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Baustelle - “Vivi contro la vita”

Live al MI AMI

BAUSTELLE
Vivi contro la vita

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Intervista di Alessandro Lolli
Art direction di Stefano Bottura

Video di Cosimo Nesca

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In sette album e 20 anni di carriera i Baustelle hanno cambiato tanti volti. Dal Sussidiario a oggi si sono avvicendati il cantautore che vuole il ciuffo di De André, réclame ballabili per sigarette, rock strappati per adolescenti suicide, Lee Hazelwood nel deserto, cori di mistici occidentali e dimore gotiche infestate da composizioni orchestrali. A Gennaio sono tornati con un disco “oscenamente pop” che non ha avuto paura di invertire la rotta di “Fantasma” e riprendersi il dancefloor. “L’amore e la violenza” alza i bpm, torna a far ballare, ma non ci pensa nemmeno a spegnere il cervello. Cambia la musica ma i temi rimangono: in discoteca o a teatro, i Baustelle ci parlano di amore e di violenza, di sesso e di morte.
Abbiamo incontrato Francesco, Rachele e Claudio per tirare le fila di questa avventura musicale che non ha mai nascosto ambizioni letterarie. Sono uscite fuori discussioni filosofiche e chiacchierate sul catalogo Netflix; fra trascendenza e quotidiano, ci siamo guardati intorno in quella vita che ci raccontano essere “tragica, bellissima e inutile”.

Un meme simpatico su internet recita “Non capisco se i Baustelle tornati giovanilisti non mi convincono perché sono vecchio io o perché sono vecchi loro” Cosa dite a vostra discolpa?

Francesco: In realtà non trovo che questo disco sia tanto giovanilista. Non possiamo fare nomi, ma vedo e sento in giro cose molto più “I wanna be young” di quanto abbiamo fatto noi. In fondo, poi, tutti vogliamo essere giovani. Ma non credo che “L’amore e la violenza” vada esasperatamente in quella direzione, o almeno non ce ne era la volontà. C’era la volontà, invece, di fare un disco che andasse verso la forma canzone tradizionale. La volontà semmai di essere più classici, non più giovani.

La gioventù però è un tema di cui cantate da sempre. Tante figure di adolescenti, quasi sempre femminili, hanno affollato le vostre canzoni: da Betty a Martina, da Monica a vita bassa alle bambine senza scelta. Come mai?

F: La presenza femminile dipende dall'eterosessualità di chi scrive, prima di tutto (ride). Scherzi a parte, le adolescenti sono interessanti da raccontare, mi affascinano, sono come delle bambine o delle fatine nelle fiabe. Sono il simbolo della fragilità umana, sono delle sventurate in un mondo devastato. E chiaramente non c’è solo un vago interesse erotico, ma anche una volontà protettiva. L’idea è raccontare una storia in cui la bambina entra nel bosco ed è tutto buio, un classico motore narrativo: la bambina che cammina.

Un’immagine che è esattamente l’incipit di “Ragazzina”, la canzone che hai dedicato a tua figlia da futura adolescente.

F: Mia figlia è la bambina più a portata di mano che ho che cammina da sola nel bosco.

A tal proposito un autore contemporaneo ha scritto “L’adolescenza non è soltanto un periodo importante della vita, bensì è l’unico periodo per cui si possa parlare di vita nel senso più pieno del termine”. È Houellebecq, uno scrittore che citi da sempre. Quanto gli devi?

F: All’epoca de “La moda del lento” uscì “Le particelle elementari”. Un libro che può piacere o meno ma che senza dubbio è importante, un romanzo che rimarrà nella storia della letteratura. A me colpì molto, ma in realtà sono forse più appassionato all’Houellebecq saggista e poeta. C’è questo libretto che si chiama “Rester vivant" che è illuminante, sarebbe da insegnare nelle scuole. Dice: “Un poeta morto non scrive più, da qui la necessità di rimanere vivi”. Questo non significa che tutti noi dobbiamo essere poeti, ma avere una naturale tensione a riprenderci questa cazzo di rivincita contro lo squallore del mondo. Cito a braccio un libro di Sgalambro sul quale Battiato scrisse una canzone. È un breve invito a rimandare il suicidio: “giovane ragazzo, lo so, ti vuoi sparare, ma rimanda; questa società non lo merita”. Una volta l’eroe romantico ambiva al suicidio come gesto nobile, oggi non è possibile.

L’invito a rimandare il suicidio si intravede in molte delle vostre canzoni: sembrano tutte una specie di esorcismo, un tentativo di rimanere vivi contro la morte. “La vita” in quest’album, “La morte” in quello precedente, e molte altre negli album passati. La definizione di esistenzialisti ottimisti vi calza?

F: No, non mi piace (ride). Ottimista è una parola che non mi piace. Però tu hai parlato di rimanere vivi contro la morte. In realtà si tratta di essere vivi contro la vita. Nel senso: la vita non è bellissima, e la prima cosa che viene da pensare è di lasciarsi andare, di ammazzarsi. Ma è proprio qui il punto: soprattutto nel periodo storico che stiamo vivendo, c’è la necessità filosofica di rimanere vivi, contro la vita e non contro la morte. La morte c’è, punto. Quando arriva non fai più in tempo neanche a lamentarti.

“È importante rimanere vivi per fare un torto alla vita.”

Mi dici che la vita non è bellissima, ma nella canzone la chiami così, tragica ma bellissima

F: Dico "bellissima essendo inutile". Non serve a nulla, capisci? È un soprammobile, un ninnolo… Per cui, cosa mi tiene in vita? Rimanere vivi per fare un torto alla vita. Vivi contro un mondo che in qualche modo ti vorrebbe morto. Sto imparando a farlo con naturalezza, spero di riuscirci

Rachele: Si tratta di trovare piacere nel resistere, trovarlo nel proprio percorso che può essere la musica, l’arte... il bello, se vuoi.

La via estetica compare da sempre nei vostri testi; ma a un certo punto, nel 2008, è comparsa anche la religione e non se n’è più andata. Da “Amen” in poi si affaccia Dio, anche con riferimenti biblici. Che vuol dire che resta poco tempo per capire il vangelo di Giovanni?

F: Che è più interessante perdere tempo nel cercare di spiegare razionalmente o irrazionalmente l’esistenza di Dio piuttosto che passarlo ad ascoltare un disco di brutta musica leggera. Parlo di ottimizzazione del tempo. Io non credo di avere troppe altre vite oltre la mia, sono ateo. Per cui da qualche anno a questa parte cerco di sfruttare bene il mio tempo, perché mi capita spesso di pensare che lo stia sprecando. C’è sempre l’influenza della società contemporanea, non sono soddisfatto, “I can’t get no satisfaction” come cantavano i Rolling Stones. Preferisco forzarmi di capire una cosa legata alla mia vita invece di canzoni che non dicono niente.

Perché il vangelo di Giovanni è legato alla tua vita?

F: Non lo è, è puramente metaforico. È il vangelo di Giovanni ma potrebbe essere Socrate.

Claudio: Anche io, come Francesco, ricerco tutto quello che mi arricchisce e per me, che sono molto insofferente, è difficile trovarlo. Capisco subito quando sto perdendo tempo.

È un pregio.

C: Ma anche un difetto perché a volte sbagli, il rischio è la superficialità. Ti fai un quadro mentale preciso e puoi sbagliare. Cose che reputavo inutili a 20 anni, le ho riscoperte a 40.

Tipo?

C: Di tutto: dalla letteratura, alla musica…

F: I Duran Duran(ridono tutti)

R: Io perdo molto tempo e per questo mi viene l’ansia. Però ci sono cose che non riesco a non fare, per esempio non riesco a non perdere tempo. Sto bene quando faccio musica, ma anche in un abbraccio, in un sorriso, nelle cose quotidiane.

Nei vostri pezzi c’è sempre una sorta di insoddisfazione esistenziale nei confronti della società. Penso ad esempio a “Il liberismo ha i giorni contati” in cui è molto forte il parallelismo tra dimensione politica ed esistenziale. Quanto è difficile scrivere canzoni politiche senza essere retorici?

F: Una delle cose che odio di più nella vita è la retorica, soprattutto applicata alla dimensione politica. Ne sento in giro di neo canzone politica, sento del qualunquismo pazzesco che mi ripugna. Meglio allora parlare con umiltà della propria piccola storia, preferisco la retorica applicata alla storia d’amore piuttosto che a canzoni politiche. È molto difficile scriverne. Forse si è persa l’abitudine, sono cambiati i tempi, se tu pensi alla canzone politica dei cantautori…

Anni ‘70?

F: Sì, appunto. Erano gli anni ’70, e l’Italia era un paese completamente diverso. Credo ci sia ancora il bisogno di essere politici e denunciare delle cose, ma ora è come se tutto fosse riportato a un livello da bar, è come se la musica leggera non ne fosse più in grado. Invece di rendere lirico il proprio desiderio di denuncia si tende all'accumulazione di invettive, non si cerca di piegare il messaggio a un discorso artistico.
Nelle canzoni in generale c’è un lessico limitato.

Dici che nella canzone politica questo è esasperato?

F: Ne soffre di più, ma soffrono di questo tutte le canzoni. Infatti cantautori o band che sono eredi naturali di certi cantautori storici tendono comunque a parlare d’amore. In realtà, bisognerebbe essere così bravi da non pensare né all’amore, né alla politica. Bisognerebbe essere Jacques Brel e dire tutto in un colpo solo (schiocca le dita, ndr): andate tutti a fanculo, sentite qua.

“Volevamo essere più classici,
non più giovani”

È difficile riportare la tua sensibilità nei testi quando li scrivi per altri? (ridono tutti)

F: Molto, infatti tendo a scriverne sempre meno. Mi dicono “l’apertura deve essere così, il ritornello cosà”; una volta inserii la parola “taxi” in una canzone e loro: “sei sicuro, taxi?”. E io risposi: “ma come, è la cosa più bella del testo! Togli quello e diventa la più vaga delle vaghezze”. Capisco pure che la musica leggera deve essere, appunto, leggera; ti deve svagare, rassicurare. Per cui è anche normale che uno che torna dal lavoro voglia mettere in macchina Viola Valentino invece di Guccini. Ma se vai ad analizzare bene le canzoni di Viola Valentino capisci che erano scritte da gente che aveva studiato. Oggi il livello medio è un po' alla cazzo. Mina era musica leggera, era Mina e non era mica i Black Sabbath o i Popol Vuh. Però pensa a quella frase che dice: “e se domani, e sottolineo "se"”; questo lo può scrivere solo uno che ha fatto il liceo classico. Minimo (ridono tutti).

Rimpiangi i vecchi tempi?

F: Guarda, per non cadere in questa trappola ti dico: vuoi fare dell’impressionismo rassicurante? Il nuovo metodo è: “fiumi di” + correlativi oggettivi, o “il mio cuore esplode” e tutta una serie di impressioni per descrivere questo cazzo di tumulto d’amore? Ok, fallo ma fallo bene. Vai a leggerti i poeti. O Dylan e Cohen, se non vuoi leggere i poeti. Impara come associare un’immagine all’altra. Alla fine è un mestiere.
Poi, ovvio, se questi hanno trovato la formuletta che funziona, va bene. Ma il risultato è ridicolo. E soprattutto non chiamate me a scrivere certe canzoni. Ammetto la mia inutilità in certi campi, punto.

Non sempre. Prima quando raccontavi l’aneddoto del taxi mi hai fatto pensare a “Muoia sotto un tram più o meno tutto il mondo”, frase che era nel brano scritto per Irene Grandi. Era bellissimo.

F: Infatti quello che mi fa ridere è che non c’è una regola, a volte queste cose passano comunque. Te ne racconto un’altra: quando ho scritto per Chiara Galiazzo, a Sanremo, era l’anno in cui ogni cantante portava due canzoni. Un testo era mio, l’altro di Zampaglione. Mille telefonate riguardo il mio testo: c’era la parola "profeta", c’erano allusioni all’alcool, al guidare a tutta velocità, al fumare, sembrava non andasse bene nulla. Chiara e il produttore, Carlo Rossi, che adesso purtroppo non c’è più e non sai quanto mi manca, s’impuntarono; loro due, e io ovviamente, contro tutto un mondo di "esperti" che la voleva cambiare. Alla fine il voto popolare ci diede ragione. Capisci, nessuno ha la certezza su cosa funziona, neanche chi cerca esplicitamente il favore del pubblico.

Parlando di canzoni d’amore: nei vostri pezzi l’amore serve a restare vivi, così come d’altronde il sesso occasionale. C’è un conflitto tra l’amore unico e immortale, quasi trascendente, e il sesso con “le troiette qualunque”

F: Anche le nostre canzoni parlano d’amore, spero in una maniera un po’ insolita. E questo comprende anche il sesso occasionale che, certo, a volte ti fa sfuggire ai momenti di noia: se uno ha la possibilità di impiegare venti minuti facendo del sesso, perché no (ride). È uno sfuggire positivo, ma da lì a trasformarlo in un rimedio cosmico ce ne passa. E lo stesso vale per l’amore. Le canzoni dicono anche le bugie. L’amore unico e immortale…

Un tipo di amore che comunque c’è nelle vostre canzoni, penso a “Gli spietati” dove lo dichiarate letteralmente…

F: Sì, c’è, però lì è un’altra cosa. L’amore assoluto di quel testo è diverso da quello terreno che si può fare tra esseri umani mettendoci dentro anche il sesso. L’amore degli spietati è quello di alti livelli di conoscenza, è l’Amore con la maiuscola, è Dio, fuori dalla coppia. Un amore assoluto, che mi piace presupporre ma che non so se esista.

Eppure nella coda viene ricondotto alla coppia, anche in modo rabbioso.

F: Mi rendo conto che ci sono delle canzoni dei Baustelle che tendono a rappresentare anche l’amore di coppia come qualcosa di salvifico. “Cuore di tenebra” è una canzone che dice proprio “sei meglio tu, reale, di Dio”. A volte può salvarti. A volte è un'illusione. Le canzoni a volte stanno a metà tra l’illusione e la bugia a fin di bene. Forse proprio perché mi piace presupporre un amore più alto tendo un po’ a svalutare l’esperienza dell’amore terreno, che come tutto si sgretola.

Allora torniamo un po’ più sulla terra e parliamo dell’ultimo album. Dicevi all’inizio che non è giovanilistico ma classico. Voi siete ormai dei classici della musica alternativa italiana. Vi piace questa definizione?

F: Classici non so, ma a me la parola “alternativa” piace, abbiamo sempre detto che volevamo fare la musica pop che non sentivamo alla radio. Una volontà programmatica di essere alternativi c’è. Il che non significa fare musica difficile o per pochi intimi, ma il creare un’alternativa di massa.

Riguardo questo disco, in molti si sono concentrati (anche criticamente) sull’abbondanza di citazioni che contiene. Siete diventati postmodernisti perché nominate David Foster Wallace o siete quelli di sempre che citavano Baudelaire?

F: No, è sempre stato così. Questo disco riprende delle tecniche di scrittura praticate maggiormente agli inizi della carriera dei Baustelle che poi abbiamo un po’ abbandonato. Il cut-up, il raccontare per frammenti, l’accostamento di particelle apparentemente slegate tra di loro. Uno scarto rispetto a “Fantasma”, che ha testi più narrativi. Sulle citazioni niente di nuovo; è quello che sento io, poi magari mi sbaglio. Ormai ci sono esperti di citazionismo baustelliano. Ma io sento di scrivere più o meno nello stesso modo, dal “Sussidiario” in poi. Poi, ripeto, c'è una parte di mestiere, per cui a volte mi dico: qua devo essere più paraculo, qua c’è bisogno di uno slogan e così via. E siccome scriviamo prima la musica delle parole, la melodia mi indirizza: se ci sono le tronche, allora ad esempio o ricorro a parole straniere, o a sigle. Tipo MDMA in “Charlie fa surf”. In generale il cosiddetto citazionismo suscita clamore perché forse la gente non è più abituata ad ascoltare testi con certi riferimenti: anche io sento quello che passa il convento e mi rendo conto che i Baustelle sono strani. Nel prossimo album scriverò i testi con finte citazioni e nomi inventati (ride).

A proposito di citazioni di altri musicisti. A me è sembrato di sentirti cantare di uno che corre su spiagge bianche deturpate e si ritrova frasi senza senso dentro le canzoni. Cos’è? Un dissing o un omaggio a Vasco Brondi?

F: Questa non me l’aveva ancora detta nessuno. Capisco che associando "le spiagge deturpate" a certe critiche che lui riceve riguardo alle "frasi senza senso" che certe sue canzoni avrebbero lo si può pensare. Ma non pensavo a lui, giuro, pensavo a me, è stato del tutto involontario. Poi non è che le spiagge deturpate siano un’esclusiva di Vasco. Un po’ come quando mi dicono “ah, Sebastian Tellier, “l’Amour et la violence", l’hai copiato?”. Certo che conosco Tellier, ma mica ha il copyright su quelle due parole!

Nel disco però c’è una macro-citazione musicale più strutturale: Battiato. In quest’album si balla e si usa un linguaggio alto. È lui la via per un cantautorato colto ma ballabile?

F: L’ho detto tante volte: quella di Battiato è la prima musica che ho ascoltato con coscienza, nella mia infanzia. Quando uscì “La voce del padrone” avevo circa otto anni e mi colpì tantissimo. Andò in classifica e anche ad Abbadia di Montepulciano arrivò questo signore con codino, occhiali da sole, calze e sandali che si presentava a Domenica In sul podio col gruppo di madrigalisti e il megafono. Insomma, per ragioni anagrafiche, il punk non ce l’avevo avuto e invece c’era lui. In più erano canzoncine melodiche, lo dico con rispetto, sulle quali per contrapposizione si innestavano queste parole misteriose e molto esotiche. Mio padre aveva la cassetta; quando andavamo a mangiare la pizza, a fare le gite, i pic-nic c’era sempre “La voce del padrone” a ruota e quindi ascoltai per anni solo Battiato. Ossessione Battiato. Tutto il resto a me contemporaneo mi fa faceva schifo. Certe cose le ho recuperate dopo. Come, del resto, i lavori precedenti dello stesso Battiato che, quando li scopri, capisci perché è veramente uno di cui ci dobbiamo vantare, da italiani. Ha cambiato molte vite e in ognuna è riuscito a fare dei capolavori.

Tornando a voi, "L'amore e la violenza" è un disco piuttosto danzereccio. Che rapporto avete con il ballo?

F: Facciamo la tournée in teatro, quindi con il ballo abbiamo un rapporto sadico, almeno verso il pubblico (ride). A Foligno mi sono arrivate voci di gente che non riusciva a stare ferma.

R: Sì, balliamo solo noi. Se rinascessi, vorrei fare la ballerina.

C: Invece secondo me non è un disco danzereccio. È ritmato, che è diverso.

R: Però in una certa misura lo è, lo diciamo anche nei testi. Comunque è un disco che si fa ballare più di altri, più di “Fantasma” sicuramente.

Mi fate pensare al video di “Un romantico a Milano”, in cui riprendete il balletto di “Bande à part”. Nello scorso decennio si vedevano in giro più imitazioni di quel ballo che copie del film medesimo… Mi vien da dire che faceste quasi tornare di moda la Nouvelle Vague tra gli adolescenti. Qual è il vostro rapporto col cinema e con un certo immaginario cinematografico?

F: Diciamo che da quando sono papà non vado più tanto al cinema, ma ora spero che il mio essere ragazzo padre coincida con un ritorno nelle sale. L’immaginario cinematografico comunque rimane sempre nelle canzoni dei Baustelle. Ci sono film che mi hanno influenzato, come i libri o canzoni di altri: alla fine assorbi tutto e lo riproponi nelle cose che scrivi. In ogni caso, la mia assenza dalle sale è causata anche dai nuovi modi di fruizione…

“Essere alternativi non significa fare musica difficile,
ma creare un’alternativa di massa.”

Netflix?

F: Sì Netflix, ad esempio. Mai avrei pensato di caderci dentro.

R: Guardiamo un sacco di serie. La mia preferita è quella con Turturro, “The Night Of”.

F: La mia “Fargo”. Poi mi colpisce positivamente il fatto che siano belle anche quelle italiane, “Gomorra” o “Il Papa giovane”, ad esempio. Rimane il fatto che il cinema è proprio un altro ambiente e mi manca.

In che senso?

F: Che lì, davanti allo schermo gigante, sei davvero immerso. Sul portatile ti distrai, è tutto diverso.

R: Un po’ come vedere un concerto in teatro invece che in un club.

Il concerto a teatro è come il film al cinema?

R: Sì, perché ti obbliga a stare lì. Io non ci riesco più ad andare a vedere un concerto in un locale. C’è troppa dispersione e ti perdi in chiacchiere, in incontri…

F: Però dipende sempre da cosa stiamo andando a vedere. Se ho ascoltato un artista qua sopra (indica il pc), magari skippando, vado a vederlo al club e trovo l’amico, o magari l’amica, e mi faccio “corrompere” (ride). Ma se una cosa m’interessa, cazzo, ci vado e mi concentro, che sia al club, a teatro, nel posticino minuscolo…

C: Ci può essere il pogo più violento del mondo, e puoi rimanere comunque attento

"È la vita che è bohémienne. Il dandismo non esiste, il dandismo è pura posa."

Un’ultima domanda sul vostro immaginario. Una figura che ricorre sempre, quasi protagonista di ogni canzone, è il dandy, il bohémien. Prima mi dicevi che le canzoni a volte sono a metà tra l’illusione e la bugia. Lo è anche la vostra attitudine bohémienne?

F: Vedi, è la vita che è bohémienne, mi stupisce che non se ne parli abbastanza nelle canzoni. Perché la vita è così, avventurosa…
Io credo che le canzoni dei Baustelle parlino della vita che, come già detto, non è sempre bellissima; quindi la cantiamo di conseguenza. Poi il parlarne con uno stile in particolare fa parte anche di come siamo noi come esseri umani. Da qui può uscire fuori che i Baustelle sono dandy, snob o bohémien. Ce lo dicono in tanti, magari deriva dal modo in cui scriviamo e persino dall’aspetto fisico, dal modo di vestire. Ma detto questo il dandismo non esiste, il dandismo è pura posa. Io non voglio essere un dandy, io voglio essere un musicista con la propria visione del mondo. Un musicista che cerca di suscitare emozioni attraverso tecniche e strade poco battute, provando a mettersi in difficoltà. Praticando l'imprudenza.
Ma poi, insomma, a cosa si riferiscono quando ci parlano della bohème? Quella raccontata nelle canzoni, quella vissuta? Però che cosa ne sanno della bohème mia e di Rachele? Cosa ne sanno delle nostre vite personali? Le canzoni dei Baustelle danno l’impressione di raccontare storie che ci appartengono e che coincidono con le nostre vite? Vuoi sapere se è vero? Se le cose stanno così? La risposta è… SÌ! (ridono tutti).
A questo volevo arrivare: la coincidenza fra arte e vita è una manifestazione positiva. Per quanti artifici narrativi puoi mettere in atto mentre scrivi, rimane comunque il fatto che nel profondo, prima di mettere in discorso qualsiasi cosa, devi essere sincero.

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