Alessandro Fiori Plancton 2016 - Cantautoriale, Sperimentale

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Un tuffo nelle profondità degli abissi con “Plancton”, quarto disco solista di Alessandro Fiori, sospeso tra oscurità e luci ipnotiche

Se “Cascata” era stato per Alessandro Fiori il disco della purificazione, con "Plancton" si “passa dal buio al nuovo buio”, il “Kid A” della sua carriera, come da lui stesso dichiarato. Il fondatore dei Mariposa si è tuffato infatti nelle nere profondità degli abissi, attraversando sommerse isole di storie quotidiane osservate dal punto di vista di un trapezista sospeso sul filo del tempo o di un pittore che guarda la realtà attraverso la finestra delle proprie tele, giustapponendo con allucinata delicatezza toni scuri e colori sgargianti, fino a raggiungere l’arduo intento di comunicare tutto pur senza troppo svelare. Il continuo dualismo tra luci e ombre, tra reale e surreale, tra ironico e malinconico, in “Plancton” si esprime con naturalezza senza mai calcare troppo la mano, dando un generale senso di sogno cosciente.

Strati di suoni elettronici (prodotti in collaborazione con Tasto Esc e FRNKBRT) rappresentano l’acqua degli abissi in cui, appunto come plancton, si muovono le parole dell’artista aretino, adagiandosi una accanto all’altra fino a generare quadri sonori ipnotici, a volte malinconici, altre volte grotteschi come solo la realtà sa essere.

I primi sette minuti e mezzo del disco, con “Aaron” e “Plancton”, sono già coltelli affilati che penetrano nella piaga e sembrano non lasciare alcuna speranza al futuro. In “Aaron” c’è la voce dello stesso Aaron Swartz, geniale programmatore e paladino della libertà d'informazione su web morto suicida nel 2013 a meno di 27 anni, e c’è il glaciale delinearsi di un’ennesima triste giornata di routine operaia in cui non c’è spazio per i poeti e perfino “il sole rimane dietro”; la strumentale “Plancton” prosegue forgiandosi su uno scenario di suspense e di ossessione che impregna tutto il disco con il suo retrogusto amaro, e non consola affatto ma anzi ubriaca e disperde i sensi in una labirintica trance senza scampo.

Una fioca luce attira verso “Piazzale Michelangelo”, con le sue giocose scale ascendenti e discendenti che travolgono in una festosa follia quasi di felliniana memoria, e ci si sente un’Alice nel paese delle meraviglie ma al contrario, dove a diventar assurdamente meravigliosa non è la bellezza dell’arte ma la sua distruzione, fotografata dai turisti giapponesi e dipinta negli acquerelli. Una sensazione simile a quella del singolo “Mangia!”, che a sua volta fonde l’incubo con il sarcasmo in un quadretto d’infanzia che non ha nulla di nostalgico.

Il punto più profondo di questo buio oceano tumultuoso di immagini sfuocate e suoni ovattati non può che essere un confronto con la morte stessa, beffardamente filtrata di ironia in “Ho paura” ma anche teneramente subodorata nella storia di “Ivo e Maria” e la loro convivenza con l’Alzheimer di lei, accompagnata, nel suo dolce racconto, da due sole note che si ripetono insistentemente diventando sempre più familiari eppur sempre più distanti.
Il disco però si chiude con “Sereno”, altro brano interamente strumentale, che sembra farci risalire dagli abissi e dare un’ultima tenue speranza al futuro.

Ricomponendo insieme i dieci pezzi di questo puzzle musicale di Alessandro Fiori si riesce a guardare in faccia tutta la nuda realtà, che si staglia lucidamente su sfondi oscuri, come nell’immagine di copertina, ma resta perennemente sospesa e deformata dalle atmosfere oniriche; così, un po’ come i quadri cubisti, che rappresentano la realtà visibile da diverse angolazioni, allo stesso modo il cantautore toscano dipinge le sue canzoni aggiungendo alla realtà esterna la dimensione dell’inconscio e regalandoci rivelazioni nuove, ascolto dopo ascolto.

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La recensione Plancton di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2016-12-03 10:00:00

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