Il mercato nero delle playlist di Spotify: pagare è un sistema sempre più diffuso

Entrare nelle playlist di Spotify è certamente un modo per farsi conoscere, e molti non esitano a pagare per farlo.

Nell’era in cui lo streaming sta diventando il metodo di ascolto più diffuso, avere i propri brani inseriti nelle playlist più seguite di Spotify è certamente un modo sicuro per farsi conoscere. Con un mercato discografico dominato per due terzi degli introiti dalla fruizione digitale, contano sempre più i numeri su internet: le views su YouTube, le interazioni sui social, persino le citazioni su Wikipedia, figuriamoci quindi quanto possa essere importante per un artista avere la propria musica inserita nelle playlist del momento, magari proprio tra le migliori uscite internazionali. Gli artisti emergenti lo sanno bene, ed è per questo che va diffondendosi un vero e proprio mercato nero dove basta pagare per avere l’occasione di farsi notare e magari farsi scoprire da una casa discografica.

Come riportato da Dailydot.com, il giovane rapper di Atlanta Tommie King è presente in ben 14 playlist con il suo ultimo singolo, e ha già raggiunto più di 110 mila ascolti. Il suo manager è decisamente soddisfatto, e afferma: “Senza le playlist di Spotify, per dire la sincera verità, non mi sembrava che stessimo realizzando un granché”, aggiungendo che “lo streaming al momento è l’unico modo per raggiungere persone con le quali altrimenti non riusciresti a connetterti”. King ha pagato per ottenere tutto ciò, ed è solo un esempio del crescente sistema di compravendita, che se fatto bene riesce a rovesciare le cose, permettendo agli artisti di guadagnare ben più di quanto abbiano speso.



Per comprendere meglio il potenziale delle playlist di Spotify, basta osservare che l’azienda che domina il mercato degli streaming ha a livello mondiale 159 milioni di utenti attivi e 71 milioni di abbonati: un bacino enorme di appassionati di musica che spesso utilizzano le playlist, che Spotify considera la sua caratteristica principale. Molte sono curate dallo staff, altre vengono generate dagli algoritmi in base al genere, e il risultato è che riescono a conquistare un terzo degli ascolti sulla piattaforma: chi non vorrebbe farne parte? Essere inclusi nella prestigiosa “Rap Caviar” ad esempio, che conta più di 8 milioni di followers, è certamente un buon modo per tentare di trasformare la propria canzone in una hit, e conta poco se per farlo occorre pagare. Se un tempo lo si faceva per trasmettere brani in radio, ora la pratica si adatta agli standard contemporanei, e i prezzi sono più o meno variabili: in un articolo di Billboard nel 2015, una major in forma anonima ammise che l’aggiunta alle playlist costava 2.000 dollari se aveva decine di migliaia di fan, 10.000 invece per quelle con più follower. E tutto questo anche se Spotify proibisce in maniera chiara ed esplicita “la vendita di un account utente o di una playlist, o altrimenti accettare qualsiasi compenso, finanziario o altro, per influenzare il nome di un account o playlist o il contenuto incluso in un account o playlist”. Ma la cosa va avanti, anche con sistemi molto più accessibili da un punto di vista strettamente economico.

Bastavano due dollari infatti perché la propria canzone venisse presa in considerazione da uno dei 1500 curatori di SpotLister, uno dei numerosi nuovi servizi che vendono l'accesso agli utenti Spotify di spicco, che ha chiuso i battenti tre giorni fa proprio per le rimostranze dell’azienda svedese: il servizio è stato creato da due studenti e in poco tempo hanno raggiunto numeri importanti, con 15-20 clienti al mese disposti a pagare da 1000 a 5000 dollari per essere piazzati nelle migliori playlist. Come racconta Danny Garcia, uno dei fondatori del servizio, “Abbiamo iniziato pagando 5 dollari per l’aggiunta a una playlist e la cosa all’inizio funzionava. Quando il gioco ha iniziato a coinvolgere più persone, i prezzi cominciarono a salire, e poi i playlisters cominciarono a capire quanto fossero importanti e quindi quanto meritassero di più. Ci sono playlist da 90 mila followers che chiedono 100-200 dollari, quelle con 500 mila possono chiederne 2 mila”.



Spotify risponde a queste affermazioni sostenendo che “non c’è alcun ‘pay-to-playlist’ o vendita delle nostre playlist in alcun modo. È una cosa negativa sia per gli artisti che per i fan. Noi manteniamo una politica severa, e intraprendiamo azioni appropriate contro coloro che non rispettano queste linee guida”. Eppure il sistema ha le sue falle, anche se, guardando la cosa da vicino, si capisce facilmente che la cosa fondamentale per una playlist non è avere un gran numero di follower, ma ascoltatori fidati e coinvolti. E questo apre un’altra questione, ovvero quella di gonfiare i numeri degli streaming (che in base a quest’ultima considerazione si rivelerebbe una pratica del tutto inutile): cosa piuttosto semplice e anche diffusa (con servizi come Streamify), come capita ad esempio anche con le pagine sui social, aumentando la visibilità degli artisti con risultati che alla fine possono davvero portare qualche miglioramento. Per superare il rischio di affidarsi a playlist con numeri non attendibili è nato SubmitHub, un servizio al quale ci si può iscrivere gratuitamente, ma dove basta pagare per assicurarsi premium credits con un feedback e un ascolto sicuro di almeno venti secondi per canzone, trovando il sistema per smascherare account falsi e follower praticamente inesistenti con l’utilizzo di un aggiornatissimo database creato direttamente dalle dashboard degli artisti che usano il servizio.

Bisogna specificare che, almeno in Italia, sono state adottate diverse misure perché queste pratiche non incidano sulle assegnazioni delle certificazioni per le vendite dei dischi: gli streaming accumulati infatti sono contati solo se la canzone è stata ascoltata per almeno 30 secondi, e l'ascolto compulsivo è stato frenato mettendo a 10 il numero massimo di streaming validi per utente su un unico pezzo.



Alla fine, la cosa più curiosa di questo sistema di compravendite, del black market delle playlist e dei tentativi di trasformare col denaro uno sconosciuto in una star, è che Spotify finisce per pagare involontariamente gli artisti per farsi truffare: infatti, se le cose funzionano e il brano viene riprodotto spesso, i soldi spesi possono essere riguadagnati, e anche qualcosa in più. Non entrando nel merito della correttezza di queste pratiche, limitandoci a riportare i fatti nel tentativo di comprendere meglio il sistema, concludiamo con le considerazioni di Tommie King: “Non è un gran segreto. Ogni cosa ha un prezzo. È semplicemente parte del gioco”.

 

(via)

---
L'articolo Il mercato nero delle playlist di Spotify: pagare è un sistema sempre più diffuso di margherita g. di fiore è apparso su Rockit.it il 2018-03-20 11:53:00

COMMENTI (1)

Aggiungi un commento Cita l'autore avvisami se ci sono nuovi messaggi in questa discussione Invia
  • tontonrachid1 6 anni fa Rispondi

    Commento vuoto, consideralo un mi piace!