Zu The Way Of The Animal Powers 2005 - Strumentale, Noise, Jazz

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Fra spazio "esterno" e dimensione interiore. Fra viaggio cosmico ed analisi intimista. In mezzo: spazi infiniti, Realtà stravaganti ed inimmaginabili che sono però patrimonio profondo e carnale di tutti (a pensarci bene).

Non è un caso che gli Zu - gruppo romano acclamato ormai da mezzo globo, e le biografie ve le cercate da soli che qui si parla di singoli oggetti artistici nuovi, come questo “The way of the animal powers” - abbiano scelto per il loro nuovo lavoro il titolo del primo volume dell'“Atlante storico della mitologia mondiale” firmato dal più grande mitologo del '900, Joseph Campbell. Non è un caso perché, senza dubbio, il potente e fumoso nonché vagamente cimiteriale nell'estetica trio capitolino - che poi capitolino non è più perché vive nel Mondo, stavolta quello figurato della Musica, e da esso si abbevera profondamente montando, curando ed arricchendo il proprio tessuto di mille riferimenti da fasciarsi la testa prima di spaccarsela - tenta di fare nella e della Musica quel che Campbell ha tentato di fare con la varietà e la multiformità dei Miti: spiegarli, riunirli, sintetizzarli. Cercare un filo nella Babele musicale lunga un secolo.

Che non è mica un lavoro facile. Anzi. E' antipatico, lungo ed ostico. Così come è antipatica ed ostica anche la musica degli Zu, a tratti (neanche tanto brevi). Quando si muove troppo, davvero troppo, nel minimalismo allucinato che guarda all'oscurità new-wave e post-punk. Ma che laddove riesce ad esprimersi in quell'intento di base, esplode in una violenza sonora che fa del gruppo romano il prototipo della rock-band del nuovo millennio - sospirando nella latitanza della ricerca del Nuovo cui il rock ha ormai abdicato da decenni.

Nove pezzi primordiali, sanguigni, irriverenti: che poi alla fine danno vita ad un vero e proprio concept-album composto da un'unica, vibrante suite lunga più o meno venticinque minuti. Dentro: jazz-core che è tutto e nulla. Jazz-core che parte dai Miti (vedete? Ne siamo circondati) dell’hard-bop, da McLean alle follie consapevoli di Monk, da Coltrane a Gordon – quei boppers che hanno detto: “Ok, adesso la strada è un’altra” - e arriva a piedi pari ai Creedle e al loro strampalato jazz o, prima, ai Trash can school, magari passando per i Gong di Daevid Allen: i primi ovviamente. Per non parlare di quel che ha significato – paradigmaticamente - Frank Zappa. O John Zorn e il suo lavoro deciso e rischioso, sempre di confine. Ma sempre culturalmente “avanti”. Che peraltro mi pare sia dei romani insigne estimatore.

Spazzando via tutto questo, e raccogliendone le briciole per rimontarle epicamente in un nove pezzi che stanno fra l’inascoltabilità perentoria e masochista e la raffinatezza sonora più eccitante. Così l’attacco “Tom Araya is our Elvis”, che pare metal, ti spiazza. Soprattutto se per te gli Zu erano jazz, ma non sapevi/capivi quanto potessero esserlo. E non sapevi che per loro, i generi, fanno acqua da tutte le parti.

Poi – prezioso il clarinetto di Fred Lonberg-Holm, abitante di quel Pianeta Chicago cui i romani guardano assetati e rabbiosi – le cose cambiano. Si aggiungono abbozzi di voce (“Every sea gulls”), campioni elementari, motivi e riff ripetuti e sfibrati, portati avanti fino alla morte e lasciati lì a dissanguarsi.

Ecco lo snodo del gruppo: gli Zu prendono un tema, e lo sminuzzano, lo ripassano, aggiugnono ad ogni giro nuove sfumature. Proprio: aggiungono "cose" nuove ad ogni ripetizione. Nuovi modi per dire: la Musica non finisce mai. Altro che essenzialità. Questo disco è un inno all’aggiunta, alla precisione, al lavoro positivo-negativo, di continua costruzione-decostruzione del suono, sulla base di canovacci di partenza (e qui sta, fondamentalmente, il jazz degli Zu: il resto, come si spera d’aver reso, è core).

Sempre navigando fra quello che infine diviene un enigmatico ed ectoplasmatico non-genere: cos’è, non lo so più davvero neanche Io, alla fine della mezzora stancante ma esaltante di ascolto, ripetuta incessantemente fino allo stordimento. Come dopo aver fatto l’amore con la donna più bella ma pure più maligna del mondo.

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La recensione The Way Of The Animal Powers di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2005-11-22 00:00:00

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