Beat Degeneration Dream Machine 2016 - Rock

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"Dream Machine" conduce i Beat Degeneration in una dimensione internazionale: credibili e godibili

Musicista polistrumentista dei Jennifer Gentle, Guido Giorgi presta per il progetto Beat Generation voce e chitarra assieme al batterista Manuel “Gerry” Gereon e al bassista Piero Pecchi.

In linea con la tradizione psichedelica, l’album "Dream Machine" non teme la mancanza di un vero e proprio singolo che lo rappresenti; al contrario, s’immerge totalmente nei riferimenti strumentali di metà anni ’80 con gli Stone Roses, antesignani del britpop con forti legami dream pop.

L’effetto in reverse di “Nations” introduce il brano a entrambe le correnti, partendo dai tumultuosi tuoni ritmici dei Jesus and Mary Chain influenzati dagli accordi in maggiore dei Velvet Underground, fino a quella consueta sfrontatezza simbolo della decade successiva con il britpop. Da qui il canto sognante si fa portavoce di una “degenerazione” appena accennata, accompagnata da tamburelli e sovraincisioni di chitarre acustiche ed elettriche nel segno del rock’n’roll.

Grazie alle medesime premesse, con l’arrivo di “I Wanna Live In NYC” disperde la canzone rock per dar spazio allo stile strettamente legato a quello di madchester, dando dimostrazione di una buona padronanza e familiarità nella giusta misura, riverberi e distorsioni come parte integrante del proprio sound, così come fecero negli anni duemila i Sulk, diretti discendenti degli Stone Roses.
Gli arpeggi di chitarra e soprattutto le parti di batteria risaltano gli arrangiamenti prima del pezzo “Tom” e poi di “I’m Not Good Enough” dal finale shoegaze, dove si cela una genesi di beat anni ’60 adottata in seguito anche dai The La’s seppur in modo meno didascalico. Una suggestione beat che non s’interrompe neanche con “Goodbye”, pronta a suonare la carica con le medesime sonorità jingle-jangle dei sixties, portando l’irruenza dei Troggs con l’immediatezza dei Supergrass.

La pregevole cavalcata folk psichedelica cara alla mistica dei Led Zeppelin di “Siberian Dreamers” viene colta di sorpresa dal brano più pop e compatto del disco “My Dear Old Enemy”, senza sfigurare nella resa finale di un indie-rock energico, ma più effimero rispetto al resto del repertorio.

La firma conclusiva di "Dream Machine" arriva con “Like Wind”, la traccia che più di tutte dà l’impronta definitiva all’album, in un’autenticità espressiva capace di lambire quel senso di libertà sprigionata nelle atmosfere nordiche, come nell’ariosità dei pattern di batteria e da un’elettrica riverberata mai così in evidenza, mettendo invece in ombra l’epicità dell’intima ed eterea ballata finale “Nowhere a Land (a Where I Belong)”.

Di facile presa per gli amanti del genere, "Dream Machine" conduce la band in una dimensione internazionale, con la sola difficoltà di non appoggiarsi a contaminazioni di stili trasversali come è accaduto in modo analogo ai Tame Impala a favore di un pubblico più ampio, preservando invece un’identità credibile grazie alle qualità dei Beat Generation.

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La recensione Dream Machine di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2016-04-30 10:00:00

COMMENTI (2)

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  • kitekopp 8 anni fa Rispondi

    micidiali!

  • kitekopp 8 anni fa Rispondi

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