Super Elastic Bubble Plastic - Telefonica, 06-11-2008

Questo venerdì esce "Chances" il loro nuovo album. Un lavoro fortemente voluto, che i Super Elastic Bubble Plastic hanno realizzato in piena autonomia. Il risultato lo sentirete per intero la prossima settimana su queste pagine, per ora ce lo racconta la band. Di Ester Apa.



"Chances" è un disco di frontiera, che parla di occasioni perdute tanto quanto di aspirazioni da cogliere. C'è stato bisogno di esorcizzare i rimpianti passati prima di aprirsi serenamente alle possibilità future?
Questo è un disco come tutti quelli dei Super Elastic che parla della vita, a volte non necessariamente della nostra. E nella vita ci sono occasioni perse, colte o potenziali che possono essere messe in atto. Sarebbe bello riuscire a cogliere e ad attualizzare tutte quelle occasioni. Non penso che nessuno non abbia rimpianti passati, ma sono esperienze che non andrebbero rinnegate in un percorso di crescita. Questo è il senso di "Chances". Vorrebbe essere una forma di evoluzione personale per chi lo suona e sarebbe bello pensare che anche per chi lo ascolta fosse così. Non voglio esorcizzare nessun demone, i miei demoni stanno bene lì dove sono, mi fanno scrivere le canzoni e spesso mi fanno sopravvivere.

Se "Small rooms" era il mandante, "The Swindler" il braccio armato, "Chances" ha voglia di costruire sulle macerie o mette ancora insieme i pezzi rotti?
L'album parte dalle macerie ma ha voglia di costruire da lì. E' la mente pensante, la razionalità che spinge alla distruzione ma anche il deus ex machina che crea il dopo-distruzione. Queste sono metafore enormi, molto più semplicemente possiamo dire che è un disco fatto da persone di una certa età, con una certa esperienza di vita artistica, che non ha nessuna voglia di scherzare. E' un disco "serio" in cui non trova più spazio quell'approccio giovanilistico ad esempio di "The Swindler", che era un album fatto da ragazzi che avevano voglia di spaccar tutto e basta. E' un lavoro individualista, non fa considerazioni esplicite sulla realtà circostante, anche se ogni storia diventa qui un mezzo per raccontare qualcosa di più generale. Sono micronarrazioni che parlano della fatica di lavorare, di sopravvivere, di perdersi, di avere a che fare tutti i giorni con un mondo che non è come vorremmo, in cui si perde ogni giorno il senso della convivenza fra le persone.

Queste undici tracce sono intrise di lacerazioni, di cuori presi a morsi. C'è però anche un gusto per il sangue che accomuna tutti i personaggi delle storie che raccontate. E' così difficile non essere aguzzini?
Assolutamente si. La mia professoressa di latino al Liceo davanti ad ogni quattro che mi dava mi diceva che ognuno è artefice del proprio destino in qualche modo. E' vero quello che dici, ci si crea da noi le situazioni della vita. Ed è giusto che si sbagli, altrimenti ci sia annoia. Ogni giorno mi trovo costantemente davanti a situazioni in cui si deve decidere se fare il proprio meglio alla faccia di tutti, rinunciare ad un pezzettino di sé stessi per essere delle persone decenti oppure abbandonare quello che si è e fare gli zerbini. L'atteggiamento passivo non mi appartiene, è bello e giusto prendersi le proprie responsabilità soprattutto nei rapporti interpersonali credo sia determinante.

"Il Pasto Nudo è l'istante raggelato in cui si osserva quello che rimane sulla punta della forchetta", disse Kerouac a Burroughs, suggerendogli un titolo per i suoi scritti. Allo stesso modo "Chances" guarda secondo i Sebp alle occasioni che la vita presenta avendo chiaro il senso del proprio percorso. Come a dire la scrittura aiuta l'autoanalisi di gruppo?
La partogenesi di questo disco è stata una bellissima esperienza collettiva. Io sono stato impegnato e lo sono tutt'ora con il Teatro degli Orrori e ho avuto poco tempo da dedicare ai miei fratelli di Mantova. Questo disco è un sodalizio in piena regola. E' stato un processo faticoso, dolorosissimo per tutti e tre perché una famiglia per essere coesa deva anche urlare, spaccare i bicchieri ma bisogna volersi comunque bene e alla fine abbracciarsi. Credo che da questo lavoro esca fuori un'idea di autoanalisi. C'è un processo mentale e umano che risponde ad una miccia di scollegamento del gruppo che si era innescata dopo "Small Rooms". Il fatto che io non sia stato così presente nell'ultimo anno ha aiutato. Per dirla con una metafora: prima i Sebp erano come dei fidanzati che si vedevano 24 ore al giorno. Era facile che le cose stando insieme così tanto andassero sempre bene ma si correva il rischio di stufarsi. Se invece una compagna la si vede due giorni a settimana, sei costretto a dare il meglio. Tra di noi è andata così. Il fatto che io ci sia stato di meno, ha fatto attivare negli altri un campanello d'allarme, li ha fatti reagire. Noi crediamo tantissimo in quello che stiamo facendo, è una necessità fisiologica quella di essere Sebp, ed è stato bello ritrovarsi come con la propria ragazza dopo del tempo e fare l'amore per 3 giorni di fila.

Cosa pensi che dell'esperienza con Il Teatro degli Orrori sia invece confluito in questo album?
Il teatro è una bellissima scuola di vita, d'arte, di intensioni, di mood. Sono onoratissimo di farne parte. Mi ha dato una grande fiducia caratteriale nell'affrontare discorsi che isolano anche dalla composizione pura. Ho a che fare con dei professionisti che hanno più esperienza di me. Pierpaolo (Capovilla, voce dei TdO, NdR) fa musica da metà degli anni 90, io all'epoca avevo 15 anni, andavo in giro con i pantaloni stracciati, le Dr.Martens e la camicia di flanella, mentre lui spaccava i palchi. Questo bagaglio mi ha spronato ad avere più fiducia sul potenziale dei Sebp ed è una cosa che ho voluto trasmettere anche agli altri del gruppo: il fatto di non accontentarsi del primo risultato che si ottiene, di pensare di potercela fare con le proprie gambe.

In questo album vi misurate con l'autoproduzione a 360°. Come nasce Super Fake e la scelta di non farsi accompagnare per la prima volta da Giulio Favero?
Non c'è bisogno di un'etichetta per fare uscire un disco, questo in Italia ormai si dovrebbe sapere. Se c'è una necessità vera il disco lo fai uscire, non ci sono cazzi. Con i Super Elastic avevamo avuto qualche proposta, ma sinceramente ci eravamo stancati di trattare per la nostra musica. Questo disco volevamo farlo uscire a modo nostro. La Super Fake è un logo, come a dire serve un nome altrimenti una cosa sembra non esistere? Eccolo. Se lo traduci non significa nulla, se non super-fasullo; è semplicemente la nostra volontà di fare questo album. Quando sono in giro per concerti in tanti mi chiedono sempre un parere su questa presunta scena indipendente e io rispondo che tra major e indie il confine non c'è più. Il confine esiste sul volere o non volere fare le cose. Un sacco di gruppi quando si trovano in questa situazione, quando si trovano a doversi sbattere, se non sono disposti a mettere in gioco la propria vita al 100% per il proprio progetto musicale mollano. La scelta di non avvalersi delle competenze di Giulio Favero va in questa direzione. Ho spinto io perché volevo rilanciare il gioco per vedere quello che succedeva. Lui è il miglior produttore d'Italia e non ci sono dubbi ma volevo mettere le mani sul mixer, vedere se funzionava, provarci. Io non so cosa succederà con questo disco. A me piace un casino, so che non è registrato da Dio, ha i suoi difetti ma tutte le cose belle ce l'hanno.

L'esigenza di lacerare gli spazi angusti, il senso quasi claustrofobico che veniva ridotto a brandelli nei primi due lavori, non conosce pacificazione nemmeno in questo album ma si concede dei momenti di tregua. Alla furia si accompagna oggi nei SEBP un'intimità sonora inaspettata. Avete avuto reticenza nel misurarvi con soluzioni musicali differenti?
Si. Urlare fa impressione, io però oggi ho più di 30 anni e vorrei che le cose venissero capite anche senza urlare contro alla gente. Mi piace la melodia, adoro la musica acustica. Ascolto sempre Johnny Cash, quando non sono in giro a fare delle polizze suono la chitarra acustica a casa dalla mattina alla sera. Abbiamo trovato delle soluzioni diverse è vero, non avevamo voglia di fare dieci dischi uguali. Se poi chi ci ascolta lo capisce bene, altrimenti noi il nostro percorso di crescita lo facciamo lo stesso, vogliamo diventare vecchi e saggi.

Nuove armonie e aperture melodiche ma soprattutto questo album inaugura un modo inedito di sperimentare l'utilizzo della voce. Voi citate il Nick Cave di "The Boatman's Call", io aggiungere anche l'Eddie Vedder dei tempi migliori…
Nick Cave è un'ispirazione e "The Boatman's Call" è stato uno dei dischi più importanti della mia vita di qualche anno fa. Ho cercato un percorso di cantautoriato di un certo tipo, non prevedibile per i Super Elastic. Per quanto riguarda Vedder, ti ricordo che io a 15 anni andavo in giro con la camicia di flanella per cui è naturale che alcuni rimandi ci siano, poi ho la voce bassa fumando come un camino e quindi ci sta. Non li ascolto da un sacco di tempo i Pearl Jam, sono innamorato di "No Code", ma mi sono fermato lì. Quello che è venuto dopo non mi ha fatto più impazzire.

Il singolo che avete scelto per quest'album Fake Queen, dà l'idea di come le persone spesso costruiscano un'immagine deviante di chi gli sta accanto. L'amarezza è scoprire l'altro diverso o capire che lavorando di fantasia ci si schianta?
E' parte di un pezzo registrato a casa mia da solo, voce e chitarra acustica. E' il cercare di capire chi hai di fronte sapendo che chi hai di fronte non sta cercando di capire te. E' una canzone incazzata, piena di amarezza, è vero. Quando dico: "Scrivimi una lettera perché voglio capire quello che provi a dirmi e non rassicurami perché lo so che non andrà tutto bene": è lì il senso del pezzo.

So che avete girato il video in modo decisamente inusuale. Offrivate da mangiare e da bere a chi voleva riprendervi o essere ripreso mentre suonavate all'Arci Tom di Mantova. Ci racconti com'è andata?
E' nell'ottica del "Do it Yourself", come del resto tutto il disco. Siccome soldi non ce ne sono tanti e la produzione di un video è costoso e noi non avevamo voglia di spender dei soldi solo per far questo, abbiamo pensato che un buon video può costare anche poco, se c'è una bella idea di fondo. Ci sono video per cui si spendono migliaia di euro e non hanno senso. Io non ho la televisione in casa però quando mi capita di vedere Mtv, vedo una valanga di soldi buttati e cose inutili; se non ci fossero non se ne accorgerebbe nessuno. Servono le idee molto più che i soldi, in generale. L'abbiamo girato a Mantova, abbiamo invitato un po' di persone e ci siamo fatti riprendere, creando un'interazione fra chi suonava, filmava e viceversa. Sono stati due giorni stupendi, un caldo infernale ma è stato molto bello. L'ha montato poi Alessio, il batterista che di mestiere fa l'operatore video. E' un lavoro fatto proprio in casa.

"Young shark" esemplifica l'indignazione quasi viscerale verso un potere sottile, che corrode la pelle. Qualche anno fa si sarebbe detto che è la paura sociale quella che genera mostri?
Si decisamente. Quel pezzo è dedicato a una ragazza di 25 anni, carina, dolce, che faceva la rappresentante, vendeva contratti. Ho lavorato tempo fa con lei una settimana e ho guadagnato 44 euro. Il secondo giorno che la vedo fa un discorso allucinante dicendo a tutti i collaboratori sotto la sua direzione che aveva speso tre anni della sua vita per trasformarsi da ragazzina timida e impacciata a capo di una filiale, per quest'azienda che poi tra l'altro è fallita. Io la guardavo e mi faceva quasi pena, perché aveva violentato la sua indole per diventare qualcosa che andava in direzione opposta alla sua natura. Un mondo che ti spinge a fare questo è diabolico. C'è qualcosa di estremamente sbagliato di fondo. Berlusconi docet nell'approccio commerciale alle cose, in questo vortice arrivismo/sono il capo del mondo, ed è una mentalità che purtroppo oggi dilaga in Italia e da cui è difficile ma necessario prendere le distanze.

Questo carattere corale è l'elemento chiave anche dell'ultima traccia dell'album "A tale from the bottom", suite collettiva in cui partecipano amici musicisti che arrangiano il brano con slide guitar, mandolini, ukulele, fisarmoniche. Il lascito del brano "nothing can kill the stars" è poesia per il futuro?
Tutte le volte che parlo e ascolto quel pezzo mi vengono i brividi. Mi piace da morire quella canzone, avrei voluto tanto sentirla in un disco e per fortuna sono riuscito io a metterla in un album. E' legata ad un discorso umano profondo, è un approccio che mi è stato insegnato negli ultimi tempi per cui dici: "Vabbè va tutto di merda ma è inutile che stiamo a piangerci addosso tutta la vita, non si possono guardare le scarpe. Se devi puntare, punta lontano, alle stelle, perché le stelle stanno lì nonostante tutto e tu puoi arrivarci in qualche modo". E' una lezione che mi è stata data e ho voluto mettere in una canzone. Il tutto è stato poi realizzato con degli amici in una seduta di un giorno in studio finita alle sei del mattino fra baci, abbracci e lacrime. Poi suona anche benissimo, quindi sono contento anche dal punto di vista tecnico.

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L'articolo Super Elastic Bubble Plastic - Telefonica, 06-11-2008 di Ester Apa è apparso su Rockit.it il 2008-11-10 00:00:00

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