: ce la farò? Ad un certo punto bisogna fare i conti con il mercato. Che aspettative hai dal punto di vista della ricezione della tua proposta?
Io sono partito dal presupposto che, per ogni articolo che terrò nel mio negozio, ci sia un possibile acquirente. E’ un mercato di nicchia, ma alla domanda di questo mercato non c’è risposta. La gente oggi va su internet per cercare questa musica, magari in cataloghi esteri. Io voglio costruire un rapporto diretto con gli artigiani, per gli strumenti, e con i produttori delle etichette, per quanto riguarda i dischi. Per esempio terrò tutto il catalogo della Table Of The Elements, una delle etichette improvvisativo/avanguardistico più importanti del mondo, che in Italia è difficile trovare.

L’Italia ha una scena avanguardistica vivace. Forse è davvero una delle poche realtà per cui si possa parlare davvero di “scena”.
Io non credo nelle scene, non credo siano mai esistite. I musicisti hanno un sentore proprio che deriva dagli stati emozionali che provano e che vogliono trasmettere. Si verifica qualche volta che in determinati spazi, musicisti abbiano un sentore comune, ma questo spesso non dipende dalla geografia o dall’età. Perciò parlare di scena è riduttivo. Racchiudere in una “banda” un gruppo di teste pensati differenti è un errore. Il bello dell’arte è che ci sono tante versioni differenti. Se poi in termini di pittura si è voluto parlare di cubismo perchè affrontavano temi con sentori comuni, va bene... ma è perchè questi pittori si frequentavano: si ponevano determinate domande e le affrontavano in maniera simile. In musica è la stessa cosa.

Incasso con felicità la tua risposta. “Scena” è una convenzione e in quanto tale limititava, ma solitamente la usiamo per facilitare comprensione e linguaggio. Ma andiamo al punto. Nella musica italiana spesso è difficile trovare interazione fra i gruppi. Un famoso critico cinematografico ha scritto poco tempo fa, sul Corriere: “Fellini andava a cena con De Sica, parlavano, litigavano, c’era scambio; Muccino invece?”. Ho notato che fra i musicisti dediti all’avanguardia – da Bruno Dorella a te passando per la Wallace – c’è scambio, interazione. C’è stato addirittura un festival interamente dedicato.
Io penso che – parlo per me – la mia necessità di dialogare dipenda dal fatto che ho un continuo bisogno di mettermi in gioco. Ripetersi non è vantaggioso, non solo artisticamente ma anche umanamente. Cerco perciò sempre nuovi stimoli, con soggetti con i quali c’è contatto oppure anche no. E allora nasce la sfida. Ecco perchè mi sono allontanato dal rock: è conservatore e reazionario, e lo è sempre stato, fin dagli anni ’50. Si è appropriato di schemi e stilemi che sono lontani dalla forma artistica in senso puro. Arte è giocare, arte è sperimentare, arte è evolversi. Arte è trasformarsi e rimettersi in gioco. Io credo in questa cosa perchè mi far stare bene, è qualcosa di molto alto. C’è un dialogo e uno scontro, giochi di forza e amore, nell’incontrarsi sul palco e improvvisare. Voglio sviluppare i linguaggi della vita delle persone, e nelle forme improvvisative in generale c’è una complicità di schemi: è importante star bene, è importante affrontare percorsi non comuni e dunque riscoprirsi. E ogni giorno che passa sentirsi rinato. Credo che nella scena (si ferma, sorride, prosegue, NdR) ci sia un gran bisogno di sentirsi, di vedersi, di toccarsi, di scambiare. C’è una consapevolezza di fare qualcosa di trans-continentale. Ci si confronta con qualcosa di non italiano, non come nel pop-rock dove i termini di riferimento sono gruppi anni 80-90 o modelli anglofoni che importati hanno dato vita a surrogati. Questa cosa non porterà ad una diffusione, ma a degli sviluppi nuovi. Cioè cercheranno delle strade nuove, non in termini assoluti, ma per loro. Questo va al di là della musica tout-court.

Bella questa visione quasi romantica del tuo genere. Musica come fuoco che brucia e rinasce. Ma voi che sperimentate, che ne pensate della melodia?
Per me musica è intelligenza applicata ai suoni. Soggetti che mettono in gioco delle formule per assembleare sonorità pure o artificiali per costruire qualcosa di fruibile alla persona stessa che lo crea o a potenziali ascoltatori. La melodia sconvolge l’animo umano, porta immediatamente a sensazioni emotive forti perchè spesso rievoca emozioni già vissute. Credo tanto nella melodia, ci ho creduto per tanti anni e continuo a crederci. Per me la canzone melodica italiana post-guerra è qualcosa di eccezionale.

Parli di Vianello? Bongusto?
Si ma anche Claudio Villa, Luciano Tajoli, Nilla Pizzi. Trovo in questo sentore autoctono una forza evocativa mai più raggiunta. Dagli anni ‘50 e ‘60 in poi – con i modelli anglofoni che hanno dettato la moda - sia stato un continuo rigirare la frittata. Quindi ascolto solo musica melodica del passato perchè mi evoca sensazioni primordiali, pure. Ed è la stessa cosa che faccio quando suono: preferisco stare vicino a qualcosa di puro piuttosto che avvicinarmi a un rimaneggiamento trito e ritrito. E’ per questo che non ascolto molto pop-rock, meglio ascoltare gli originali. Tanto non ho la necessità di vedermi dal vivo quei progetti perchè mi piace sentire emozioni nuove, musica d’avanguardia, improvvisativa contemporanea, classica, folk. Piuttosto che cantare quel pezzo ad un concerto lo eseguo dal vivo in spiaggia con gli amici, mi soddisfa di più.

Cosa ti piace di melodico?
Su di me hanno molto fascino le prime forme americane musicali di inizio secolo, che fondono tradizioni europee e africane. Il folk americano degli esordi, gli strumenti adottati, il ritmo che viene dall’Africa e i sentori melodici che spesso arrivano dall’Europa... insomma, quel nuovo metalinguaggio che poi ha dato vita a tutto: al rock, al jazz, al blues. La musica moderna in senso stretto.

Ti affascinano più gli embrioni.
Mi piacciono le invenzioni. Da sempre. Non solo nella musica.

Dicevi: superare l’individualità per sentirsi vitali nella fisicità della musica. Riscoprire il rapporto tra musicisti, suonare assieme. Manuel Agnelli ha spiegato il Tora! Tora! esattamente in questa maniera, come necessità di riscoperta comunitaria della musica, dove i musicisti potessero incontrarsi nel backstage, potessero di nuovo dialogare e superare i soggettivismi che c’erano. Cosa ne pensi?
Penso che sia positivo, ma non è una cosa nuova. A Woodstock nel 1969 accadeva già. Sentivi parlare Miles Davis con Santana.

Credi dunque che l’obiettivo sia stato raggiunto?
Non so. Non ne ho certezza perchè non ne ho fruito, non ho vissuto questi backstage. Non so se c’è stata una comunicazione che ha portato determinati gruppi nuovi a confrontarsi con gruppi del mainstream... Ma per quanto mi riguarda non credo sia fondamentale dialogare tra musicisti, conoscersi e tirarsi quattro pacche sulle spalle. L’importante è creare qualche concetto insieme. Festival autogestiti piccoli, liberi e senza sponsor possono dare un’altra visione: mettere e fondere insieme musicisti con il pubblico, fondere diverse forme artistiche. Per esempio, una label italiana come la Die-Shachtel – che all’estero vende tantissimo e in Italia non è conosciuta da nessuno – ha sviluppato un processo di riscoperta di musicisti dimenticati del panorama della musica contemporanea italiana. Ecco, al festival Trok! al Torchiera di Milano, ha sviluppato delle installazioni nella quali il pubblico entrava in spazi al buio ed era stimolato, perchè attraverso alcune torce scopriva tanti piccoli altoparlanti che, grazie ad alcuni sensori, producevano sonorità. Questo è mettere in gioco tanti discorsi, fondere musicisti d’avanguardia e rock ad un pubblico pop e d’avanguardia, pagando una cifra irrisoria.

Dunque, tornando al Tora! Tora!, non so se l’obiettivo sia stato raggiunto.

Hai vissuto la Milano della VoxPop, del Jungle Sound come laboratorio, dei Casino Royale, degli Afterhours, dei Ritmo Tribale, dei La Crus. Oggi che cosa c’è?
Le situazioni non si ripetono. Credo ci siano altre cose, probabilmente più avanti. Non si ripercorrono le fasi per le quali una etichetta come la Vox Pop, in un momento di grande tristezza, ebbe il coraggio di stampare dischi diversi. Oggi ci sono più realtà, i costi si sono abbassati, c’è una maggiore voglia ed esigenza rispetto a 18 anni fa di ascoltare e vivere discorsi musicali altri. Se al tempo c’erano i cantautori e i Litfiba, era normale per noi fare musiche diverse con fini differenti, anche da parte di ognuno. C’era la necessità di mettere sul piatto cose nuove perchè non c’era niente. Ricordo, per esempio, che nel 1988 vidi un concerto in piazza Vetra dove suonavano Ritmo, After, ecc. Saremo stati in trenta. Tali e quante ne vedo oggi ai concerti di musica improvvisativa, trasversale. Il pubblico quindi non è cambiato, sicuramente le esigenze e le offerte: c’è più professionalità, più idea di ciò che il pubblico desidera. Per quel che riguarda Milano non voglio fare paragoni, ma credo che la realtà della Wallace – non perchè pubblichi gran parte dei miei lavori – abbia qualcosa da dire. Ha un’idea trasversale di intendere la musica, è viva da parecchio tempo, ha pubblicato 58 dischi in 5 anni che hanno avuto sempre recensioni buone anche all’estero, cosa che la VoxPop non poteva immaginarsi. Questa fece il salto di qualità, e poi chiuse, quando prese i Prozac+ che poi vendette ad una major. Questa è la fine della VoxPop. La Wallace non avrà questa fine di percorso.

La Wallace aveva Bugo, ora in Universal.
Aveva Bugo. Prima che entrasse in una major.

Mirko (Spino, patron della Wallace Records) è molto arrabbiato riguardo questa cosa. Mi sbaglio?
Mirko è rimasto molto male. Non sono la persona più adatta a parlare di questo, ma – conoscendo sia lui che Fabio Magistrali, che produsse il disco che poi uscì su major – so che Bugo promise di non finire in una multinazionale. Quindi è normale che alcune persone siano rimaste male di fronte ad una scelta dettata dalle seppur giuste esigenze che ha avuto, ma in controtendenza con le cose dette in buona fede a persone con le quali lui aveva lavorato a patto che non andasse poi con major.

Le major sono ancora, secondo te, il male della musica?
Non so se si possa parlare di grave danno. Non credo nelle major perchè a loro interessa il Profitto (sottolinea con la P maiuscola, NdR) e dunque pongono paletti che nella creazione artistica non si dovrebbero avere. Non capisco perchè nella musica si sogni di entrare in una major quando invece in altre forme artistiche, come la pittura, lo scopo fondamentale non sia finire nella collezione del Guggenheim Museum, ma invece trovare anche solo un piccolo gallerista che acquisti i tuoi lavori. Dipende da cosa vuoi: io non voglio fare ascoltare la mia musica a centinaia di persone. Dunque non scendo a compromessi con le major che si accordano con radio secondo parametri concordati. Io non ci credo. Non voglio avere schemi come quello del singolo. Ma se trovassi un giorno una major che mi dicesse: Xabier, vieni con noi e fai quello che ti pare, io non avrei problemi a firmare un contratto. Ma non accadrà mai.

Come musicista italiano che ha avuto opportunità di suonare all’estero anche con altri artisti italiani – Zu, Bruno Dorella – qual è secondo te la differenza che c’è?
Non ho trovato grandi differenze. Forse c’è, in certi addetti ai lavori, una minore mediocrità. Per il resto il pubblico è uguale dappertutto. Mi è capitato di suonare un mese e mezzo la chitarra negli Zu con alla voce Domo Suzuki, voce dei Can (storica e seminale band degli anni ’70, NdR) in Francia, Paesi Bassi, Italia, e le risposte erano le stesse. Forse gli spazi dove abbiamo suonato erano meglio organizzati, più aperti, avevano una programmazione che contava artisti mainstream e anche realtà minori. Da noi invece i locali fanno o musica mainstream - e hanno paura di perdere 400 euro anche se in altre serate ne hanno guadagnato 4000 e non te lo dicono - oppure non possono permettersi grandi cifre e dunque si limitano agli indipendenti. All’estero poi c’è un maggior numero di piccoli festival locali, con però anche artisti internazionali. Da noi è rarissimo. Secondo me questo è sentore di apertura e possibilità di rischio che i promoter si permettono di avere. Ma non c’è una grande differenza, in realtà. Pensa che io ho visto Jon Spencer, che non è l’ultimo degli indipendenti in America, in un locale fuori New York di fronte a 30 persone.

Questa è una domanda credo stupida, ma è una mia curiosità. Alla Festa Dell’Unità di Milano, in ottobre, mi è capitato di vedere gli Afterhours suonare con Greg Dulli (Twilight Singers, Afghan Wings) e Mark Lanegan. Ci hai fatto qualche pensiero? Non te ne importa nulla? Te lo saresti aspettato? L’avresti immaginato? Che ne pensi della tua ex band che si esibisce con questi due dinosauri?
Non mi interessa. Li rispetto come musicisti e rispetto le cose che hanno fatto nel passato ma la mia aspirazione non è questa. Io invece ho un sogno: vorrei suonare con Bruce Springsteen. Ma a parte questo mi sono già tolto molte soddisfazioni: ho suonato dieci, dodici volte con Domo Suzuki, e sto parlando di un musicista che ha segnato la storia del rock e della melodia rock. Di un uomo che stimo immensamente a livello umano, per le scelte di vita coraggiosissime che ha fatto. Per me è un traguardo più alto rispetto ad esibirmi con un dinosauro del rock indipendente. Non mi piace confrontarmi con realtà vicine come possono esserlo Afghan Wings e Screeming Trees. Ma distanti, tipo appunto Springsteen, mio idolo di gioventù, visto 15 volte dal vivo. Non ho mai avuto l’ansia di suonare con i “grandi”... per me un grande è Massimo Pupillo degli Zu: grande musicista, grande persona, grande amico. Che ha suonato con Thurston Moore e Jim O’ Rourke. E forse sono un po’ più importanti di Greg Dulli...

Anche per queste tue scelte, sai di essere un’icona per molti?
I miei amici mi conoscono per quello che sono. Cioè Xabier. Spesso volte la gente mi attribuisce ruoli che non credo d’aver avuto, e che non ho tutt’ora. Mi dà fastidio, non ci credo. Se sei diverso, se hai una personalità, vieni messo là come un santino... non è l’atteggiamento giusto questo. Io ho 34 anni e ho fatto alcune cose. Spero di muovere situazioni ma in senso piccolo. Non credo nei massimi sistemi, credo invece nelle piccole realtà. Non credo nelle grandi scene e nei grandi festival. Quando ci sono più contatti umani, c’è più sincerità.

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L'articolo Xabier Iriondo - Milano, 19-11-2005 di Carlo Pastore è apparso su Rockit.it il 2005-12-19 00:00:00

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