BirthhBorn In The Woods2016 - Pop

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Consigli su come passare, nottetempo, dal tepore del folk a un inafferrabile altrove fatto di beat, glitch e stratificazioni vocali? Chiedete a Birthh

Se sei una ragazza di appena 19 anni e ti piace veicolare il tuo stato d’animo attraverso la musica ci sono buone possibilità che la complicità di una chitarra acustica possa assecondare i tuoi sogni di gloria, magari indirizzandoti sulle stesse orme folkeggianti di una sempre verde Suzanne Vegao di una più attuale Alela DianeTutto nella norma. Ma la faccenda diventa più insidiosa e stimolante quando decidi di abbandonare il richiamo rassicurante del folk, ancor prima di metabolizzarlo, per abbracciare le ben più rognose fascinazioni dell’elettronica.
La giovanissima (e coraggiosissima) fiorentina Birthh (Alice Bisi all’anagrafe) rappresenta un po’ il classico caso di fulmineo cambio di registro stilistico dettato dalla sacrosanta curiosità verso nuovi territori musicali e, quindi, dall’inevitabile scoperta di nuove fonti d’ispirazione: nel suo caso sono state personcine come Jon Hopkins e Trentemøller a fulminarla sulla via di Damasco e a catapultarla dal tepore delle 6 corde dentro un altrove inafferrabile fatto di beat, glitch e stratificazioni vocali.

All’interno del compatto e agile formato pop-oriented dei brani (mediamente intorno ai 3 minuti) si dipana un micromondo in downtempo che in realtà di pop ha poco o nulla, ancorato com’è a un ambient rarefatto e intimista di matrice nordeuropea, liricamente umbratile nel suo sviscerare il disagio esistenziale di vite irrimediabilmente complicate. In tal senso la voce morbida e sfuggente di Birthh è maestra di narrazione e sembra sfogliare le pagine di un romanzo (mai scritto) fatto di cristalli di malinconia, autunni infiniti e carezzevoli visioni (ascoltatevi “Chlorine” e “Wrait”); una voce di carattere che regge da sola il disco, la cui resa emotiva – tra Elena Tonra, Miss Kenichi e Amy Millan – rappresenta forse il più evidente refuso di un docile passato folk ancora per nulla rassegnato a esalare l’ultimo respiro (“Interlude for the lifeless” e la spudoratamente acustica e damienriceana “Banhof”).

Un esordio che, a pensarci bene, non sembra affatto tale, perché dispensa le stesse suggestioni a presa rapida di una matura riconferma, perché dimora ai piani alti della qualità e perché, quasi spiace dirlo, capitalizza al meglio quell’esterofilia spinta che molto spesso in Italia è riuscita a combinare solo danni.

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La recensione Born In The Woods di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2016-05-02 00:00:00

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