Gli anni 90 non ci sono più: l’illogica allegria del nuovo album de Le Luci della Centrale Elettrica

"Costellazioni" è il nuovo album de Le Luci della Centrale Elettrica. Abbiamo incontrato Vasco Brondi per chiacchiere dei nuovi suoni del suo disco, del Po, del Mississippi e di come ci siamo finalmente liberati degli anni '90. Con una allegria malata tipica del nostro presente.

I nuovi suoni de Le Luci della Centrale Elettrica, il Po come il Mississippi, la follia di fare tre dischi invece di uno, il morbo degli anni ‘90. E l’allegria malata di questo presente. L’intervista di Marco Villa.
I nuovi suoni de Le Luci della Centrale Elettrica, il Po come il Mississippi, la follia di fare tre dischi invece di uno, il morbo degli anni ‘90. E l’allegria malata di questo presente. L’intervista di Marco Villa. - Foto di Ilaria Magliocchetti Lombi

"Costellazioni" è il nuovo album de Le Luci della Centrale Elettrica ed esce il 4 marzo. Abbiamo incontrato Vasco Brondi per chiacchiere dei nuovi suoni del suo disco, del Po, del Mississippi e di come ci siamo finalmente liberati degli anni '90. Con una allegria malata tipica del nostro presente. L’intervista di Marco Villa.

 

La cosa più evidente e più grossa di "Costellazioni" sono i suoni: sono canzoni pienissime, molto diverse da quelle che hai scritto finora.
È una cosa che ho avuto chiara dall'inizio, dovevo solo tradurla in pratica. Ho iniziato a scrivere a settembre 2012, dopo sette mesi di viaggio. Era la prima volta che mi fermavo da quando faccio questo lavoro e mi ha fatto rendere conto che è stato come se fosse stata un'unica lunga giornata dall'autunno 2007, quando ho iniziato a registrare il primo disco, fino a quell'ultimo concerto di marzo 2012. Dopo il viaggio sono tornato a Ferrara e ho buttato via tutto quello che avevo scritto in precedenza, durante il tour. Avevo le idee chiare su cosa fare, ma all'inizio le cose mi stavano un po' sfuggendo di mano. Mi dicevo: "no, cazzo, io voglio scrivere quel disco lì" e invece stava diventando una cosa molto più suonata, un disco rock, che era una cosa che non volevo fare. Quindi anche lì ho buttato via un sacco di robe. Allora ho cambiato il modo in cui iniziavo a scrivere: non mi sono più approcciato chitarra e voce, ma cominciavo sempre da beat e suoni, che erano anche solo delle armonie fantasma, un'atmosfera. Tutte le parole sono venute fuori dopo, da quello che veniva evocato. Ho cambiato l'approccio iniziale e questo ha fatto in modo che uscissero cose diverse dal solito.

Nell'intervista che hai fatto con noi quando è uscito "Per ora noi la chiameremo felicità" hai detto che in quell'occasione avevi provato a importi di cambiare suoni, ma poi l'avevi avvertito come una forzatura e quindi ti eri messo a fare semplicemente quello che sentivi. Questa volta il fatto di non partire dalla chitarra te lo sei imposto o è venuto naturale?
Forse è venuto naturale adesso quello che speravo fosse naturale allora, ma che in realtà non lo era. Sono contento di aver fatto quel disco là, che era esattamente come l'avevo voluto. "Costellazioni" è un disco urgente, ma con un'urgenza diversa dagli album precedenti.

Qual è stata la canzone più difficile da chiudere?
Fortunatamente sto rimuovendo tutte le difficoltà avute negli ultimi due anni. Ce ne sono state un po' che mi hanno fatto tribolare, anche se poi quando si risolvono dici: "cazzo, ma era facilissimo, era qua pronta". Però ho scoperto questo falso mito per cui più una cosa è alternativa, sperimentale e più tu sei un intellettuale con delle idee. In realtà il vero lavoro è rendere quella roba lì più semplice, più immediata e più leggera. "Un bar sulla via lattea" è stato uno dei primi che ho scritto e l'ultimo che ha trovato la sua vera veste, di cui sono contentissimo e che trovo perfetta, però ha patito un po' le cose che ha passato il disco.

Ecco, mi parli un po' del percorso che ha avuto il disco e del ruolo che ha avuto Federico Dragogna dei Ministri?
Ho iniziato facendolo da solo e dopo un po' sono passato a farlo praticamente tutto al computer con Federico Dragogna dei Ministri. Ho lavorato con lui e il disco era finito. Io però non ero convinto, anche di cose che - ascoltate adesso - andavano benissimo. Quindi sono andato due settimane in studio a Bassano del Grappa con tutti i musicisti, cosa che non avevo mai fatto. Di solito mi trovavo con loro poco prima dei concerti e suonando assieme trovavo sempre soluzioni migliori di quelle che avevo immaginato da solo. Stavolta ho voluto anticipare di sei mesi le prove del tour e ho registrato live il disco. A un certo punto quindi avevamo due dischi pronti e "Un bar sulla via lattea", che prima era completamente elettronica, poi era completamente suonata. Da lì, da quel pezzo, abbiamo capito che quello che dovevamo fare era un terzo disco, ovvero mischiare i due precedenti. Alla fine c'è una commistione tra suoni elettronici e organici, che era quello che volevo. Il motivo però non è la solita convinzione che l'elettronica sia fredda, perché ormai siamo a un livello per cui l'elettronica può essere più calda di una chitarra classica. E poi i suoni elettronici ci sono familiari, sono intimi. Però mi mancava sentire la mano, la pancia, il nervosismo, la distensione, quella cosa lì che a livello inconscio ci arriva.

Ma Dragogna ha fatto più da arrangiatore o avete scritto insieme il disco?
Le canzoni erano quasi sempre fatte e finite quando gliele spedivo. In un paio di occasioni avevo solo un embrione di pezzo. Come "40km", la canzone che chiude il disco: Fede è venuto da me una settimana a Ferrara, gli ho fatto sentire il pezzo ancora grezzo, abbiamo spostato un po' di cose, lui mi ha proposto di rallentarlo e alla fine l'abbiamo cambiato molto insieme.

È stato difficile confrontarsi così tanto con un altro musicista?
Io condivido molto, ma devo essere molto sicuro della mia cosa di partenza: se condivido qualcosa e il primo parere me la sbilancia, dopo un po' la perdo, non la sento più mia. Fede ha capito subito questa cosa: è stato un lavoro delicato, dopo un anno se ne esce più come fratelli acquisiti che come colleghi. C'era anche un allontanarsi e un ritrovarsi, un prendersi le misure. Quando ero in alto mare con le canzoni, il suo intervento è stato fortissimo: gli ho spiegato come avrei voluto fare il disco, ma che secondo me le canzoni chiedevano qualcos'altro e quindi stavo abbandonando la mia idea. Lui mi ha detto che invece andavano benissimo e mi ha rimandato i pezzi con delle sue cose. Ad esempio "Sonic Youth": gliel'avevo mandata solo con il piano e lui me l'ha rispedita con i cori. Aveva semplicemente ambientato il pezzo.

E da lì hai deciso di farlo con lui?
Avevo voglia di lavorare con altri, perché non avevo assolutamente intenzione di affrontare da solo questa scalata all'Everest, non riuscivo assolutamente a vedermi là da solo, come uno scrittore e per fortuna nella musica puoi farti aiutare. Allo stesso tempo, però, mi piaceva tenere l'intimità dei provini, come se suonassero in una stanza o in questo bar ipotetico tra la via Emilia e la via Lattea. Abbiamo usato un sacco di strumenti più o meno fantasma: archi, fiati, tromboni, ma anche elettronica, tutti riempivano gli spazi, ma senza che ti immaginassi lì i musicisti. Era importante che ci fosse comunque una voce in primo piano e una narrazione che tenesse insieme le canzoni, perché nel momento in cui usi tanti generi diversi hai bisogno di individuare dei fili conduttori.

(Foto di Massimiliano Nardi)

Però alla fine quello che ti resta è che la voce è meno importante. Finora quello che ti ha caratterizzato erano principalmente i testi, con i versi da cantare come se fossero slogan, mentre qui fa tutto parte dell'insieme, si sente che c'è un discorso globale.
Secondo me questo dipende da dove sono partito, cioè dal fatto che tutto è uscito da atmosfere musicali. Le parole sono uscite da lì, quindi per forza sono più fuse. Ai testi ho lavorato tantissimo per sottrazione, per non ribadire cose che erano già dette nel silenzio tra una strofa e l'altra. Per la prima volta, quando finisce una canzone ci sono delle parti strumentali, che io da ascoltatore ho sempre odiato, perché mi sembravano fuffa: quando invece la canzone continua a parlare, anche dopo la fine della voce, allora lo strumentale funziona.

Il primo pezzo è quasi programmatico: "La terra, l'Emilia, la luna", ovvero i tre piani su cui corre tutto il disco.
In realtà quel pezzo sarebbe dovuto essere l'ultimo, perché mi piaceva che il disco finisse dicendo "per tutti quelli che sono morti come sono vissuti / felicemente felicemente felicemente e al di sopra dei loro mezzi": lo trovavo un bellissimo augurio, per quanto strano. "La terra, l'Emilia, la luna" ha avuto da subito un'idea di festa tra un rave e una balera, anche per il testo, che è un po'una filastrocca. Inizia con uno stagno e una chitarra soffocata, come se fosse un mio pezzo vecchio, ma poi arriva questa batteria distorta. Poi aveva dentro sia la provincia, ovvero il posto in cui sei, sia lo spazio, gli altri continenti, insieme a "un centro di gravità almeno momentaneo" da trovare.

Nel disco citi una quantità impressionante di posti: sembra quasi che ti sia divertito a mettere bandierine su una cartina geografica nelle singole canzoni. Sono i posti in cui sei stato durante i tuoi viaggi?
Sì, più o meno. In realtà la cosa importante è che mi hanno regalato un orizzonte più ampio e allo stesso tempo un ridimensionamento. Fare questi viaggi mi ha fatto benissimo e mi è servito per ridimensionare New York e tutti quelli che nel nostro immaginario collettivo sono i centri del mondo. Dici: "Ok, è una figata", ma in realtà nel momento in cui ci sei vedi che è una cosa reale e che ogni posto va bene, anche Ferrara. Alla fine dell'album ho messo "40 km", perché mi piaceva l'idea che "Costellazioni" finisse con questa cosa: "qui dove anche le rondini si fermano il meno possibile / qui dove tutto mi sembra indimenticabile". Come dicevano i CCCP: "Non a Berlino, ma a Carpi".

E i CCCP sono la prima cosa che viene in mente ascoltando "Ti vendi bene", che poi è anche il pezzo che si stacca di più dal resto. È l'azzardo più grande?
Sì, è vero, è stranissima. È un pezzo su cui ho lavorato parecchio perché mi chiedevo: "ma siamo sicuri di quello che stiamo facendo?" (ride, NdR), finché ho detto "Ma sì, va benissimo".

Apri tutto.
Sì, esatto. In ogni pezzo c'era il dubbio che stessi esagerando, ma mi piaceva l'idea di fare cose anche eccessive. Ci si rapporta a un disco in due modi ed entrambi mi facevano stare bene: da una parte lo consideri come se fosse il primo e l'ultimo, quindi provi a metterci dentro tutto; dall'altra mi dicevo: "vabbè, ma posso anche esagerare e farlo in questo modo, tanto magari ne faccio altri cento".

Questo atteggiamento ce l'avevi anche con gli altri dischi o ti sei un po' liberato?
Sicuramente è stato più liberatorio farlo. Mi sono concesso di attingere a tante parti diverse di me, di lasciar uscire colori diversi, mentre prima magari ne usciva solo uno. È stato come allargare l'orizzonte e difendermi di meno. "Ti vendi bene" ha evocato subito gli anni '80 dei CCCP e di Battiato e mi piaceva questa cosa che fosse urlata, ma non fosse rabbiosa: un po' come canticchiare "Sul ponte sventola bandiera bianca". Qui c'è una "bandiera rossa che trionfa solo sul mare in tempesta", la descrizione di una grande sconfitta, però senza il tono lamentoso o da lezione. Il ritornello è un "Ti vendi bene" che è più un dato di fatto, che una critica. È un pezzo che può essere tragicomico, o allegro e disperato, come un po' tutto il disco: "Questa notte buia e meravigliosa".

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In tutto l'album si sente una leggerezza e un'allegria maggiore. Magari mettendo questi due termini tra virgolette, ma si sente, anche dal coretto de "I destini generali": ti cambia la percezione del disco.
È assurdo quel coretto. "I destini generali" mi dà un'idea di inno e di illogica allegria, un festeggiamento senza senso: "evviva evviva la deriva economica". Mi sembrava di buon augurio per il disco.

Insieme a "Ti vendi bene", l'altro pezzo veramente strano rispetto a quello che hai fatto finora è "Blues del Delta del Po", in cui - addirittura - canti.
La cosa bella è che tutti mi stanno citando canzoni diverse per descrivere questo effetto di straniamento. È una cosa che prima non succedeva perché era un mood unico: qualcuna poteva piacerti di più, qualcuna di meno, ma era quello. "Blues del Delta del Po" è talmente sfasciato come pezzo che non l'abbiamo mai risolto davvero. Non riuscivamo a metterci l'elettronica, allora l'abbiamo risolta con questi contrabbassi suonati da Stefano Pilia, ma con amplificatori e distorsori e un piano fatto da Enrico Gabrielli. Mi piace perché parla di posti appena fuori Ferrara, sul delta del Po. Sono posti in cui c'è ancora una certa miseria, in cui i ragazzini lasciano la scuola appena possono, a 14 anni, perché vanno a vongole per guadagnare subito un po' di soldi. È un posto particolare perché c'è un dialetto diversissimo da quello emiliano e da quello veneto. Mi raccontavano che 40, 50 anni fa quelli che abitavano in quei posti erano considerati un po' come oggi vengono considerati i Rom. E poi il pezzo mi ricordava molto quando da ragazzino andavo a Pontelagoscuro a fare il bagno e ascoltare musica. I miei amici di lì lo facevano sempre, ma io che ero di città non l'avevo mai fatto e a ripensarci è una cosa assurda: c'era talmente tanta corrente che l'acqua sembrava pulita, ma in realtà era laidissima. Poi ho pensato che al Mississippi sono state dedicate intere canzoni, ma il Po non ha mai ispirato nessuno. C'è un intero genere musicale basato sul Mississippi, era importante fare qualcosa anche sul Po. (ride, NdR)

Il disco è molto più narrativo rispetto agli altri, sei d'accordo?
Sì, senza dubbio. Ci sono canzoni come "Blues del delta del Po" e "Sonic Youth" che sono completamente narrative. Ce ne sono altre in cui comunque le immagini sono a fuoco. Mi sono anche allontanato da un io narrante e da un riferimento di qualcuno a cui stai dicendo qualcosa. "Una guerra lampo pop" è una vera e propria storia, vista da fuori, di questi ragazzi. O anche "Ti vendi bene". Ci sono diversi piani, che va da chi canta e osserva una scena o una storia, a esserci in mezzo. "Padre nostro dei satelliti" invece è una specie di preghiera tecnologica: "Dio onnipotente dammi un lavoro qualunque", mi piace questa cosa che qualcuno possa pregare un dio onnipotente per chiedere un lavoro qualsiasi, è indicativo di un certo ribasso che c'è. E poi mi viene da pensare che c'è anche una possibilità che ti venga dato quello che chiedi, però se chiedi un lavoro qualunque il massimo che puoi avere è solo un lavoro qualunque e a fatica. Mi viene da dire che allora preferisco esagerare. "Le ragazze stanno bene" invece è la storia di queste due ragazze che si ritrovano dopo quattro anni e una dice all'altra che fortunatamente "non c'è alternativa al futuro", ma il pezzo non ha una storia precisa. Rispetto agli altri dischi c'è stato del lavoro in più sui testi. Per me era proprio importante provare questa cosa della narrazione: all'inizio avevo pensato anche a un concept, un'unica narrazione che si sviluppasse attraverso tutte le canzoni, ma poi ho capito che stava diventando troppo forzata e non avevo nessuna voglia di fare una cosa di questo tipo.

Soprattutto all'inizio dell'album, ad esempio in "Macbeth nella nebbia", c'è tanto parlato. È una cosa che arriva dal tour, dai pezzi recitati che facevi?
Non ci avevo pensato. In realtà anche quel pezzo partiva dalle due chitarre che si sentono e non si sentono, a cui poi abbiamo aggiunto le percussioni: una lunga suite di 12 accordi che si rincorrono. Continuavo ad ascoltarla, finché ho capito che avrebbe funzionato di più se ci avessi parlato sopra invece di cantare. Alla fine è uscita una roba simile a un pezzo hip hop, ma senza la cadenza stereotipata dell'hip hop, più libera. E poi c'è il ritornello con qualcosa di soul, c'è comunque una specie di forma canzone.

Quanto è importante per te la forma canzone?
Mi sono accorto che la cosa più sperimentale che potessi fare sarebbe stato usare la forma canzone pop, ma applicata ad altri generi. "Firmamento", ad esempio, è un pezzo su cui ho lavorato tantissimo a livello di testo, credo sia l'unico perfettamente in metrica e in rima: forma canzone perfetta, ma in un pezzo da un minuto e quaranta pestato. Mi sono divertito a fare questa roba qui.



Anche la copertina è molto diversa dal solito: c'è stato un cambio di immaginario totale?
Parlando di un disco, la prima cosa che viene in mente è la copertina, per questo mi piace lavorare da subito con il disegnatore. È da un anno che lavoro con Gianluigi Toccafondo, per capire insieme il colore del disco. Mi piace questa specie di Madonna, santa protettrice del disco e delle storie che ci sono dentro. Una figura protettiva e distratta, che pensa soprattutto a se stessa, un po' come tutti i personaggi di queste canzoni.

Gli Zen Circus hanno debuttato in classifica al nono posto, Dente al sesto, Brunori al quinto. La senti la pressione?
La pressione no, ma ho una bellissima sensazione rispetto a questa cosa: oggi ci sembra naturale, ma quando ho iniziato nel 2007 sarebbe sembrata una follia. Stiamo parlando di cifre bassissime, ma è indicativo del fatto che si possono fare cose particolari, profonde e allo stesso tempo popolari. E tutto si sta avvicinando alla realtà: non c'è più la divisione tra uno strano mondo televisivo/radiofonico e uno fatto da quelli che fanno solo i concerti. Un po' grazie alla gente che si è avvicinata a questa musica, ma il merito è anche dei gruppi, che non vogliono più chiudersi in una riserva alternativa, elitaria, come facevano invece negli anni '90. Soprattutto ai ragazzini, ai più giovani, di questa storia degli anni '90 non frega nulla. Vendi tanto? Cazzo, meglio per te. Siamo cresciuti negli anni '90, in cui i gruppi come Marlene Kuntz o Afterhours in teoria avrebbero dovuto chiedere scusa perché avevano venduto mille copie in più o stavano andando troppo bene. E questa cosa ti abbruttisce ed è suicida. Noi non chiediamo scusa a nessuno e non abbiamo nessuno a cui chiedere scusa: è una cosa positiva, abbiamo debellato questa mentalità. Ci sono gli ultimi che ancora hanno questa roba, ma sono contento che i gruppi forti riescano a uscire. Non ci credo più alla storia del genio incompreso. Grazie al web e a tante altre cose, se c'è una cosa che funziona va, altrimenti no. Prendi anche Sanremo: era insopportabile quando vedevi che chiamavano un gruppo per fargli vincere il premio della Critica e insieme per fargli fare il fenomeno da baraccone. I Perturbazione sono andati nel modo giusto: se ci vai devi andare per vincere, per fare una cosa bella e non per nasconderti.

Nel tour i pezzi vecchi resteranno con i suoni con cui sono nati?
Sono rimasti super-riconoscibili, ma li abbiamo avvicinati a quelli nuovi. Abbiamo fatto uscire cose che erano latenti nelle canzoni: magari invece del dren dren in primo piano della chitarra, c'è un piccolo beat. Abbiamo aggiunto semplicemente le basse e una ritmica per mischiare i pezzi al resto, per evitare dei buchi. Piuttosto alcune canzoni le farò io da solo chitarra e voce, per ricreare il percorso di questi anni. Il live passa continuamente da una dimensione intima a una di festa assurda e quindi ogni elemento sarà al suo posto.

Negli altri dischi si capiva quasi subito, anche per alcuni passaggi dei testi, quali sarebbero stati i pezzi che dal vivo sarebbero stati più urlati. Qual è la canzone nuova che potrebbe dare di più dal vivo?
Mi immagino "I destini generali", forse "La terra, l'Emilia, la luna", "Firmamento" è un pezzo che dentro la scaletta ci sta molto. È sempre una sorpresa scoprire quali pezzi arrivano di più. Nel disco scorso tenevo tantissimo a "Per respingerti in mare", che è la cosa più lontana dall'essere un singolo o un pezzo che può funzionare dal vivo e invece è diventato forse il pezzo più amato. E sulla carta è improponibile, non lo riesci neanche a cantare.

Quali dischi che hai ascoltato sono entrati in "Costellazioni"? O più in generale: mi dici un po' di cose belle che hai ascoltato?
Ho ascoltato davvero tantissima musica. Grazie a Spotify ho sentito anche roba che non mi piaceva e ho trovato comunque cose interessanti. La scelta di mischiare elettronico e organico è venuta da questi ascolti. Nel disco poi ho citato Sonic Youth e Smiths, roba con cui sono cresciuto e di cui ho sempre amato il fatto che fossero profonde, ma con una strana, malata allegria di fondo. È uscito anche il primo gruppo con cui suonavo a Ferrara: "Firmamento" è venuta così perché parlavo di quel periodo e mi è venuto da usare il linguaggio che usavo dieci anni fa, anche quindici a dire la verità. Perché quella roba di "Firmamento" è roba che ho suonato per dieci anni tre pomeriggi a settimana. Durante la lavorazione ho ascoltato moltissimo "Fantasma" dei Baustelle: loro partivano da questa cosa molto Andy Warhol di andare a Napoli e fare saltare i ragazzini cantando "Dovete studiare Baudelaire" che era geniale, mentre in "Fantasma" c'è un approccio serioso e con canzoni stupende. Mi sono piaciuti molto gli Iori's Eyes e quel disco è uno dei motivi per cui ho lavorato con Dragogna. Poi mi piace molto Maria Antonietta e l'ultimo dei Non Voglio Che Clara.

Che reazione ti aspetti all'uscita del disco?
Sono molto tranquillo. Di fronte a qualsiasi reazione ho la forza per dire che per me ogni cosa è venuta come volevo. Possono dirmi che è troppo pop, troppo blues, troppo folk, troppo punk, troppo elettronico, perché è più ogni cosa rispetto agli altri dischi, perché ogni cosa è stata spinta oltre. Si può dire tutto, ma non che non ci abbiamo lavorato un botto.
 

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L'articolo Gli anni 90 non ci sono più: l’illogica allegria del nuovo album de Le Luci della Centrale Elettrica di Marco Villa è apparso su Rockit.it il 2014-02-28 14:38:28

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