Le Orme Studio Collection 1970 - 1980 2005 - Progressive

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Evviva! Sarà merito della hit radiofonica messa a segno dagli Aeroplanitaliani con la cover di “Canzone d’amore”, ma finalmente esce un’antologia de Le Orme, uno dei più importanti gruppi rock italiani di ogni tempo, bella, completa, fatta bene, con i brani presenti in ordine cronologico, libretto esauriente, con belle foto d’epoca, riproduzioni delle stupende copertine degli album e di singoli originali, storia della band compresi i periodi pre e post Universal (nel decennio da 70 a 80 i marchi erano Philips e Phonogram). Mancano solo i testi, ma allora invece di un libretto avremmo avuto un volume in brossura. Prima cosa, quindi, plauso alla Universal, che rimedia allo scandalo di “Antologia 1970-1980”, uscita nel 1993, senza consultare la band (tranne che per l’immagine di copertina), con i brani infilati a casaccio, secondo logiche imperscrutabili, e che però vendette tanto da essere uno dei best seller dell’anno. Battimani, standing ovation e chapeau.

Passiamo alla musica. Se non fosse fuori luogo per un’antologia, questo doppio cd sarebbe da primascelta. Una simile pletora di belle canzoni, alcune di disperante bellezza, è davvero difficile da trovare. Ecco, vedete, questo è il primo punto: e sgombriamo il campo da equivoci e paure. Sì, perché quando di parla delle Orme, ci si scontra con uno scoglio difficile da digerire per i più: la parola “progressive”. O si è fan del genere (sono comunque tanti), o si fugge impauriti al solo suono della parola, chiudendosi a riccio, mormorando magari un “Ah, beh, sì? Erano bravi? Ma mi fanno un po’ paura”. Ora, io non sono un fan del prog. Chi mi segue e mi conosce sa che amo il pop, quella capacità di esprimere un piccolo universo in un compiuto capolavoro di tre minuti. Ecco, qui di pop ce n’è tanto: e come è capitato spesso per i gruppi prog che si mettevano a fare pop (era questo il nome che si dava al genere negli anni 70, tra l’altro), si tratta di pop non banale, di strutture inusuali e sorprendenti, estremamente immediato e comunicativo senza perdere un’oncia di originalità. Chi sa, penserà con piacere a gemme come “Lucky man” di Emerson, Lake & Palmer, “Oh Caroline” dei Matching Mole, "Gioia e rivoluzione” degli Area, “Impressioni di settembre” della Pfm, “Share it” di Hatfield & the North. Gli altri, sbagliando, penseranno a un prodotto sciapo e senza nerbo, per via dei pregiudizi che circondano anche la parola pop. E allora dirò che Le Orme furono (e sono, visto che proseguono oggi da indipendenti) anche un grande gruppo rock, di nerbo e sostanza. Anche qui, ci sarà chi pensa che con “rock” mi voglia riferire a certo hard rock cafone che tanto andava nei 70. Errore, di nuovo errore! Vedete, il punto d’arrivo di un discorso tanto lungo è che la musica delle Orme si colloca in un punto di miracoloso equilibrio tra prog, pop e rock, in cui confluiscono senza sforzi anche sprazzi di classica e psichedelia. Il frutto, come dicevo, è una serie di canzoni di disperante bellezza.

Certo, chi per il prog ha una di quelle allergie assolute farà bene a saltare brani come “Collage”, “Una dolcezza nuova”, “La porta chiusa”, “La solitudine di chi protegge il mondo”, “In ottobre”, che per gli altri risulteranno comunque curiosi e interessanti, nel loro essere così “estremi”. Ma come non arrendersi di fronte a splendide ballate acustiche come “Gioco di bimba”, “Felona”, “Frutto acerbo”, “Verità nascoste”, “Un angelo”, “Calipso”, “Fine di un viaggio”? Come non rimanere conquistati dai preziosismi pop di “Morte di un fiore”, “Figure di cartone”, “Aspettando l’alba”, “Sera”, “Amico di ieri”, “Canzone d’amore”, “È finita una stagione”, “Storia o leggenda”? Sorprese ce ne sono dappertutto: le prime 16 battute (o i primi 18 secondi, se preferite) di “La porta chiusa”, uno dei brani più prog, vi sembreranno il drum’n’bass sfiorato dai Subsonica in certe cose degli inizi; “Florian” ricorderà il lavoro che sarà svolto dalla Penguin Cafè Orchestra; “Sera”, “Se io lavoro”, “Regina al Troubadour” mettono in evidenza un lavoro sui riff di basso e tastiera che sono già new wave, evocando Visage e il Battiato electropop tra cinghiali e bandiere bianche.

A questo proposito, Aldo Tagliapietra può raccontarmi quello che vuole, nicchiando, nascondendosi con veneta modestia, ma nessuno mi leva dalla testa che la svolta pop del cantautore catanese fu influenzata assai dal lavoro delle Orme tra 75 e 80: sia per come si strutturano basso e tastiere, sia per certe pieghe dei testi. Quando Tagliapietra in “Fine di un viaggio” (che fu il singolo di “Florian”, 1979) canta “Cambia disco, Tambourine man, a me non servi più / la tua nave magica è un relitto ormai” come fa a non venire in mente la seconda strofa di “Bandiera bianca”, 1980? Mica per togliere qualcosa a Battiato: si sarà trattato di consonanze, di un aiuto nella messa a fuoco di un linguaggio verso cui il catanese stava convergendo. Ma in fin dei conti: mica era sordo, no?

Al di là di queste capziosità da storici della musica, ci sarebbe da parlare dei testi, davvero belli e originali, sospesi tra un senso magico ma concreto della natura, uno stupore aurorale verso gli accadimenti anche più crudi della vita e una volontà di trascendenza che non è mai stucchevole. Esempi: “Giardini di carillon / di suoni gentili, profumo di miele / di terra bagnata / annuncio la mia gioia / a un raggio di sole che mi riscalda” (“Un angelo”); “C’è qualcosa che sta per cambiare / io la sento nell’aria, la ritrovo nel sole che muore: / la grandezza della sera / si rifugia nella mia memoria / ogni cosa si ravviva e ritorna a somigliare a te” (“Sera”); “La forza di sorridere, la forza di lottare / la colpa d’esser vivo e non poter cambiare / come un ramo secco, abbandonato / che cerca inutilmente di fiorire” (“Sguardo verso il cielo”). E via che si potrebbe continuare.

Ma quello che vi deve importare è che questo è un disco di splendide canzoni. Di disperante bellezza, come dicevo all’inizio. E vi chiarisco perché “disperante”: perché di fronte a certe brani sono preso da una specie di sindrome di Stendhal, come se non riuscissi a reggere tanta bellezza. Il ritornello di “Sera”, con quel gioco tra basso, tastiere e melodia; o il finale di “Morte di un fiore” con una progressione di accordi rock già originalissima che sfocia in un’atmosfera epica da soundtrack alla Umiliani; l’ariosità infinita di “Amico di ieri”, brano epocale; le vibrazioni degli archi in “Verità nascoste” tanto per dirne poche, pochissime; mi fanno venire ogni santa volta che le ascolto brividi e commozione fin quasi alle lacrime, lasciandomi sopraffatto. E se con questa cazzo di recensione che non finisce più io facessi vendere un solo disco in più di questa antologia de Le Orme, beh, qualche cosa di buono avrei fatto allora! Perché mi sarete grati di avervi fatto scoprire quello che mi si para davanti sempre più come il più grande gruppo rock italiano dei 70, più grande perfino di Pfm e Banco. Anche qui, mica per togliere qualcosa loro: ma per darvi l’idea di cosa sono Le Orme. Fidatevi. Almeno, ascoltatelo in negozio: mi darete ragione.

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La recensione Studio Collection 1970 - 1980 di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2005-05-09 00:00:00

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