Giovanni Succi Lampi per macachi 2014 - Cantautoriale

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La necessità viscerale di traslitterare nel proprio alfabeto emotivo e sonoro brani tanto importanti per la propria formazione artistica e umana

Quando, sfinita da un turbolento amore, ti guarderò da una distanza tanto grande da faticare a riconoscere i lineamenti del tuo volto, che una volta percorrevo con la stessa precisione con cui so sillabare i passi che mi conducono verso casa, io saprò con esattezza, per la prima volta, raccontarti nel modo che desidero. Saranno mie le parole, mio il linguaggio, a me apparterranno le forme che non avrei saputo restituire quando eravamo un corpo solo. Improvvisamente, non più abbagliata da una luce che troppo vicina rende cieco lo sguardo, riuscirò a dire ad altri degli anni trascorsi in tua compagnia.

Se anziché una recensione dovessi scrivere un racconto ispirato a “Lampi per macachi”, omaggio di Giovanni Succi a Paolo Conte, l'incipit potrebbe essere esattamente questo: un elogio alla scissione. Non un distacco gelido, ma la necessità viscerale di traslitterare nel proprio alfabeto emotivo e sonoro brani tanto importanti per la propria formazione artistica e umana, al punto tale da maltollerare la possibilità di una riproposizione pedissequa. Attingendo dal repertorio del maestro, la voce dei Bachi da Pietra scarnifica nove brani, spogliandoli dal pianoforte, dagli orpelli jazz, per mostrarceli nudi, fieri delle proprie doverose mutilazioni.
La discesa inesorabile nelle segrete di un moto irrequieto progressivo comincia in maniera placida, che pure non mistifica gli intenti: a dettare i primi passi sono elettrici i battiti in “Gelato al limon”, sensualità gracile e irsuta, e in “Le fisarmoniche di stradella”, trip hop stravolto in versione acustica, alternati alle minimali prove di cantatutorato esibite in “Uomo camion”, sussurri sofferti e un crescendo finale con l'ingresso magnifico delle percussioni, e in “Come mi vuoi”, due minuti esatti di assoluta rassegnata dolcezza cullati dal canto bellissimo di Francesca Amati dei Comaneci. È “Diavolo rosso” a destare il sospetto che il limbo non sia la posizione prescelta: tribali i tamburi preparano la scena di un'interpretazione teatrale delle liriche, mentre la voce, sempre profonda, diventa catatombale, incalzante. “L'incantatrice” ciondola tra rumori metallici per poi scivolare nelle cantine del blues: il fischio centrale disorienta quanto la spensieratezza di un vecchio pazzo. Non c'è altro pianoforte, nel disco, che quello che suona in “Bartali” da un'indefinita stanza accanto, facendosi spazio tra metronomi e parole, sospiro di sollievo prima delle dichiarazioni finali: “Questa sporca vita” celebra la chitarra distorta, il sillabare sguaiato delle parole che duellano con gli accordi – vorrei pronunciare la parole shoegaze, ma ne ho quasi timore. A chiudere, una versione di “Via con me” che sfiora a fatica il minuto, sostituendo all'invito folle e romantico dell'originale una tentazione sghignazzante che serpeggia tra suoni bassi e vocalizzi indistinti.

Con questo lavoro, Giovanni Succi è riuscito a capire, nel senso etimologico e quasi erotico di prendere in sé, avere nell'animo la capienza adatta per accogliere, l'essenza vera dell'opera di un autore tanto vicino e tanto distante. A noi è concessa la gioia di apprezzarne i disperati risultati, le eroiche e sfattissime gesta, in un disco prezioso, un gioiello scuro.


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La recensione Lampi per macachi di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2014-12-19 09:00:00

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