Compilation Po box 52 2003 - Strumentale, Psichedelia

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Ed ecco che d’un tratto la Wallace lancia sul mercato indipendente nostrano una mastodontica operazione a metà tra il cofanetto e la collana a tema. Il titolo, “Po Box 52”, si riferisce all'indirizzo dell'etichetta, mentre gli ambiti stilistici sono delimitati principalmente da un quadrilatero formato da jazz, post-rock, noise ed elettronica. Le regole sono molto semplici: 6 cd, 4 gruppi per cd con a disposizione 15’ a testa. In totale fanno 24 gruppi, 6 cd, 6 ore di musica il cui denominatore comune è il fatto di essere realizzata da musicisti italiani ed esordienti.

La notizia in sé suscita un certo scalpore e, apparentemente, mette a tacere tutti coloro che si lamentano che non esistono etichette coraggiose, che nessuno promuove i musicisti indipendenti, etc. Bisogna quindi darne atto che si tratti un bel gesto, ma poco altro. Di sicuro non è business visto che difficilmente qualcuno comprerà tutti questi cd, ma probabilmente non è neanche una riuscita operazione promozionale. Il fatto è che al giorno d’oggi non è più così importante aiutare un gruppo a farsi sentire (con internet, i cd-r e i costi di stampa che sono crollati, chiunque ne ha i mezzi); il problema vero è esattamente l’opposto, ovvero selezionare le cose migliori e scartare la crusca.

Come volevasi dimostrare, infatti, i tre quarti delle band qui presenti hanno poco da dire e se non l’avessero detto non sarebbe cambiato nulla. Mi dispiace, ma è così. So benissimo che Mirko Spino ha scelto i migliori tra quelli che gli hanno inviato un demo, so benissimo che alcuni tra i qui presenti sono già passati all’esordio discografico, so benissimo che mi sto tirando la zappa sui piedi perché poi tutta questa gente mi accuserà sul forum di non capire niente. Mi dispiace, ma è così. Il vero problema non è avere poco spazio per esprimersi, il vero problema è averne troppo. A volte si ha proprio l’impressione di avere a che fare con degli scarti, proprio nel senso che molto di questo materiale andava scartato. Se da questa matassa Spino avesse dipanato un solo cd, ne sarebbe uscita una bella compilation, forse il miglior cd italiano dell’anno. Ma come si fa ad assegnare 15 minuti di tempo a gente che non è nemmeno in grado di stupire in 15 secondi? Bisogna dargliene 3, di minuti, e obbligarli a condensare le loro idee in quei tre minuti. Ce ne sarebbe più che a sufficienza.

Volume 1
Si parte abbastanza bene con i Rosolina Mar, i quali prendono l’abbrivio dal punk-jazz dei Minutemen e si lanciano in lunghe jam acide nelle quali le due chitarre creano evoluzioni sonore cercando più la sincronia che la dissonanza. I sei minuti di “La basetta scolpita nella roccia” valgono decisamente l’ascolto, i dieci minuti di “Malpensa Social Club” forse no, ma la verve c’è di sicuro (e comunque, bel titolo!).

La seconda e terza band di questo volume sono entrambe animate da un impeto di ‘libertà’ stilistica, ma finiscono con lo scadere nella confusione vera e propria quando non nel gratuito. I Fiori d’Oppio non sono malvagi del tutto, ma se mi arrivasse un loro demo preferirei ignorarlo che stroncarlo. I From Hands, invece, giocano a fare i jazzisti dimostrando loro malgrado come sia facile confondere la casualità con l’improvvisazione.

Chiudono il cd i Proteus 911 i quali si salvano in corner grazie ai sottofondi sonori composti da feedback, riverberi e rumori che appartengono più alla tradizione industriale (e prima ancora psichedelica) che al post-rock.

Media cd: 6,5/10

Volume 2
Gli Slope aprono il cd dedicato al jazz in modo fuorviante: “Tokio” è un brano che ricorda più il rock-pop giapponese contemporaneo, ma il resto della loro prova si protrae tra ritmi sconnessi e chitarre jazz - e chiamarlo math-rock non migliora certo il valore della loro musica.

I Tanake si azzardano a proporre un unico brano di 17’; in realtà potrebbero essere tre brani uniti tra loro, ma poco importa. Valga di loro quanto ho scritto nell’introduzione generale.

I Rebekah Spleen giocano la carta acustica della raffinatezza. Il fatto che talvolta ricordino i Mogwai (soprattutto in “Wasabi”) mi indurrebbe a cambiare cd, ma il gusto che dimostrano è sufficiente a far continuare l’ascolto. Certo, anche loro peccano di prolissità.

Il Cane Celeste è il progetto collaterale di Alessandro Baris e Luigi Caria dei Comfort i quali si abbandonano a jam strumentali che, mischiando jazz, psichedelia e prog-rock, rimandano nostalgicamente all’inizio degli anni ’70. Niente di nuovo, quindi, ma l’ascolto è piacevole, soprattutto “Ce qui ne peut parler”.

Media cd: 6/10

Volume 3
Il capitolo dedicato alle ‘hard-vibrations’ si apre con i Ceke i quali, dopo un’introduzione di sapore acustic,o chiariscono con un riff secco e distorto che la pasta di cui sono fatti è essenzialmente elettrica. In particolare si tratta di un hard-rock strumentale che ondeggia da un lato verso lo stoner e dall’altro verso il prog. Prestazione positiva nel complesso, diversi momenti sono buoni, anche se non sempre il livello rimane alto.

Poi vengono i Taras Bul’ba, anch’essi duri e possenti, ma influenzati più dalla psichedelia che dal metal. Accettabile la scelta dei suoni (soprattutto il basso) e della produzione generale, ma anche in questo caso i 15’ a loro disposizione sono troppi e solo nella terza parte di “Nodo” riescono a causare buoni sussulti.

I Mr. Bread sono tra i pochissimi gruppi della serie a produrre brani cantati e per questo finiscono involontariamente per legittimare la scelta strumentale degli altri. Infatti la voce non è certo il massimo, così come non sono il massimo le canzoni in sé e gli altri strumentisti. Alla fine di loro salverei solo il batterista e il brano “Voronka”.

Promossi appieno invece gli Albatros Qwerty che assomigliano forse un po’ troppo a Trumans Water o Oxes, ma che riescono a dispiegare sufficiente gusto e tecnica per una lunga jam sconnessa che risulta gradevole lungo tutto il suo percorso - ovviamente il termine ‘gradevole’ non va preso in termini letterali.

Media cd: 7/10

Volume 4
In questo cd va di scena il rock italiano cantautoriale. Sarà un caso, ma è l’episodio peggiore del lotto. Gli Eroma sono un gruppo come tanti altri che suona musica malinconica, acustica, cantata in italiano, con un cantato/parlato che non si distacca molto dai canoni. Insomma, niente che valga la pena di ascoltare.

Stesso dicasi per gli Yellow Capra, i quali perlomeno aggiungono alla strumentazione flauti e archi, ma senza lasciare tracce profonde e scivolando via come l’acqua. Forse si salvano solo le atmosfere shoegaze di “Topo morto e mini mucca”.

Con i Lendormin si torna a frequentare i lidi dell’avanguardia e ci si torna a chiedere se non valeva la pena starsene a casa. Le loro masturbazioni di chitarra e batteria non andrebbero bene neanche per il sound-check, anche se le accozzaglie di elettronica di “II” non sono del tutto malvagie.

Gli Hogwash dispongono di buona perizia strumentale e discrete sonorità, ma il loro pop psichedelico finisce con l’assomigliare troppo ai Motorpsycho acustici di “Demon Box”. Buono comunque il pezzo finale “Bribe”.

Media cd: 5,5/10

Volume 5
Il quinto volume è per metà una sorta di soddisfazione personale e per metà una bella scoperta. Di Claudio Rocchetti e dei Campofame ho già parlato diffusamente e ripetutamente su queste pagine in passato e vi invito a recuperare le loro recensioni in archivio per sapere cosa aspettarvi da loro. Detto che i Campofame confermano le loro doti, mentre il dj set di Rocchetti è leggermente inferiore al suo disco d’esordio, li consiglio caldamente a scatola chiusa entrambi, con l’unica avvertenza che non si tratta di roba facile da digerire.

Pur non avendo mai scritto niente a riguardo ho avuto occasione di ascoltare ed apprezzare in passato anche Mouse and Sequencers, progetto solista di Nicola Giunta, manipolatore elettronico al passo coi tempi che confeziona preziose suite assemblando strumenti tradizionali - come chitarra e basso - ad altri suoni che provengono da nastri, campionatori o tastiere varie. Più che lo stile vale il gusto con cui esegue la sua musica (brano consigliato: “Galaxy 5000 2”).

La vera scoperta è rappresentata però da Pola, al secolo Tazio Iacobacci, un cantautore (se così si può definire) completo, capace di tratteggiare suadenti linee melodiche come di colorare i brani con pianoforte ed elettronica, suscitare stati d’animo contrastanti, essere al tempo stesso orecchiabile e sperimentale. Durante l’ascolto delle sue canzoni vengono alla mente i nomi di Low, Labradford, Piano Magic, Lali Puna… ma senza che la sua musica soffra la minima soggezione, anzi.

Media cd: 8/10

Volume 6
Dopo lo splendore del cd precedente si ritorna al grigiore consueto. I Logan suonano un noise-rock in stile Chicago che, per quanto ben definito e aggressivo, mostra troppa aderenza ai canoni.

Dopo cinque cd e mezzo non ce la faccio più a trovare parole comprensive per gli Stearica, che mi sembrano un gruppo rock italiano (dimenticabile) come tanti altri.

Il cd regala comunque un paio di piacevoli sorprese. Innanzi tutto gli Hutchinsons che si protraggono per una jam di 16’ nella quale riescono a condensare quante più bizzarrie, dall’elettronica alla new-wave, dalla psichedelia al jazz. A parte la solita logorrea, una buona proposta.

I Neo sono altrettanto eccentrici anche se il loro universo è molto più delimitato dal jazz e dal rock e il livello tecnico degli strumentisti è decisamente maggiore.

Media cd: 6,5/10

In definitiva l’unico cd della serie che consiglio di comprare è il quinto. Il terzo merita l’ascolto, ma gli altri lasciateli pure sugli scaffali. Riassumendo i gruppi da tenere d’occhio direi che sicuramente Rosolina Mar, Albatros Qwerty, Campofame, Claudio Rocchetti e Pola faranno parlare di sé in futuro. Volendo essere generoso vale la pena di citare anche le prove di Mouse and Sequencers, Hutchinsons, Hogwash, Ceke e Il Cane Celeste.

Gasp... forse ho finito! La prossima volta scalo sei montagne al ‘Tour de France’.

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La recensione Po box 52 di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2004-01-22 00:00:00

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