Jennifer Gentle Valende 2005 - Lo-Fi, Indie, Folk

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Abano Terme è uno dei luoghi più surreali che possiate concepire. Immaginate una cittadina balneare, zeppa di alberghi e piscine, ma lontana 51 chilometri dal mare e ai piedi di una catena collinosa. Immaginatela piena, invece che di giovani e famigliole, di anziani che si curano con terme e fanghi. Immaginatela tutta costruita nel dopoguerra, dopo che i bombardamenti l’hanno quasi completamente rasa al suolo, tranne un paio di eleganti hotel settecenteschi, capolavori dell’architettura illuminista nazionale. Immaginate di camminare per le sue strade larghe e di percepire un’asetticità da ospedale. E allora forse capirete che una band folle e delirante come i Jennifer Gentle poteva nascere solo in un posto come questo.

Incuranti del panorama indie nazionale e delle sue piccole mode, sono andati avanti per la loro strada, fino a conquistare l’America. Nella fattispecie, quel pezzo di America che si chiama Sub Pop e che ha fatto la storia del rock mettendo sotto contratto Nirvana e Mudhoney dando vita al grunge, e che oggi è madrina di una rinascita psichedelica, avendo prodotto “Oh, inverted world”, terzo disco degli Shins, che ha venduto in Usa la bellezza di 300.000 copie. Alla Sub pop i Jennifer ci sono arrivati colla più classica delle storie rock’n’roll: Dean Whitmore, patron dell’etichetta, entra in un negozio a Seattle, scartabella tra i cd, vede “Ectoplasmic Garden Party”, la ristampa australiana dei primi due cd della band, gli piace la copertina, la compra; va a casa; la mette nel lettore; gli piace; contatta i Jennifer Gentle.

Ovvio che questo disco, il primo di una band italiana per la Sub pop, che checché se ne possa dire ha costruito un bel pezzo di storia del rock, fosse atteso. E che il timore di una delusione, di un mezzo passo falso fosse grande.

Invece questo disco è stupendo. Supera i limiti che sono stati dei Jennifer finora, e cioè una eccessiva monoliticità, e mostra una forse inattesa maturità che pone “Valende” all’altezza dei classici della psichedelia, loro diretto erede e forse, chissà – ma solo il tempo potrà dirlo, anche se la sensazione è forte –, lo iscrive tra essi. Album vario, che si pone come epitome e superamento dei grandi classici della psichedelia fine anni 60, con lo stesso atteggiamento con cui l’indie pop rock scandinavo riassume, supera e rinnova il passato. Qui, a differenza di “Funny creatures lane”, non troverete un rabbioso e cupo Syd Barrett, anche se Lui sorride sempre Loro, da qualche parte del suo cervello. E non troverete solo il quasi rumore psichedelico alla Can di “I am you are”. E non ci sarà solo l’infernale Bugs Bunny in acido che muoveva le fila dei dischi precedenti (ma eccolo che compare, riappacificato e beffardo, in “Nothing make sense”). Questo disco gode di un respiro immenso, di un’empatia profonda con tutto il creato. Lo dimostra la circolarità con cui è concepito (apertura elettrica – parte centrale acustica – chiusura elettrica), che allude forse a quella del tempo (lo sentite, il tic tac di “Liquid coffe”?). Brani come le acustiche “Circles of sorrow”, la mini opera “The garden pt. 1” / “Hessesopoa” / “The garden pt. 2”, “Golden drawings” vi commuoveranno per la loro bellezza e intensità, per la sensazione di primo sguardo commosso sul mondo che comunicano, per il candore che da esse trascorre, per i colori che assumono per melodie e controcanti e il lavoro impressionistico di Alessio Gastaldello alle percussioni. Francamente, il gioco dei riferimenti stavolta è superfluo, in quanto i Jennifer Gentle prendono a piene mani da tutta la tradizione psichedelica, frullano il tutto e ne fanno uscire qualcosa di completamente proprio. Ma se proprio, com’è giusto, bisogna dare delle indicazioni, pensate a “Granchester meadows” dei Pink Floyd marca Roger Waters di “Ummagumma”, alle suite acustiche della Incredibile strings band, al primo Marc Bolan acustico, su cui Devendra Banhart ha costruito la sua carriera e che i nostri stracciano impietosamente, con l’incedere noncurante degli dei dell’Olimpo. E in questo disco potrete trovarci anche il primo Alan Sorrenti, quello di “ Aria” e “Come un vecchio incensiere all'alba di un villaggio deserto”, quello che nessuno avrebbe mai sospettato di un futuro passaggio alla disco, le chitarre dei Kinks e Small faces in fase psichedelica, echi dei 13th floor elevator (“I do dream you”), accenni di tastiere dei Doors. Che ve lo dico a fare? Qui c’è tutto e ci sono solo i Jennifer.

Rimangono due cose da dire. La prima è che c’è chi dice che il difetto dei Jennifer Gentle sia la voce di Marco Fasolo, troppo bambinesca. Balle. A, perché Bugs Bunny in acido può avere solo quella voce lì, ed è parte costitutiva dell’ispirazione dei Jennifer. B, perché in questo disco la voce di Fasolo si arricchisce di molte altre sfumature. C, perché abbiamo sentito dire tutti le stesse cose per Billy Corgan degli Smashing pumpkins, e questo non gli ha ostruito la carriera. La seconda cosa che resta da dire è che in questo disco l’attitudine pop dei Jennifer Gentle esce sfrontatamente allo scoperto, dando vita a canzoni che sono, semplicemente, belle. Canzoni psichedeliche, certo. Ammantate di rumori, presenze spirituali, cinguettii di uccelli, oggetti animati. Ma canzoni belle. Non è poco.

Per cui, se aveste deciso di comprare un solo cd quest’anno, che sia questo. Tornate a casa, staccate e spegnete telefoni, mettetelo nel lettore, meglio con cuffia, stendetevi su un letto o sedetevi in poltrona, chiudete gli occhi, fate buio e penombra nella stanza. Capirete cosa volevano dire padri e fratelli maggiori quando parlavano di dischi che fanno viaggiare, senza bisogno di sostanze. Soprattutto, ascoltando “Valende”, vi sentirete spirito puro. Leggeri, nell’aria.

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La recensione Valende di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2005-01-25 00:00:00

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