david ragghianti Portland 2015 - Cantautoriale, Folk, Country

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Un bel disco reale e sereno. Essere normali è tutt'altro che sminuire se a suonare è David Ragghianti.

Candele accese di giorno, all'ora del tè, aspettando che il sole faccia il suo dovere e baci alla francese l'ovest che è lì da ore a chiedersi se gli altri punti cardinali sono fortunati come lui. Far risaltare la normalità, questa è la chiave di tutto nel primo disco di David Ragghianti, cose semplici e rilucenti senza bisogno di artifici: a volte, in musica come nella vita, solo togliendo si aggiunge valore.
Bastano nove brani per dare forma alle idee del cantautore toscano, sono abbastanza per regalare piccole stanze di tranquillità a chi necessita di pace e bella musica. "Portland" è il titolo di una breve opera pop-folk arrangiata come meglio non si potrebbe (Giuliano Dottori regala la propria sapienza con un suono alla Amor Fou in molti passaggi): ogni suono, anche il minimo abbellimento è messo in cornice, il risultato è un'insieme di quadri dai toni palpabili e decisi.

È tutto un ritrovarsi. Il primo brano "I prati che cercavo" sa di punto d'arrivo, si raccontano paesaggi agognati facili da immaginare se si desiderano proprio quelli, ed è grande il benessere nell'avere qualcosa da pensare, non sognare. Nelle strofe la voce ricorda Riccardo Sinigallia. "Amsterdam", dolce ma incisiva, sottolinea un tipo di ricongiungimento, quello personale e interiore -"non voglio esser portato via dalle occasioni, esisto anch'io nel mio cammino". L'andamento quasi reggae scalda e riappare in "Se non ti ammali", la ricchezza dei bassi unita all'ariosità celestiale della melodia crea una fusione di musica in natura. Sensazione di pace.
Nel "paese del porto" si sta bene, i piedi scalzi e la chitarra acustica fondano mondi poco distanti da lì, bellissimi perché veri e a portata di mano, le piccole percussioni di "Dove conduci" attirano l'attenzione da ogni agolo raggiungibile a vista, ci tengono vigili, vivi e sereni.

Ragghianti suona da curatore di ogni patologia metropolitana e accoglie dove l'eterno canticchiare delle cicale dice che va tutto bene e non ci dobbiamo preoccupare ("Occhi asciutti"), dove anche l'abbandono è reso soffice da arpeggi stratificati alla Ben Harper ("Pause estive") e alla fine non siamo altro che giochini arrotolati a vortice in un filo e poi srotolati a trottola, corriamo a lungo un po' storti ma felici ("Il tema del filo").
"Portland" sembra un mondo ideale, un disco ideale, ben scritto e prodotto, dove tutto collima perfettamente normale e notevole. Come le scie degli aerei, che viste ormai mille volte sanno di quotidiano, ma che attirano l'attenzione come stelle cadenti, per chi ha voglia di pensare più in alta quota.

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La recensione Portland di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2015-09-23 10:00:00

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