L'epica, l'etica e il pathos: sogni ed anima di Vaghe Stelle

Il futurismo, i movimenti ansiogeni e le maestose partiture digitali. Uno dei producer più ispirati in circolazione ci racconta il suo nuovo disco per la label di Nicolas Jaar.

Vaghe Stelle
Vaghe Stelle

Ha pubblicato da poco un disco per la Other People di Nicolas Jaar, dove mette insieme citazioni futuriste, movimenti ansiogeni, e maestose partiture digitali. Un piccolo classico contemporaneo, con il grande pregio di suonare epico e atemporale. Vaghe Stelle si conferma uno dei più ispirati producer in circolazione, in una fase della sua carriera che potrebbe regalargli la gioia della promozione in Serie A. Lo abbiamo intervistato.

È nata prima l'idea del disco o le singole tracce?
Ho iniziato a lavorare al disco intorno a dicembre, e ho finito intorno a febbraio, quando l'ho consegnato. Avevo un sacco di roba e sostanzialmente quando l'ho assemblata ho iniziato a tirare giù l'idea del disco, l'ho sistemata, ho scelto le tracce e ho cominiciato a farmi quel viaggio.

In che maniera sei arrivato a scontrarti col futurismo?
Fondamentalmente il futurismo cercava una rottura coi vecchi canoni, non dava peso agli insegnamenti "scolastici", che è un po' il mio approccio nel comporre. Portarsi avanti credo sia l'espressione giusta, anche nel mio piccolo, per la mia musica. E poi è un'ispirazione culturale molto importante, legata all'Italia, a Torino...

Perché proprio l'opera di Balla? Cosa ti evocava?
I quadri di Balla sono tutti basati sul movimento, ci sono le auto, c'è questa esasperazione della velocità che mi ha sempre affascinato. Un'opera che si chiama "Velocità astratta + Rumore" non poteva che essere un punto di partenza. Nel disco c'è un sacco di velocità, una ricerca di movimento, e anche di rumore ovviamente, che diventa quasi ansiogena. Volevo riproporre questa idea riflessa sul nostro tempo, cercare di evocare la velocità dei media, della fruizione dei contenuti.

Conosci il movimento netfuturista? È il nuovo futurismo, che indaga la realtà ponendo in evidenza l'idea di rete e – cito dal manifesto – "tenta di accellerare la transazione dell'attuale uomo monodimensionale all'uomo nuovo a mille dimensioni". Quello che sta alla base del tuo disco in pratica.
No, non lo conosco. Ma quello che dici tu è anche uno degli elementi alla base del cyberpunk, che è centrale nella mia ispirazione. Sono un grande appassionato di fantascienza, dai libri di William Gibson a tutti i vari film. "Ghost In The Shell" in particolar modo parla di quella cosa lì, di come in un futuro distopico la nostra anima diventerà un tutt'uno con la rete, una figata se ci pensi.

Allo stesso modo sembra però tu sia abbastanza distante da quel tipo di freddezza digitale alla Holly Herndon. Un esempio: lei lascia parlare la sua cronologia internet, tu usi dei campioni vocali presi da film del secolo scorso, c'è una bella differenza.
Non ho mai voluto fare musica troppo legata all'internet, non è mai stato nei miei interessi. Mi sono sempre lasciato trasportare dalla mia sensibilità. Come persona tendo spesso al dramma, in ogni tipo di relazione ho questa tendenza, all'epicità anche drammatica. E la mia musica è uno specchio di quello che sono io, quindi non riesco a comporre senza mettere in mezzo un pezzo della mia vita personale.

Un'altra cosa che mi ha colpito è questa idea di composizione di fondo che permane sempre, molto diversa dalla destrutturazione pura che puoi sentire in un disco di Oneohtrix Point Never, per citare un nome che ricorre in alcune recensioni. Prendi "Eva", diventerebbe una partitura maestosa nelle mani di un'orchestra...
Sarebbe figo, fossi in grado di farla (ride). Ho un approccio al lavoro molto soggettivo, come tutti i producer, mi lascio guidare dal flow momentaneo nella costruzione del pezzo, non ci penso a priori. Però mi piace che il brano abbia una sua evoluzione interna, una crescita. È il mio inconscio che lavora ad aggiungere epicità al brano.

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D'altronde non hai mai fatto scudo dell'influenza dei grandi compositori sulla tua musica.
Chiaramente, ma è un'attitudine che può essere figlia di tante cose. Se tu pensi alle stesure più legate al krautrock, c'erano questi movimenti continui, ripetitivi, melodie e armonie che si incastravano l'una dentro l'altra per poi sfociare in qualcosa di più o meno epico. Certamente il minimalismo di Glass e Steve Reich mi ha influenzato tanto, anche se è lontano da quello che faccio.

Ascoltando il disco – com'è scritto nella recensione – avremmo detto anche l'idm anni '90.
L'elettronica degli anni '90 è stata fondamentale, mi ha veramente aperto il cervello in due, anche perché ero più piccolo, più ricettivo ai tempi. I Plaid, Autechre, i primi dischi di Aphex Twin, era musica che aveva questo movimento, tendeva ad aprirsi... per certi versi credo sia ineguagliabile ancora oggi.

Possiamo dire che la qualità più importante di "Abstract Speed + Sound" è il suo suonare atemporale?
Sarebbe figo se così fosse. L'artwork ad esempio riflette quest'idea, parlando della trasposizione del corpo umano nella rete viene spontaneo pensare che ci sia un altro io nella rete che mi somiglia, e per la cover ho scelto di usare un ritratto che però apparisse lontano dalla mia epoca. È una statua africana che con la mia faccia è diventata quasi egizia, volevo uscissero fuori queste radici, questo tribalismo, che riflette la parte più animalesca di me.

Che sensazioni ti interessa evocare nell'ascoltatore?
Mi interessa che la gente riesca a percepire tutti i lati della mia musica, la parte ritmica, quella più animalesca, la parte più melodica. Pensa a un pezzo come "Hyper", ha questo ritmo piuttosto intricato, leggermente reggaeton, destrutturato ovviamente, che è la parte più istintiva del pezzo, mentre la melodia si muove totalmente su un'altra sfera. Quello che cerco di fare, su cui sto lavorando adesso ancora di più, è cercare di colpire sia lo stomaco che la parte più mentale.

È la stessa idea che sta dietro un pezzo e un titolo come "Multiple Concentric Hexagons"?
Esatto, ho pensato a un movimento infinito di esagoni che si moltiplicano concentricamente. Come quella gif dove il tizio rivede la sua foto riflessa nello specchio e poi riparte all'infinito.

"Zeman" è il pezzo più cattivo del disco. È dedicato a lui?
(Ride) L'atmosfera del brano mi riportava alla mente quella sensazione di Zeman, di un uomo duro, di sani principi. Nonostante tutto credo che Zeman abbia un bellissimo nome.

Quanto ti ha occupato lavorare al disco?
Non ti saprei dire, dopo "Sweet Sixteen" ho lavorato durissimo tutto il 2014 su due album che poi ho buttato. È stato un periodo un po' così, ho fatto tantissima musica che non mi piaceva. Ho tenuto delle robe, delle idee, delle bozze, ma ho ricominciato quasi da zero. Avendo lo studio a casa, mi ritrovo a lavorare sempre, appena ho un minuto mi metto lì a suonare. Ho rivisto la luce intorno a gennaio-febbraio, quando ho finito questo. È un disco che suona quasi come volevo, ha un senso come tappa per raggiungere quello che sto finendo adesso.

Firmare con Other People ti ha messo di fronte a un certo tipo di aspettative?
Non saprei, non credo... sapevo che avrei avuto a che fare con una promozione molto più importante rispetto ai miei soliti standard, quando si parla di Nicolas (Jaar, nda) i giornalisti drizzano bene le orecchie, di conseguenza anche l'etichetta vive del suo seguito. Diciamo che adesso mi sento in partenza verso dove voglio arrivare. Vivo di obiettivi che voglio raggiungere, ed è per questo che mi impianto, mi fermo, perché difficilmente riesco ad essere contento di quello che faccio. Mi sento come se stessi giocando seriamente ora, come se fossi in Serie B e stessi per iniziare i play-off per la Serie A.

Hai avuto le idee così chiare sin dall'inizio?
All'inizio era una cosa più randomica, mi sono perso dei pezzi durante la carriera, per fortuna qualcosa è andato bene. Però adesso ho ben chiaro cosa devo fare, sono bello carico. È un approccio al quale sono arrivato tramite l'esperienza, la capacità di osservare in maniera critica, analitica, il lavoro degli altri: come presentano le cose, come si presentano al pubblico, il suono, la personalità che mettono dentro la loro musica.

Mi dici tre dischi che sono stati importanti per te nell'ultimo periodo?
Ho ascoltato un sacco "Take Care" di Drake, a ruota proprio, poi "Inertial Frame" di Arpanet, un progetto di Drexciya, e adesso sto ascoltando tantissimo la colonna sonora di "Akira". Sono tre dischi che rappresentano quello su cui sto lavorando adesso, Arpanet per la parte digitale, più ritmica, Drake per la parte più emozionale e "Akira"... "Akira" per tutto il resto.

Un anno e mezzo fa dicevi che Torino tendeva ad essere una città sempre più provinciale e poco stimolante. Sei ancora d'accordo?
Sono ancora d'accordo purtroppo. Ci sono dei progetti come Club To Club che continuano ad avere un ruolo importante, di estrema qualità, ma la città in cui sono cresciuto e che amo non è più la stessa di quando avevo 22-23 anni che mi ha fatto innamorare e rimanere qui.

Non c'è nemmeno un posto che continua ad essere per te rigenerante?
Sì be', casa dei miei genitori (ride).

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L'articolo L'epica, l'etica e il pathos: sogni ed anima di Vaghe Stelle di Marcello Farno è apparso su Rockit.it il 2015-09-16 11:18:00

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