Mau Mau Dea 2006 - Rock, Folk, Etnico

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Quanto tempo è passato? Cinque anni? Probabile, mese più mese meno. Quando davo il primascelta a quel viaggio personalissimo che si compiva nel “Marasma General”. Quando ballavo come un felice alternativo dentro la turba di colori di questo collettivo guidato da Luca Morinho, che vabbè il Mourinho odierno allenatore del Chelsea non era ancora così famoso, ma insomma il gioco di parole esce bene. Ecco. Io sono cambiato; i Mau Mau no.

Per fortuna, dirà qualcuno. Io invece sono perplesso. Morinho continua a cantare storie di pesci caraibici, valigie e scatoloni di immigrati meridionali che si trasferiscono al Nord e si chiedono dove si incontreranno, macchine Mercedes vecchie di 20 anni, gli schiavi e il re nudo, i colonizzatori, i pappagalli messicani e Bahia. Decollerei volentieri con queste canzoni sempre candidamente uguali verso lidi solari per affusolarmi ad una palma con coscienza critica e intelligenza. Peccato che il motore non parta quasi mai. O si inceppi. O strepiti dopo un solito problema tecnico, tipo un’insurrezione del propulsore sinistro, al solito populista. Quello che tanto appesantisce Jovanotti, per esempio; o che rallenta mortalmente Celentano; o che fa straparlare Battiato. Si, insomma, quello che genera le invettive dei sacrosanti principi e induce la linea del buon pensiero. Fastidioso.

Tanto avevo amato “Eldorado”, fondamentale per capire un intero movimento che riscopriva le (proprie) radici e le mischiava alle influenze etniche del globo, tanto non mi era dispiaciuto il bistrattato “Safari Beach”, così allegro e spensierato e con quella spruzzata ordinata di elettronica. E altrettanto resta nel mezzo questo “Dea”, che per tre quarti sembra la collezione di una band che ha tutto in testa ma riesce a dire solo le cose che aveva già detto. Male, perdipiù, o - se preferite il pensiero debole – non bene come in passato. Perchè Mourinho sa scrivere – eccome - ma deve decidersi se fare il capopopolo denunciando i mali del mondo e proponendone ricette di cura o se invece fare quello del popolo e basta. Che sì percepisce lo schifo, ma non si atteggia a profeta. E magari racconta ancora dell’amore sulla spiaggia con quel tocco di poesia popolare e curata che lo contraddistingueva. O dei fiori, che ne so. Ma evita di ripetere la lezione di cui peraltro è già riconosciuto professore: il genere patchanka in Italia.

Perchè “Dea” è veramente un disco scolastico. Perfetto nella sua armonia fra elettronica e strumenti acustici. Educato nella sua scelta dell’italiano e nel doveroso omaggio al dialetto piemontese e pure meridionale (il feat. con Don Rico e Terron Fabio dei Sud Sound System in “La Casa Brucia”). Eccezionale nel suo artwork caraibico. Ma modesto a livello di scrittura. Mancante di stimoli. Quelli che i Mau Mau facevano abbondare quando avevano la grinta degli studenti incazzati e talentuosi. Quelli che occupavano le aule e minacciavano il sistema con la loro poesia buskarola. Quelli che abbiamo aspettato per cinque anni e ci tornano professorini. O allenatori. O, forse, semplicemente meno effervescenti di come li avevamo conosciuti. Quindi un po’ più normali. Un po’ più vecchi. Un po’ più Samsonite.

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La recensione Dea di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2006-04-08 00:00:00

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