Figlio di un Dio, figlio di un bar (e lasciatemi stare)

Brano per brano, il nuovo album di Achille Lauro

Nel 1969 i Beatles suonano su un tetto di Londra mentre Jim Morrison viene arrestato sul palco per atti osceni in luogo pubblico. Nello stesso anno viene realizzato il primo impianto di cuore artificiale su un uomo. È l'anno del primo uomo sulla luna e del secondo album dei Led Zeppelin. 1969, da questa mezzanotte, è il nuovo album di Achille Lauro. 

Cosa puoi dire, allora, dell'artista di cui si è detto di più degli ultimi tempi? Forse, tanto per cambiare, parlare solo del disco, delle canzoni, di come suonano, di cosa c'è. Lasciare da parte le polemiche, le inchieste, Sanremo. Ma è vero, e solo questo, che stavolta non puoi parlare solo di musica.

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Achille Lauro e Boss Doms non sono due virtuosi, né gente che fa musica come gioca a calcio, capace di ricostruire al VAR la dinamica di un accordo, l'intenzione di una parola detta sghemba o il perché di un risultato. Perchè poi questo facciamo spesso, vivere le cose come una partita di calcio, dove tifi o tifi avversario. Nella polemica tra il con me o contro, Achille Lauro dimostra di essere in un singolo punto astralmente proiettato sopra ogni discussione che possa riguardare sé. Il suo punto però non è solo la sua musica, ma il suo Pantheon di dei e i suoi vangeli apocrifi, le storie vere o romanzate che siano che gli sono passate per le dita.

1969, in fondo, è una lunga "Rolls Royce". Non tanto (e non solo) come ripetitività sonora quanto come idea dei brani. Il citazionismo, i riferimenti, le strutture sono talmente simili tra loro e distribuite da rendere difficile una vera distinzione. Più che brani autonomi, sono facce diverse e singolari di un'unica idea. Ed è quell'idea la cosa più importante che ha Lauro.

La cosa peggiore da fare, davanti a questo disco, è fermarsi a quello che di prima intenzione vogliono significare i brani. La macchina sportiva, la rockstar, l'oggetto. Di fatto, i testi di questo album, sono delle sequele infinite di citazionismo che spesso non segue nessuna logica. Jimi Hendrix, i Doors, gli stivaletti, le giacche di pelle, le chitarre e tutto il resto. Una, due, tre, cento volte. La citazione però non è importante in quanto tale, ma come idea, ed è questa la chiave della sua cosmogonia. La Rolls Royce non è importante, nel testo, tanto come macchina sportiva in sé quanto per l'idea stessa che Lauro ha di quell'oggetto. I riferimenti sono tutti passaporti per un concetto, un'idea o una suggestione che nell'acceleratore spinto di questo momento della sua vita non è riuscito a fermarsi ad analizzare. Non importa cos'è, ma quello che lui ci vede.

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Cosa quindi, se siamo noi a dover ricomporre il suo disegno finale, ammesso che finale sia, avvalora i testi? I brevi, brevissimi momenti di sintesi emotiva in cui chiude ogni canzone. Ogni singolo brano ha internamente uno Stabat Mater capace, da solo, di schiudere il brano intero. In "Rolls Royce" è il Dio ti prego salvaci da questi giorni / tieni da parte un posto e segnati sti nomi, per un noi che, come precisa Lauro, non è circoscritto ma assoluto. 

Ora, per arrivare all'osso del vero valore di tutto questo, siamo davanti a un ragazzo che ha iniziato col rap di provincia e la narrazione di un disagio locale, poi legato a quello delle province italiane e al mito del farcela, per arrivare ad essere un apripista all trap in Italia. Achille Lauro, a 28 anni, non si misura più con la vita ma con l'esistenza, non con le cose ma con la percezione delle cose stesse. 

 

 

Queste considerazioni sono mosse a caldo, sotto la pioggia, appena dopo aver ascoltato i brani per la prima ed unica volta. Qua sotto ci sono tutte le suggestioni e la reazione di pancia brano ber brano. Non si tratta di un'analisi tecnica e ragionata ma di una reazione a caldo ad un ascolto. 

Rolls Royce

Non so quanto ancora ci sia bisogno di parlarne. Erano anni forse che di un brano non avesse detto almeno una cosa chiunque. Chi lo ha trovato insopportabile, chi lo ha trovato geniale. Achille Lauro ha aperto una porta di Sanremo verso il mondo che sta fuori, ed ha portato il mondo fuori sul palco di Sanremo. Ciao nonna, fuori ci sono un sacco di cose interessanti che tu forse non capisci, va bene così. (A mia nonna, comunque, è piaciuto). 

 

C’est la vie

Secondo brano pubblicato dell’album, una ballata d’argento coi polsi aperti.

E sto cadendo dal burrone di proposito

Mi sto gettando dentro al fuoco dimmi amore no

Finiranno anche le fiamme ma il dolore no

E non puoi uccidere l’amore ma l’amore può. 

 

Cadillac

È la versione Paura e delirio a Las Vegas di quello che abbiamo sentito a Sanremo. Se il primo brano del disco è una Rolls Royce questo è una Camaro. Il brano che se ascolti per strada e alzi il volume prendi a spallate la gente che ti cammina a fianco. Rapapapà - papà. Tutto spinto da un riff di chitarra, uno solo, e un batterista che gioca coi tom come se glieli avessero appena regalati. Birra in lattina, basette e gilet di pelle, girare il Texas su una macchina rosa. 

 


Je t’aime 

Il brano si apre con la voce di Coez, ed in effetti l’inizio è proprio un pezzo che potrebbe essere preso dall’ultimo disco di Coez. Cassa dritta, la chitarra qui è più stretta, con le pennate veloci da brano chill out estivo. Los Angeles, CA. 

 


Zucchero

La chitarra è arpeggiata, Lauro sussurra. Forse il brano più onirico, con la malinconia che sublima in misticismo, guardando più al futuro che al passato rispetto ad altri brani. Con un taglio simile a C’est la vie, ma l’intenzione iniziale deve essere stata diversa. Chissà che sapore hanno le ali di un angelo. 

 


1969

Resto per cena ma’, poi esco tu lasciami stare. Lauro parla con la madre, ma potrebbe essere una qualsiasi altra persona che sta ad aspettarlo per cena, per un caffè o solo perché torni a casa. Ma Lauro è su un altro pianeta, anzi, è sulla luna. La scoperta dello spazio voltandosi indietro a cercare se da lassù si vedono davvero le piramidi, la muraglia cinese o casa propria. 

 


Roma

Questa è la passione di Cristo. Simon P non è Coez, ma è dentro la Roma di Lauro, nella costellazione di corpi che anima la sua cosmogonia filtrata dal racconto di Lauro. Nella canzone dedicata alla città eterna si parla di morte e vita, la città è eterna ma non i suoi figli. Il fascino del sacrificio e del martirio. 

 


Sexy Ugly

Se scrivi Achille Lauro con il neon e lo fai canzone viene fuori questa. O se vai in fissa con Winding Refn, che poi è la stessa cosa. Kavinsky. Qui non ci sono quasi frasi, è tutto un insieme di diapositive confuse e velocissime. È bohemien, è trendy, è Baudelaire, è Fendi.

 


Delinquente

Hooligan, Hyde Park, Irish Pub. Figlio di un Dio, figlio di un bar. Un’idea tra il Brit e il rock n roll, ma non sviluppata davvero. Per il momento tra quelle che mi hanno convinto meno, ma si tiene aperta a farsi dare una seconda occasione.

 


Scusa

Qui c’è Achille Lauro ce cerca di spogliarsi. Questa è l’apologia di Socrate, dopo le polemiche e tutto l’odio Lauro chiede scusa solo a tre: scusa ma’, scusa amore, scusa Roma. Forse la più bella del disco, di sicuro la più importante. Per cosa? Per capire Achille Lauro, o almeno provarci. 

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L'articolo Figlio di un Dio, figlio di un bar (e lasciatemi stare) di Vittorio Farachi è apparso su Rockit.it il 2019-04-11 18:00:00

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