Emma Tricca St.Peter 2018 - Folk

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Dalla purezza acustica del fingerpicking all’elettricità del folk psichedelico il passo è breve, quando a farlo è l’anima candida di Emma Tricca.

Ci insegna la storia che si può essere acoustic-addicted quanto si vuole ma, presto o tardi, le lusinghe dell’elettricità non tarderanno a farsi sentire per surclassare anche il più irriducibile purista, a dispetto di tutti i pronostici. Chiedetelo anche alla nostra Emma Tricca – e ho detto tutto! – che dopo una carriera interamente votata al fingerpicking ha finito per cedere inesorabilmente al sirenesco richiamo di amplificatori, pedaliere, distorsioni, riverberi e cavi elettrici; grazie anche a un manipolo di blasonati collaboratori, a dire il vero (tra i quali Jason Victor dei Dream Syndicate e Steve Shelley dei Sonic Youth), che ha condotto per mano la folksinger romana di stanza a Londra lungo gli insidiosi crocicchi dell’elettricità.
Una sfida vinta a mani basse peraltro, possiamo già anticiparlo. Tranquilli, nessuna conversione al grindcore o al trash metal, ma solo una comprensibilissima esigenza di imboccare nuove e più ramificate direzioni, pur senza stemperare la congenita devozione al folk dei grandi padri (Nick Drake, Bob Dylan, Woody Guthrie, Joni Mitchell, Neil Young, Donovan).
Le dieci tracce di “St. Peter”, piuttosto, si muovono lungo i binari di una soffusa psichedelia, all’insegna di un’immaginaria – quanto candidamente dichiarata – ibridazione fra i Velvet Underground e i Fairport Convention, tra misurati slanci onirici e suggestioni bucoliche, tra fascinazioni americane e britanniche incastrate fra ’60 e ’70 ma con provvidenziali aderenze alla contemporaneità: vi basti lo splendido uno/due “Buildings In Millions” / ”Salt”, chiaroscurale baricentro del disco con le sue implicazioni mazzystariane.
E poi c’è tutto il resto ad alitare corroboranti brezze sonore come se non ci fosse un domani: il Neil Young “morriconizzato” di “Green Box”, gli umori jazz-tribalistici di “Julian’s Wing”, la malinconia carezzevole di “Mars Is Asleep” – quasi una ballata di cranberriesiana memoria declinata su ben più stradaioli registri – il suadente intimismo di “The Servants Room” – una sorta di angelicata trasfigurazione dell’U2ica “Running To Stand Still” – l’evanescenza liturgica di “Fire Ghost”, introdotta dalla voce del grande Howe Gelb, e una ritrovata Judy Collins che torna a declamare la sua “Albatross” sopra il mantra lisergico di “Solomon Said”, prima del congedo finale affidato agli amperaggi psych folk di “So Here It Goes”.
Ma soprattutto c’è la voce maiolicata di Emma (da qualche parte tra Vashti Bunyan, Joanna Newsom, Lisa Hannigan e la stessa Joni Mitchell) che vi scivolerà sulle membrane del cuore come olio di ambra a dispensare, giusto per citare l’indimenticabile Collins di cui sopra, “i colori, le campane, il vento e il sogno”.

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La recensione St.Peter di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2018-07-30 00:00:00

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